sabato 12 agosto 2006

La parola prima della musica

«Nessun uomo è un uomo qualunque/La sua vita può essere piena/Di un dolore che gli brucia il petto/E che gli fa piegare la schiena/Di un dolore che noi gli dobbiamo pagare in rispetto/Nessun uomo è un uomo qualunque/La sua vita può essere piena/Di un respiro che gli fotte il petto/E gli fa indolenzire la schiena/Del silenzio del mondo che compie un delitto perfetto». Claudio Lolli non è un personaggio qualunque. E non è un cantautore qualunque. E’ personaggio sino in fondo. E cantautore drasticamente lontano da ogni schema. O convenzione. Claudio Lolli è la parola, prima della musica. E’ la parola dura, tagliente, irriverente, drammatica, pessimista, brutale. Non teatrale: piuttosto, angosciata. E’ la parola dell’opposizione: politica, sociale, intellettuale. Sovversiva, dicevano una volta. Sgorgata dalla quotidianità degli eventi: soprattutto quelli più bui del dopoguerra italiano. Infarciti, troppo spesso, di lutti, di stragi. E di lotte clandestine, al limite del pubblico pensiero. Claudio Lolli è anche un poeta. Un poeta a suo modo: perché piace, oppure spaventa. Raccontando quello che altri non scriverebbero mai («Io ti racconto lo squallore di una vita vissuta a ore/Di gente che sa non sa più far l’amore/Ti dico la malinconia/Di vivere in periferia/Del tempo che ci porta via/…Io ti racconto settimane fatte di angosce sovraumane/Vite e tormenti di persone strane/E di domeniche feroci passate ad ascoltar le voci/Di amici reclutati in pizzeria/…Io ti racconto tanta gente che vive e non capisce niente alla ricerca di un po’ d’allegria/… Io ti racconto il carnevale/La festa che finisce male/Le falsità di una città industriale). Un poeta che continua a preferire le parole, minimizzando le sonorità. Da un po’ di tempo, peraltro, delegate alla sola chitarra di Paolo Capodacqua, che lo accompagna nei live, come quello consumatosi nel cortile del Castello di Carovigno (rassegna Interferenze Sonore, a cura di Pino Marella). Lolli, ormai, canta pochissimo. Anzi, difficilmente. Legge i suoi testi sulle note macinate da Capodacqua. Talvolta, le accompagna: ma l’effetto è sapido, forte. Anzi, le parole pesano e feriscono di più. E lo scenario si confonde tra sarcasmo e triste ironia, tra versi e confidenze, fotogrammi che si rincorrono e disincanto. La scaletta tocca i brani tradizionalmente più pubblicizzati, ma il verbo è improprio. Lolli, bolognese, cinquantasei anni, possiede una cerchia di estimatori ristretta e non se ne duole troppo. Non è uomo da palcoscenico ampio, non è artista da plebiscito. Difende la sua musica di nicchia, con il timbro di intellettuale un po’ snob che rifiuta orgogliosamente. Lolli, diciamolo pure, non è per tutti. E per pochi sono anche le sue canzoni di rabbia, la sua avversione per il potere. Di qualunque provenienza. Il percorso del concerto si presenta come un viaggio nel passato, tra le maglie delle sue composizioni più significative. Attacca con “La Fine del Cinema Muto”, del millenovecentottantotto («Anche noi abitiamo in un cinema/E siamo in bilico ad ogni minuto»), proiettandosi poi nei farraginosi anni settanta, con una ballata anarchica di fine ottocento arricchita da un testo che rievoca il caso Calabresi-Pinelli, maturato in uno dei momenti più difficili dell’Italia repubblicana: senza nascondere un paio di verità («Non ho più la percezione degli anni che passano», fa sapere al pubblico, ma «tutti abbiamo la percezione di vivere nel migliore dei mondi possibile». Sbagliando, probabilmente). E allora, sùbito dopo, diventa inevitabile soffermarsi sulla forza e l’arroganza del potere: “Analfabetizzazione” (1977) è un classico che ne accetta il linguaggio, sfidandolo. E preferendo osservare la storia dalla parte dei vinti, invece che dei vincitori («Non ho mai avuto un alfabeto tranquillo, servile/Le pagine le giravo sempre con il fuoco/Nessun maestro è stato mai talmente bravo/A respirare il mio ossigeno/E il mio gioco/E il lavoro l’ho chiamato piacere/Perché la semantica è violenza, oppure è un opinione/… E il potere, da quel giorno, m’insegue/Con le sue scarpe chiodate di paura/M’insegue sulle sue montagne/Che io chiamo pianura». Anche “Adriatico” è un’immagine del potere, ma «quello più subdolo e quotidiano», ancorato ai ricordi di una gioventù introversa («Ecco il bicchiere dentro cui anneghiamo»). Le note continuano ad alternarsi alle parole (tante): si passa da "Dita", composta con Paolo Capodacqua (che, nel corso del live, ottiene due spazi propri, trasportando in italiano anche una celebre composizione di Georges Brassens), a “Da Zero e Dintorni”, da “Folkstudio” (scritta per ricordare la figura di Giancarlo Cesaroni, creatore dell’omonimo scantinato romano dal quale sono passati gli autori più ispirati di una generazione) a “Quando la Morte Avrà” e ad “Anna di Francia” («Non sarò quel cielo grigio, quel mattino/Il dentifricio che fa a pugni con il vino/Non sarò la tua consolazione/E neanche il padre del tuo prossimo bambino/Ma per questa volta almeno sarò la tua libertà). I “Musicisti di Ciampi” è, invece, un tributo a Piero Ciampi – autore profondo e mai accarezzato dal successo, né dal semplice consenso popolare - : tributo sentito, perché «una persona che soffre merita sempre qualche verso o, come in questo caso, quattro quartine» («E lui sa/Che avrà da fare ancora/Con il vento»). “Ho Visto Anche degli Zingari Felici”, infine, suggella il cammino alla ricerca della malinconia e di quel tempo perduto che, intanto, non sembra essere neppure trascorso o che sembra essere passato invano. Soprattutto perché le tematiche già conosciute e discusse ieri sono anche quelle di oggi: «E’vero che non ci capiamo/Che non parliamo mai in due la stessa lingua/E abbiamo paura del buio e anche della luce, è vero/Abbiamo tanto da fare/Che non facciamo mai niente/E’ vero che spesso la strada sembra un inferno, una voce/In cui non riusciamo a stare insieme e dove non riconosciamo mai i nostri fratelli». Due ore di frasi e accordi, di risvolti amari e ricordi: ma la voglia di raccontarsi c’è ancora. Sfilano, in sequenza, “Curva Sud” («L’Italia bagnata e sospesa nel troppo silenzio/Di un cielo confuso e una scritta-reclame/Che ci osserva dal buco ed è dipinta di blu/Si apre uno stadio fantasma/Una luce accecante/Ma senza notturne/Si sentono cori, bestemmie infelici/Della curva sud») e “Vecchia Piccola Borghesia”, che chiude anche la sezione dedicata ai bis. Gli accadimenti più o meno recenti, però, obbligano a integrare il testo («Vecchia piccola borghesia/Vecchia gente di casa mia/Per piccina che tu sia/Il vento, un giorno, ti spazzerà via»), pensato con l’energia e l’ingenuità dei diciott’anni, con due avverbi di realismo che appassiscono le certezze sessantottine: «forse, eventualmente». Senza, per questo, svuotarle: la lotta pura di Claudio Lolli prosegue. Temeraria.

Claudio Lolli (voce e chitarra) & Paolo Capodacqua (chitarra)
Carovigno (BR), Castello Dentice di Frasso
Interferenze Sonore 2006

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)