lunedì 24 dicembre 2007

Intimità nel gelo

Amalia, intimamente. Quasi sussurrando, con quella voce che sa navigare nelle note. Ma sempre misurata, calcolata, distribuita in dosi contenute. Amalia Grè è la musica che non vuole aggredire. E' una voce che non vuole abusare di se stessa. Ed è un personaggio che non ama debordare. Anche la gestualità è discreta. E l'approccio al concerto può persino sembrare un po' algido. La ragazza detta sul palco il suo talento, ma senza approfittarne. Poi, la notte di Locorotondo è umida e gelida. E il palcoscenico è esposto all'atmosfera amara, a immediato ridosso della campagna di Val d'Itria. Amalia è una vocalist infreddolita: non fa nulla per nasconderlo. Né per dimenticare di averlo più volte sottolineato. E' infreddolita e, per questo, forse un po' fredda, distaccata. Certo, il live non si priva di una godibilità di fondo, ma non decolla mai per davvero. Probabilmente, anche perché - quando potrebbe farlo - esaurisce il suo viaggio. L'esibizione, cioè, è corta (sessantacinque minuti, bis compreso) e la platea abbastanza indisciplinata. La stagione concertistica del Mavù parte con un nome divenuto importante: e anche giustamente. L'artista ostunese si è guadagnata speso specifico e spessore con ottime produzioni discografiche, critiche generose e una partecipazione recente nel gran circo mediatico di Sanremo. E la stessa location, da un po' di tempo, ha abituato i frequentatori della notte a proposte stuzzicanti. Le premesse migliori, dunque, ci sono. Però, manca qualcosa. La Grè non frantuma la patina di gelo (meteorologico e figurato) tra la scena e il pubblico, limitandosi. Trattenendosi. Non concedendosi mai completamente. O, almeno, questa è la sensazione. Anche se l'idea fondamentale è felice: perché galleggia tra jazz e pop, tra standard (una sofisticata e interessante versione di Moon River, ad esempio) e produzione propria, tra inglese ed italiano. Puntando deliberatamente sulla modulazione della voce e sulla delicatezza, che restano due punti di riferimento all'interno del suo bagaglio musicale. Di più: Amalia Grè interagisce assai poco con la gente, spendendo pochissime parole: quelle che ribadiscono gli inconvenienti atmosferici. Crediamo che, a certi livelli, non basti. E poco importa se il pianoforte è uno solo (in sede di presentazione, invece, il concerto prevedeva due pianisti). Anche perché Michele Ramauro sfrutta benissimo il suo, regalando momenti agili e vivaci e sonorità amabilissime. Il quartetto, peraltro, si appoggia sul basso di Marco De Filippis e sul timbro marcato della batteria governata da Alessandro Graziani. Talvolta, infine, Ricchezza Falcone garantisce le scene: compensando, in qualche maniera, la distanza tra la voce e la piazza. Diciamola tutta, allora: avremmo immaginato un concerto più caloroso, più avvolgente. Anche più ricco, sotto il profilo della quantità. Un concerto nato soprattutto per dignificare l'ultima fatica discografica della cantante pugliese, "Per Te": anche intrigante sotto il profilo musicale, ma - riteniamo - complessivamente banale nei testi in italiano. E questa volta, almeno, Amalia Grè e la sua voce possono ritenersi in credito.

Amalia Grè (voce), Michele Ranauro (pianoforte), Marco De Filippis (basso acustico e basso elettrico), Alessandro Graziani (batteria) e Ricchezza Falcone (scene)

Locorotondo (BA), Mavù Club

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sabato 15 dicembre 2007

L'oriente sudamericano

Il violino e la voce arrivano da Tokio: la morbida raffinatezza di Aska Kaneko si allarga e diventa intensa, vibrante. E anche le percussioni trascinano l’accento nippnico: Yahiro Tomohiro sa dosare il ritmo e le esplosioni. E’ l’anima orientale di Gaia Cuatro, un agglomerato di suoni speziati e anche veementi, di inventiva e intuizioni feconde. E, qualcuno dice, anche un azzardo musicale. Perché l’altra metà della formazione sorge nell’altra metà del mondo, nell’Argentina dei mille colori, e si consolida in Europa: anzi, in Italia. Con il pianismo fresco, ma anche vigoroso e colorito di Gerardo Di Giusto, un cordobés che ha lavorato (e, tuttora, lavora) anche con Javier Girotto. E con il contrabbasso di Carlos Buschini, detto “El Tero”, probabilmente il collante di anime così diverse. L’avrete capito: il live dell’insolito quartetto, penultima presenza nel cartellone di «Antiphonae Jazz 2007», per l’omonima associazione martinese costituiva – sin dall’inizio – una sfida nella sfida. Una sfida al conformismo jazzistico, concettualmente non troppo tenero con la proposta dei Gaia Cuatro e, più in generale, con la commistione di due universi (culturali, ancor prima che musicali) diametralmente diversi. Una sfida al pubblico di casa nostra, discretamente disabituato ad incontri così arditi. Una sfida all’intero progetto stesso, che – da ottobre a oggi – ha voluto presentare percorsi differenti che si incrociano e si sovrappongono al jazz: dalla pizzica e dalla musica popolare italiana rielaborata da Nico Morelli alle sonorità shorteriane di Ondina Sannino e Riccardo Di Stasi; dall’incontro tra il quartetto d’archi dei Vertere e la produzione originale di Pasquale Mega alla contaminazione intercontinentale. In attesa dell’ultimo concerto in programma, quello di Dado Moroni ed Enrico Pieranunzi: due pianoforti, insieme. E nient’altro.Una sfida, certo. Anche alle asperità meteorologiche. In questo caso, inattesa. E, purtroppo, persa: perché la neve e il ghiaccio sull’asfalto scoraggiano molti. Anzi, moltissimi. Privando della cornice adeguata un appuntamento variegato e venato di ritmi anche sostenuti, dove il jazz entra ed esce, lasciando il terreno all’improvvisazione, alla mescolanza di stili e sonorità, ad una contaminazione suggestiva che corre spedita, senza inciampare. «Ci siamo trovati nel 2003, a Parigi – spiega El Tero Buschini – e, da quell’esperienza, abbiamo capito che si poteva approfondire il discorso, partire con un progetto comune. Insistere. E non è assolutamente facile, al di là delle esperienze artistiche di ciascuno di noi, ritrovarsi: per ovvi motivi logistici. Eppure, ci stiamo riuscendo. In quattro anni, abbiamo realizzato anche due dischi: il primo registrato a Tokio, il secondo in Italia, a Udine». Il violino di Aska Kaneko impartisce la variazioni sui temi; la batteria etnica di Tomohiro è discreta, ma presente. E, all’occorrenza, vigorosa, impetuosa. Il fraseggio di Gerardo di Giusto è fresco, ma anche energico. Buschini si divide tra basso e contrabbasso, istruendo la navigazione tra jazz e funk, tra chacaraca e baguala, due sentimenti musicali profondamente argentini. Il concerto si mantiene sempre lieve, frizzante. Custodendo con sapienza la propria originalità e la sua musicalità generosa. E i protagonisti si spartiscono equamente spazi ed evoluzioni, slanci e propagazioni. Vincendo la sfida, superando il pregiudizio, abbattendo la diffidenza. E sconfiggendo, sul palco, la colpa di non possedere un nome ancora facilmente spendibile. Quello che, magari, avrebbe solleticato il coraggio di affrontare la neve incostante e il freddo aggressivo di Locorotondo.

Gaia Cuatro (Aska Kaneko: voce e violino; Gerardo Di Giusto: pianoforte; Carlos Buschini : basso e contrabbasso; Yahiro Tomohiro: batteria etnica e percussioni)

Locorotondo (BA), Auditorium Comunale

Antiphonae Jazz 2007

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mercoledì 12 dicembre 2007

Il mondo di Gaber

Il mondo di Gaber è questa contemporaneità controversa e irriguardosa dei sentimenti, lo spazio di quarant’anni discussi e intensi, è la nostra storia incerta, è la società difettosa che sfugge, è questa strada che si torce e si biforca. E’ un mondo reale, lo specchio di quel che siamo. La variante di quello che avremmo dovuto essere. Il risultato, lucido e scabroso, di quello che abbiamo voluto diventare. Ma il mondo di Gaber è quello che Gaber ci ha lasciato. Né più, né meno. Come se il tempo non fosse transitato. Perchè l’evoluzione degli anni non ci ha spronati, non ci ha modificati, non ci ha migliorati. E’ lo stesso mondo che Giorgio Gaber ci ha raccontato. Trent’anni fa. Vent’anni fa. E dieci anni fa. Ancora vigorosamente attuale, immutato. Con i suoi tic, le sue debolezze, i suoi opportunismi, le proprie convenienze, tutti i conformismi, le cattive abitudini. Il mondo di Gaber è sempre qui. Tra noi. E Raffaele Zanframundo, massafrese ormai navigato sui palcoscenici della finzione, ha voluto riproporlo. Davanti ad una platea, quella del Teatro Pubblico Pugliese, circuito per il quale ha assemblato “Mondo G”, spettacolo teatral-musicale presentato alla stampa a Crispiano e, successivamente, al pubblico dell'Ideal di Manduria. In attesa di esportare il progetto a Castellana, Massafra, Manfredonia, Cerignola, Andria, Molfetta e Sannicandro Garganico. Proposta fedele all’originale, chiariamo sùbito. Perché i monologhi e le canzoni del repertorio gaberiano sono esattamente quelli che abbiamo conosciuto, senza sofisticazioni o rimaneggiamenti. Ma soltanto estrapolati da contesti (e spettacoli) diversi e, quindi, assemblati in un nuovo percorso: ovviamente propedeutico all’omaggio (perché di omaggio a Gaber, dichiaratamente, si tratta) pensato da Zanframundo. Che, peraltro, si arroga soltanto il diritto di collegare testi e situazioni. Facendosi accompagnare dalla voce e dalla gestualità di Davide Berardi e da musicisti storicamente aperti alla progettualità e, talvolta, anche alla sperimentazione. Come Vittorio Gallo, sassofonista versatile e ispirato, Adolfo la Volpe – chitarrista di impronta moderna – e Vito Maria Laforgia, contrabbassista che ama l’improvvisazione e che cura la direzione musicale dello spettacolo.“Mondo G” entra sulle note di “Torpedo Blu” e si lascia scivolare tra concetti di solidarietà e appartenenza, tra ideologie e politica, tra valori e libertà, fobie e amore («una parola strana»), paure e ipocrisie, potere e corruzione: sondando la caratura dei rapporti, l’uomo tra la gente, la gente attorno all’uomo. Strisciando contro tutti gli egoismi. Toccando le angolazioni del mondo, che poi è il mondo di Gaber. E che è ancora il nostro mondo: anche se Gaber non è più tra noi. E anche se il tempo continua a incalzare. Mentre, alle spalle, sfila l’Italia che sopporta, l’Italia di chi non possiede nomi e cognomi facilmente spendibili. L’Italia raccontata ne “Il Conformista” o ne “La Democrazia”, oppure in “Destra e Sinistra” e “Se Io Sapessi”, in “Si Può” e “La Libertà”. «E’ vero – ammette Raffaele Zanframundo- : Giorgio Gaber è la radiografia del mondo attuale, che è poi la ragione che mi ha spinto a proporre questo spettacolo. Nel mio modo di essere uomo di teatro c’è dell’ironico e del decadente, del grottesco e del lirico: e, in quest’ambito, la sua figura ha rappresentato un versante della cultura europea che è quanto di più frizzante e vivo la scena teatrale italiana abbia prodotto negli ultimi anni. Lo spettacolo si concentra su un attore e un quartetto che agiscono su una scena scarnificata, in cui gli unici elementi visibili sono un tavolino e due sedie che ospitano vari personaggi». Tutti rigosamente credibili.

Raffaele Zanframundo (voce recitante) & il Quartetto G (Davide Berardi: voce; Vito Maria Laforgia: contrabbasso; Adolfo La Volpe: chitarra-looping; Vittorio Gallo: sassofono)
Crispiano (TA), Centro Polivalente

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martedì 4 dicembre 2007

L'emozione di un incontro

L’emozione di un incontro. L’incontro per un’emozione. L’incontro di due vecchi compagni di musica. La musica sempre nuova di un incontro che si perde nel tempo. Gino Paoli e Luís Bacalov. Due personalità e due storie. Il Teatro Orfeo di Taranto li accoglie e li riavvicina in un concerto che sostiene il cartellone e l’attività dell’Orchestra della Magna Grecia. Di cui il pianista argentino è, da tre anni, il direttore principale. “Eventi Musicali”, del resto, è una rassegna che si nutre di momenti speciali. Come un incontro particolare deve essere. «Ci siamo ritrovati sul palco, insieme, dopo un po’ di tempo». Bacalov viaggia sui ricordi personali. «Ci siamo conosciuti ed eravamo ancora giovani. Frequentavamo il gruppo di lavoro della RCA, io ero soprattutto un arrangiatore, allora. Ma poi ci siamo incrociati di nuovo, più volte. Questa, però, è la prima serata in assoluto in cui ci siamo divisi il palco. Anzi, in cui ho accompagnato Gino. Uno che, con il passare del tempo, migliora. Sì, adesso è ancora più bravo, adesso interpreta la musica anche meglio. Uno che non dimentica cos’è l’umiltà. E che non ha problemi a cantare spartiti altrui. E vi dico un’altra cosa: non c’è altro autore italiano che abbia scritto tante cose straordinarie». L’italiano fluente dell’argentino Luís divaga con garbo, planando su una fetta di storia del cantautorato di casa nostra. E Gino spiega al microfono, tra le note di sempre, la colonna sonora di un tragitto infinito, fiorito nei club degli anni sessanta, dietro quegli occhiali scuri e una voce ancora da plasmare, domare, accomodare. E, poi, finalmente affinata. Voce inconfondibile, impressa nella memoria collettiva. Il concerto è la scontata introspezione di un’epoca, di più epoche. Di un percorso (atteso: la gente è lì per quello) che congiunge i punti nodali di una vita condensata nella canzone. Ci sono i titoli più facili da ricordare (“La Gatta”, “Il Cielo in una Stanza”, “Senza Fine”, “Quattro Amici al Bar”, “Ti Lascio una Canzone”, “Sapore di Sale”, “Ma Come Si Fa”), ma anche le intense “Albergo a Ore” e “Coppi”, la tenchiana “Mi Sono Innamorato di Te” e poi, ancora, “Sassi”, “Averti Addosso” e persino un omaggio allo stesso Bacalov, che con Vinícius de Moraes, negli anni settanta, incise “O Velho e A Flor”, riproposta in un portoghese teneramente scolastico. Dunque, pochissime eccezioni a parte, il repertorio ampiamente previsto, macchiato di ricordi e solcato da incursioni strumentali che traducono motivi celebri utilizzati dal cinema: del maestro argentino, ma anche di Morricone. All’interno, va detto, di un live fluido. E non ingessato come l’ultimo proposto a queste latitudini (e che non ci piacque affatto) dall’autore genovese. Pochi anni addietro, a Saturo, c’era però la Vanoni. E, sicuramente, un’altra situazione. Dicevamo, piuttosto: il gusto dell’incontro. Sentite Paoli: «La qualità di un essere umano che vuole considerarsi vivo è l’umiltà. E umiltà è anche coltivare quegli incontri che arricchiscono. Purchè emerga la predisposizione ad imparare, ad apprendere. Chi ritiene di sapere non sa più niente. Qualsiasi incontro non può prescindere, però, neppure dal rispetto: per la musica, per le parole di una canzone, per le regole della musica. E ogni incontro permette di entrare in una nuova dimensione. Purchè ci si adatti alle contingenze». In questo caso, ad un ensemble orchestrale, che possiede tempi e rituali propri. «Io, quando canto, mi adatto a chi mi è vicino. Cambio interpretazione in base all’apporto offerto da chi suona al mio fianco». L’artista, cioè, non distribuisce solo musica, ma anche concetti integri, degni. Che valorizzano il personaggio, la carriera. Ad esempio: «Non scrivo canzoni per avere, ma per dare. E per formulare delle domande». Oppure: «La vita è un buffo gioco che ciascuno cerca di capire con le parole». Ancora: «La canzone è un’arte di seconda categoria, ma ha un vantaggio enorme: diventa di chi la canta. E un attrezzo: che chiunque può usare». Infine: «La poesia è una maniera di vivere, una strana signora che appare nei posti più impensati». La musica è passata, i messaggi rimangono. Raccogliamoli.

Gino Paoli (voce), Luís Bacalov (pianoforte e direzione) & l’Orchestra ICO della Magna Grecia di Taranto
Taranto, Teatro Orfeo
Eventi Musicali 2007/2008

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martedì 20 novembre 2007

Dischi - Come le Parole (Enzo Granella)

«E’ un disco un po’ pop, un po’ soul, un po’ rock. Cantautorale? Ma sì, se vogliamo è anche quello». Enzo Granella parla di «Come le Parole», il suo ultimo album, autoprodotto, assemblato e confezionato l’estate appena trascorsa e infine presentato anche al pubblico tarantino all’interno dello spazio vendite della Bottega Cochicho, caposaldo jonico del commercio equo e solidale. «Sono undici tracce – fa sapere l’autore – nate in maniera spontanea, che segnano una discontinuità con il passato. Diciamo che volevo svincolarmi da quel filone musicale che mi aveva sempre contraddistinto negli anni precedenti, che poi è quello etnico». Territorio, peraltro, a lungo navigato dal chitarrista tarantino, da tempo stabilitosi a Bari: prima con un ensemble che rievoca discrete nostalgie come i Maranjapoint e, successivamente, con i Radicanto, formazione che recentemente ha modificato il proprio percorso artistico e anche la propria line-up. Oppure, con i Kiltartan, un gruppo vicino alle sonorità celtiche.«Ho cercato di esprimermi liberamente, senza soffermarmi sulle esigenze del mercato discografico, dedicandomi specificatamente alla composizione dei testi: particolare, per me, sufficientemente nuovo, dal momento che, prima di adesso, mi ero limitato a delle stesure dialettali e, ovviamente, alla parte squisitamente musicale. Le sensazioni? Ritengo che “Come le Parole” si discosti nettamente dalle atmosfere etniche, basandosi su un vissuto personale e sulla leggerezza del messaggio. Malgrado mi sia sforzato di applicarmi su temi anche profondi. La matrice sonora, però, si avvicina al rock». Non quello duro, intendiamoci. Ma quello d’autore, appunto. Giusto per chiarire. Il chitarrista jonico propone argomenti di pubblica quotidianità: tra una nota e l’altra, condivisa con Alessandro Pipino (tastierista dei Radiodervish), il batterista ruvese Daniele Abbinante, il piano elettrico di Raffaele Stellacci e il flauto di Massimo La Zazzera, il disco parla dei sogni consumati in provincia, davanti al mare, di equivoci, immoralità, di libertà, di ideali e stati d’animo, ma anche dei discriminati e dei più deboli. Senze patine aggressive, senza parole eccessivamente ruvide o partorite per stupire o, peggio, per attirare l’attenzione. Quelle stesse parole che il corso di sociolinguistica dell’Università degli Studi di Bari ha preso in prestito per esaminarle: niente male, per chi è praticamente un esordiente, da questo punto di vista. Le parole che sono poi le fondamenta del brano che porta il titolo dell’intero album, impreziosito dalla presenza dei Diomira Invisible Ensemble (Vittorio Gallo al sassofono, Adolfo La Volpe alla chitarra elettrica, Pierpaolo Marino al basso e il già citato Daniele Abbinante).E, se il singolo “Pecore e Lupi” può essere definito una favola moderna, “Nazzica e Scazzica” è una canzone che incuriosisce particolarmente, anche per il suo lessico profondamente bimare (“Mi nazzico il bambino che c’ho dentro/ E s’addormenta/ Dorme e sogna / Cammina e rusce nel sonno/ Ma svela i segreti più nascosti/ Nel mio profondo/ Ma poi si sveglia e scazzica/ Non lo puoi più fermare nella danza/ E skama e zompa, gli scazzica la fame/ Di occhi, bocche e pane”). «Scriverla – continua Enzo Granella – è stato un divertimento, innanzi tutto. E solo i miei conterranei possono captare sino in fondo il senso di certe frasi». Attorno ad una voce matura, intanto, il tessuto sonoro resta di agile ascolto, mentre scorrono le parole. Come quelle di “Fuori”, l’ultima traccia: “Tu lo sai quanto dura un minuto/ Quanto a lungo so essere felice/ Tu lo sai quanto dura un minuto/ Cosa c’è nel mezzo, tra felicità e tormento”.

Come le Parole (autoprodotto, 2007)

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sabato 17 novembre 2007

Dischi - La Foule (Lisa Manosperti)

Ogni disco è un viaggio. Dentro la musica, dentro i suoi umori, i suoi colori. Dentro un progetto, all'interno di un tessuto di trame sonore. E il viaggio di ciascun artista è parellelo e convergente a quello di altri ancora: perché ognuno custodice angolazione, sensibilità, postura, tecnica e filosofia musicale proprie. «La Foule», l'ultimo disco firmato dalla voce di Lisa Manosperti per l'etichetta «Dodicilune», nel circuito commerciale da settembre, è anch'esso un viaggio. Ed è un viaggio ardito: con la sua filosofia e la sua postura, con la propria sensibilità. "Un voyage dans les lieux d'Edith Piaf", cioè un viaggio per i luoghi di Edith Piaf. Cioè di un'icona assoluta. Cioè, un percorso (periglioso, ammettiamolo) nelle maglie del passato, negli anfratti più suggestivi della musica d'autore francese, nell'opera acclamatissima di una personalità complessa e fascinosa che ha marchiato indelebilmente un'epoca. Undici tracce, alcune ampiamente conosciute (non poteva mancare "La Vie en Rose", ma ci sono anche "Les Feuilles Mortes", L'Accordéoniste", "Ne Me Quitte Pas" e "La Foule", che offre lo spunto per il titolo dell'intero album), undici interpetrazioni condivise con musicisti pugliesi (Davide Santorsola, Roberto Ottaviano, Felice Mezzina, Francesco Lomangino, Gaetano Partipilo e Nicola Pisani): è la Piaf di Lisa, è un tributo di buon gusto, ma anche gravido di personalità propria. Spieghiamo: la Manosperti non è la Piaf e, sicuramente, non ha la presunzione di esserlo. Eppure, riesce a creare ugualmente tanta atmosfera, senza autocondannarsi - per questo - a rincorrere il mito e quell'alone di maledettismo storicamente impregnato nel percorso musicale (e nella vita privata) dell'artista parigina. Eppure, il disco viaggia speditamente sui binari di una lucidità che scolpisce tutti i brani, ponderatamente arrangiati (da Santorsola e dalla stessa vocalist) e fortemente spruzzati di jazz, un jazz sempre presente e pregnante.L'interpretazione di Lisa piace perché appassionata. Più appassionata che aggressiva. E più avvolgente che tagliente. Ovvero, più melodica che frenetica. Più tenera, che tesa. Il viaggio è strutturato e il lavoro musicale che lo sorregge è evidente. E l'omaggio è privo di ovvietà, di decisioni scontate, di passaggi prevedibili: la perizia dei protagonisti del disco, ci pare, si pesa proprio qui. Perché il pericolo di impantanarsi, in una sequenza di cover (particolarmente prestigiose, oltre tutto), è sempre grande. Chi naviga i sentieri musicali lo sa. E chi non lo sa troverà facile immaginarlo. Ascoltando "La Foule", quella folla che - racconta Lisa nelle note di copertina - è un momento di solitudine. Cioè un'immagine, un'emozione, una condizione. La solitudine di una voce che s'insinua tra gli strumenti e il loro suono. E il suono è netto, solido.

La Foule - Voyage dans les Lieux d'Edith Piaf (Dodicilune, 2007)
Lisa Manosperti (voce), Davide Santorsola (pianoforte), Roberto Ottaviano (sax soprano), Francesco Lomangino (sax tenore e flauto), Felice Mezzina (sax tenore), Gaetano Partipilo (sax alto) & Nicola Pisani (sax baritono)

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lunedì 12 novembre 2007

Fiorella Tropicale

Il Brasile incanta. Ma fa anche tendenza, da qualche anno. Praticarlo, cioè, è una moda assai comoda, spontanea: dopo decenni di isolamento culturale. E mediatico. Non che adesso la gente, soprattutto in Italia, possieda un quadro chiaro sul Paese, la sua filosofia e la sua musica: anzi, le facili convinzioni che circondavano (e, spesso, stritolavano) quella terra al di là dell’Oceano si agitano ancora. Sminute, forse, dalla crescente informazione che caratterizza questi tempi difficili: ma ancora ben radicate, ben presenti. Il Brasile, ora, monta persino gli indici dell’audience. E, contemporaneamente e involontariamente, continua a provocare danni: pensate a quanta mediocrità musicale si avvicini alle sue sponde, pensando di confezionare un prodotto interessante. Impalcando, appunto, le proprie convinzioni sui luoghi comuni e sulla superficialità. Distruggendo la sua lingua e il suo bagaglio di fragranze, umori, sapori. Il Brasile chiama e attira. Non solo i mediocri, però. Del resto, si è lasciata attirare dal suo sinuoso richiamo, già in un passato transitato con la semplice pubblicità di nicchia e con il supporto delle traduzioni di Ivano Fossati, anche una signora della canzone italiana di qualità come Fiorella Mannoia. Che, da professionista attenta e da artista sensibile, ha raccolto la proposta, dignificandola però di attenzione e, soprattutto, di rispetto. E avvicinatasi ad un universo così composito con deferenza e umiltà. L’umiltà degli intelligenti: che, poi, sono i migliori. La Mannoia, ma ormai lo sanno in tanti, da gennaio gira per l’Italia diffondendo le note di “Onda Tropicale”, disco (da cui nasce il tour) che rilegge, riarrangia e – ovviamente – traduce in italiano alcuni classici e meno classici della musica popolare brasiliana. Esperienza nata da una passione assorbita progressivamente e da una forte attrazione, che l’interprete romana giudica particolarmente positiva: sotto il profilo umano (ha duettato, in sala di registrazione e anche dal vivo, con Chico Buarque de Hollanda, Lenine, Milton Nascimento, Chico César, Gilberto Gil, Caetano Veloso, Adriana Calcanhotto, Carlinhos Brown) e sotto l’angolazione professionale: tanto da consigliarne una seconda tappa, ovvero un secondo album di canzoni tratte dal repertorio della MPB, già ben avviato e prossimo alla pubblicazione. Operazione duplice che completa e amplia il primo approdo verso certe sonorità: e non potremmo dimenticare la fortunatissima (e sfruttatissima, da parte di molti autori, anche jazzisti) versione di "O Que Será", di Chico Buarque, sviluppata negli anni novanta. “Onda Tropicale” è un lavoro che ha estremamente stimolato Fiorella. Portandola diverse volte anche in Puglia, ad intervalli più o meno regolari: ricorderemo le tappe invernali e primaverili (a memoria: Bari, Lecce, Brindisi), alle quali si aggiungono gli impegni di agosto (Cannole, Barletta e, appunto, Ostuni). E imprimendole un atteggiamento che ci è sembrato più diretto, più immediato, forse anche meno affettato del solito. Più informale e persino più sciolta: ecco la Mannoia filobrasiliana, in ossequio alla terra che ha voluto omaggiare e, soprattutto, alla fantasia e alla giovialità del popolo che la rappresenta. Informale anche dentro il paio di jeans che sostituiscono il tradizionale abito scuro. E, ovviamente, nei passi di danza, ammiccati con frequenza. All’interno di una scaletta che, per evidenti motivi, ha integrato il repertorio brasiliano (insufficiente a coprire le due ore e un quarto di spettacolo) con qualche successo del passato (“Quello Che le Donne Non Dicono”, “Il Tempo Non Torna Più”, “Il Cielo d’Irlanda”, “L’Amore Con l’Amore Si Paga”, “I Treni a Vapore”, “Non Sono un Cantautore”) e con tributi sparsi (a Paolo Conte, con «la freschissima e colorata» “Messico e Nuvole”; a Sergio Endrigo, con “Io Che Amo Solo Te”; a Iavano Fossati, con “Panama” e “Belle Speranze”; e a Capossela, con “Che Cos’è l’Amor”). Una scaletta, peraltro, ben strutturata e abile a collegare temi e situazioni, autori e contesti storici e culturali diversi. E così, partendo da “Cravo e Canela” del mineiro Milton Nascimento, uno dei compositori brasiliani più geniali, e da “13 di Maggio”, versione mutuata dal repertorio di Caetano Veloso (che, in sintesi, racconta dell’abolizione della schiavitù in Brasile, datata 1888), sembra quasi naturale passare allo spartito di “Caterina”, brano italianissimo che, racconta la Mannoia, parla di un tipo di schiavitù più subdola, celata dietro altre cause. La voce, poi, riattraversa l’atlantico per intonare “Senza Paura”, traduzione di Sergio Bardotti di un vecchio testo di Vinícius de Moraes (“Sem Medo”), già utilizzato negli anni ottanta da Ornella Vanoni: che – per inciso – non fa parte di “Onda Tropicale”. E, immediatamente, si torna in Italia: tra le altre, è accorata l’interpretazione della fossatiana “C’è Tempo”, brano relativamente recente («Quando l’ho ascoltato per la prima volta, sapevo già che l’avrei cantato», ammette lei stessa) e molto energica appare la personalizzazione di “Dio E’ Morto”, canzone griffata Guccini che «ha quarant’anni, ma è ancora attualissima». Gli arrangiamenti sono calibratissimi, mai banali. Il sèguito, cioè la band, è di comprovata affidabilità. E, allora, si può sbarcare ancora in Sudamerica, provando a esprimersi (correttamente) in portoghese, con “Mama Africa” di Chico César, la consumatissima “Mas Que Nada” di Jorge Ben e l’altrettanta inflazionata “Sina” di Djavan (fa niente: qualche scelta è scontata, ma lo spessore artistico della Mannoia azzera ogni dubbio). E, infine, ci piace sottolineare la delicata performance di “Canzoni e Momenti”, tratta dall’opera di Milton Nascimento, uno dei momenti più intensi dell’intero concerto, vagamente imballato alla partenza, ma decollato (e poi esploso) abbastanza presto. Perché condito da voce, buon senso, concetti dosati e alta professionalità. Che, ancora una volta, riconosciamo ad un’artista pregiata, sicura di sé, affascinante. Con gratitudine.

Fiorella Mannoia (voce), Julian Mazzariello (piano), Marco Brioschi (tromba e flicorno), Bruno Giordana (fisarmonica e sassofono), Diego Borotti (sassofono e flauti), Massimo Fumanti (chitarre), Dario Deidda (basso), Elio Rivagli (batteria), Carlo Di Francesco (percussioni), Emanuela Gramaglia (cori) & Cristina Montanari (cori)
Ostuni (BR), Nuovo Foro Boario

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domenica 11 novembre 2007

L'Otello tra le Gnostre

Va bene, ci sono le castagne. Calde, arrostite. E le noci. E poi le zuppe, gli involtini, il cinghiale e quanto una sagra - ben definita e molto ben divulgata - sa offrire. Novello compreso, ovviamente. Perché è quello che si festeggia a Noci, nel tradizionale appuntamento di «Bacco nelle Gnostre», tra vicoli e piazze del borgo antico. Va davvero tutto bene, ma serve anche il programma musicale di supporto. Ecco, allora, diverse location e differenti indirizzi sonori. E, tra le varie proposte, s'inserisce l'intervento di un amico antico, di un cantore fiero, di un ambasciatore di storie di ordinaria quotidianità meridionale: Otello Profazio da Rende, Calabria centrale, sud profondissimo, mastru cantaturi ancora fortemente motivato. E testimone di quella letteratura popolare che, a settantatre anni anni (ben trasportati), continua a ricercare nella provincia lontana e a proporre. Non rinunciando - è notizia fresca - a collaborazioni nuove, come quella appena saldata con un gruppo emergente di queste terre, la Banda Wagliò di Alberobello. Profazio - sia chiaro, però - è quello di sempre: dissacrante, ironico, sferzante, incisivo, tagliente. Governa il palco con l'autorevolezza dei saggi e la spavalderia dei più navigati. E intrattiene il pubblico verbosamente, tra gli accordi della chitarra e il retroterra che si spalanca dietro ogni canzone, ogni ballata. E' il Profazio paradossale di "Qua Si Campa d'Aria", singolo di un disco storico che ha venduto un milione di copie e forse anche di più, qualche tempo fa. Ed è il Profazio di "Filo di Seta", album recente di racconti piccanti, attinti qua e là, a costo di non poche fatiche e di richieste pressanti, direttamente alle fonti, scavalcando il pudore popolare delle donne di una volta. Ma attorno, è scontato, si agitano i canti del sud, di tutti i sud: della Puglia e della Lucania, dell'Abruzzo e della Calabria, delle Madonie e, perché no, dello spoletino, che proprio sud non è. Ma fa lo stesso. Dove il massimo comun divisore è la vita ardua, la terra amara, le piccole ricchezze: come l'asino (no, meglio: il ciuccio), più prezioso di una moglie o di un padre. La cui perdita è lutto vero, un lutto più stretto. Dove la cultura contadina è mito ed è realtà. E la realtà di oggi è quella di ieri. Basta ripercorrere brani datati, del primo dopoguerra: quando i più umili maledicevano le tasse e il governo. Ora il nemico possiede un nome più fine e si chiama pressione fiscale, eppure non è cambiato niente. Profazio è la passione e l'immediatezza di sempre. La busta di plastica che si trascina è un pozzo di dischi da passare in rassegna. C'è anche quello confezionato con le poesie di Ignazio Buttitta. Al suo fianco, due partner pugliesi: Davide Torrente al tamburello e Germano della Banda Wagliò alla fisarmonica. Il bicchiere (novello, sì) si svuota discreto. Proprio mentre transitano le ombre dei maestri del passato. Il concerto è soprattutto per loro, un tributo naturale. A chi ha edificato la storia della canzone popolare italiana, a chi ha attraversato il Paese tramandandone spicchi di tradizione, a chi ha contribuito a disegnare un'epoca. A chi non c'è più. «Rosa Balestreri è morta. Maria Carta è morta. Matteo Salvatore, il più grande, è morto. E io non mi sento tanto bene».

Otello Profazio (voce e chitarra), Davide Torrente (tamburello) & Germano della Banda Wagliò (fisarmonica)
Noci (BA), Piazza Garibaldi
Bacco nelle Gnostre 2007

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sabato 10 novembre 2007

Dischi - Two in One (Larry Franco)

Fedele alla linea, alla sua passione di crooner, al suo jazz quasi dimenticato – diciamo anche stagionato, non è un’infamia -, così fortemente anni cinquanta. E anche qualcosa in meno. Con il suo bagaglio di compostezza, che sa di garbo e di tempi distanti. Fedele alla strada tracciata, che non ha mai abbandonato. E che, ne siamo certi, non tradirà mai. Perché quel jazz datato, quelle note di Natalino Otto o Gorni Kramer, quel jazz italiano del dopoguerra, quegli standard made in Usa e quelle trame dixie sono il suo mondo, la sua palestra, il suo modo di sentire (e fare) musica. Eseguita puntualmente in patria (è tra i musicisti di casa nostra che produce più live, dentro e fuori la Puglia) e anche oltre i confini nazionali (Cuba, Romania, Marocco, Australia, Dubai: e dimentichiamo qualche altra mèta più o meno recente).Larry Franco è un pianista e una voce che ha ritagliato, negli anni, un proprio spazio. Coltivandolo attentamente, anche con spirito manageriale: curando i contatti, promuovendo capillarmente i propri progetti: e, quindi, sponsorizzando se stesso e il gruppo che lo segue assiduamente (il contrabbassista Ilario de Marinis, il batterista Enzo Lanzo, il sassofonista Michele Carrabba, il banjoista Renzo Bagorda). Incidendo, anche. Anzi, facendolo spesso. E sì, perché Lorenzo Franco detto Larry, tarantino di Fragagnano, corre spesso in sala di incisione. Persino più di una volta all’anno. E l’ha fatto anche ultimamente. L’ennesimo disco a suo nome, peraltro, è appena stato confezionato (viene distribuito proprio in questi giorni), si chiama «Two in One» e vanta l’etichetta Philology Jazz. Le dodici tracce posseggono una particolarità: possono essere considerate ventiquattro. E questo perché ogni passaggio mistura e sviluppa due spartiti diversi, che Franco interpreta con la sola voce, senza dedicarsi allo strumento. Voce accompagnata, sempre e soltanto, dal piano. Di alcuni amici, ma – soprattutto – artisti di solida militanza e riconosciuta classe: come Dado Moroni (presente in “These Foolish Thing” e “Portrait of Jenny” e in “You’d Be So Nice to Come Home to” e “In Cerca di Te”), Franco D’Andrea (in “East of the Sun and West of the Moon” e “Merci Beaucop” e in “Wild Waves” e “Do You Know What it Means to Miss New Orleans”), Nico Morelli (in “Sweet Georgia Brown” e “Non Sparate sul Pianista” e in “”My One and Only Love” e “le Tue Mani”), Renato Sellani (in “Donna” e My Foolish Heart” e in “Goodbay” e “Arrivederci”), Antonello Vannucchi (in “I’m Confessin I Love You” e “In un Vecchio Palco della Scala” e in “In a Sentimental Mood” e “Colpevole”), Eddy Olivieri, musicista tarantino stabilitosi a Los Angeles (“But Not for Me” e “Resta cu ‘Mme”) e, infine, Giorgio Cuscito (“Oh Lady Be Good” e “Marilù”). Ricapitolando, sette duetti, per cinquantasette minuti e mezzo di piano elegy, come lo stesso Larry Franco marchia l’intero lavoro, registrato tra la fine del 2005 e l’inizio del 2006 tra i due Mari e Roma, Bari e Milano e, infine, missato al Ciao Studio di Taranto. Dove, tra una tounée e la direzione artistica di alcune rassegne pugliesi, il crooner ama trovare nuove soluzioni discografiche. Fedeli alla linea, ci mancherebbe.

Two in One (Philology Jazz, 2007)
Larry Franco (voce), con Dado Moroni (pianoforte), Franco D’Andrea (pianoforte), Nico Morelli (pianoforte), Renato Sellani (pianoforte), Antonello Vannucchi (pianoforte), Edy Oliveri (pianoforte), Giorgio Cuscito (pianoforte)

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sabato 27 ottobre 2007

Se la pizzica incontra il jazz

Pizzica e jazz. Insieme. Fuse e servite in una soluzione unica. Che non vuol dire situazione ibrida. Né congestionata dall’esigenza di mescolare, di apparire e di rincorrere il mito della modernità che tanto piace ai discografici e al mercato. Quel mercato che si accartoccia su qualsiasi novità. Pizzica e jazz, non separati. Ma ciascuno con la propria funzionalità, con la propria personalità, con le proprie caratteristiche. Liberi di esprimersi, interagendo. Piazzate sul tappeto sonoro parallelamente, eppure abilitate a convergere. Sentimenti popolari e note ricercate, gli uni affianco alle altre. Sfidando gli istinti della logica. Evidentemente, si può. E il risultato è molto migliore di quanto si possa sospettare o prevedere. Lo dimostra «Un[folk]ettable», il disco (ormai sufficientemente datato, ancorchè ancora giovane) e, quindi, il progetto che Nico Morelli e il suo gruppo (quello italo-francese, con il quale il pianista tarantino viaggia da qualche tempo) hanno recentemente promosso oltralpe con la prospettiva di promuoverlo degnamente anche in Italia. Un’dea che, almeno per il momento, ha attirato la curiosità di «Antiphonae Jazz 2007», contenitore pronto a suggellare la rinnovata partnership con il Comune di Locorotondo. E, va detto, anche la curiosità popolare: del resto, il live del quintetto, aprendo ufficialmente il nono cartellone della rassegna, ha richiamato nella raccolta location dell’Auditorium Comunale un numero corposo di amici personali e di appassionati. Molti dei quali sono rimasti in strada, per sopraggiunto sold-out. Ad ascoltare, defilati. «Un[folk]ettable» rievoca foneticamente un antico successo di Nat King Cole, ma il prodotto è figlio legittimo di questi tempi, dove è pratica comune scavalcare il già ascoltato. Ma è anche la somma dell’incrocio tra un musicista pugliese (Morelli, appunto), un contrabbassista francese di origini croate (Stephane Kerecki), un batterista dal nome italiano e dall’animo e dall’accento fortemente francese che arriva dalla world music (Bruno Ziarelli), un polistrumentista della Normandia innamorato delle sonorità meridionali della terra di Dante (Mathias Duplessy) e una voce calabrese emigrata da anni lunghissimi a Parigi (Tonino Cavallo). Pensate, cioè, ad una commistione di queste proporzioni e immaginate il resto. Cioè una formazione effervescente, decisamente informale (qualche sprazzo di cabaret musicale regala simpatia e ammorbidisce i toni) e abile a incrociare due ambiti musicali (la pizzica e il jazz, dicevamo) distinti e distanti da sempre. Eppure, integralmente shekerati, in giusta dose: quanto basta per non complicare il cammino di nessuno. «Io sono pugliese – rivela Nico Morelli – e da sempre compongo jazz. Ad un certo punto, però, mi sono chiesto: “Perché suono jazz?”. E, allora, ho pensato che mescolare la musica popolare della mia terra e le sonorità jazzistiche fosse una buona intuizione. Certo, avevo necessità di un cantore popolare che conoscesse il repertorio: e, a Parigi, dove risiedo e opero, non è facile trovarlo. Ce n’è uno, però. Ed è l’unico: Tonino Cavallo, che ho prontamente coinvolto in questo progetto. La cui base musicale è quella tradizionale, riarrangiata (finemente, ndr) da me». E, aggiungiamo noi, puntualmente portata sui binari di un jazz limpido. Con naturalezza. Perché, attorno al cuore del tema, che attinge dichiaratamente alla pizzica, alla tarantella o a i motivi più classici dell’universo popolare (anche di area campana, per capirci), s’installano forti e chiari gli assoli e le divagazioni di preciso stampo jazzistico. Che mai rinunciano a un tessuto elegante, sia detto. E neppure ai ritmi serrati e alla licenza di improvvisare, che rendono la performance semple fluida e agile, capace di rimanere in piedi, da sola. Per due ore, senza trascinarsi. Tra titoli familiari (“Menamenamò”, “Contropizzica”, “Cantilena”, “Pizzica Strana” e “Antidoto alla Tarantola”) e un omaggio a Thelonius Monk, unico tributo alla galassia degli standard. Tra un rammarico profondo (la stampa francese, spiega Morelli, non ha decodificato e, dunque, apprezzato il lavoro discografico) e una consolazione: che la gente, la gente di Puglia, sembra aver ben accolto «Un[folk]ettable», un disco fabbricato in Francia pensando ai terragni orizzonti di questo fazzoletto di mondo. Ancora ispirato, ancora affascinante.

Nico Morelli Quintet (Nico Morelli: pianoforte e tamburello; Tonino Cavallo: voce, tamburelli e organetto; Mathias Duplessy: voce, chitarra, tamburelli e berimbau; Stephane Kerecki: contrabbasso; Bruno Ziarelli: batteria)
Locorotondo (BA), Auditorium Comunale
Antiphonae Jazz 2007

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domenica 21 ottobre 2007

Dischi - Seven (Massimo Carrieri)

Massimo Carrieri è martinese, ha trentatre anni e qualcosa da dire. E da dare. Con la musica. Con composizioni corpose. Di quelle che lasciano trasparire il lavoro che esiste alla base, nelle fondamenta. E' un autore giovane, ma sufficientemente navigato. Eppure, sgambettato dalla scarsa visibilità: sin qui. Perché assorbito da studi lunghi (di arrangiamento e orchestrazione, con Luís Bacalov), in Italia e anche all'estero (al Berkler College of Music di Boston, per esempio). Perché il ritorno alle origini (la Puglia, appunto) è un avvenimento ancora abbastanza giovane. Perché il pianismo contemporaneo è una zona ancora di frontiera: non è musica classica e non è neppure jazz o altro: e, allora, gli spazi per esprimersi si affievoliscono. Perché la materia è complessa: e poi possiede già i suoi miti, quei nomi e cognomi rampanti che un po' tutti conoscono e cominciano ad amare. E che, magari, prima o poi, apriranno la strada a chi è arrivato dopo, cronologicamente parlando. Massimo Carrieri è un compositore discretamente eclettico. Dentro la sua musica sgomitano impegno e intuizioni. Ma la sua carta d'identità è tuttora sconosciuta ad un pubblico più vasto. Anche a queste latitudini: che, alla fine, sono anche le sue. Malgrado abbia scritto pure per Antonella Ruggero. E nonostante si siano avvicinati alla sua fonte Nico Morelli o Massimiliano Pitocco, uno dei principi del bandoneón in Italia. Perché, forse, mancava un disco a suo nome, chissà. E la pubblicità è il motore del commercio: anche in campo musicale. Quel disco, però, ad ottobre dell'anno duemilasette è infine arrivato. E regolarmente presentato nel decentrato, ma accoglientissimo (e raffinato) Caffè Letterario Altrove di Crispiano: uno di quei posti di un tempo che escono dall'album dei ricordi o da quello delle nostalgie. Le nostalgie di un luogo che non si è mai creduto potesse esistere davvero, in questa Puglia di contraddzioni infinite. Dove la differenza è dentro l'atmosfera, nei soffitti affrescati o sul pavimento di quelle case di una volta. E parentesi chiusa. Il disco è "Seven", cioè "Sette", praticamente autoprodotto, partorito e gestito con calma e con cura, nel tempo. "Sette", perché sette sono le tracce - tutte ben strutturate - che lo assemblano. «Sette anche perché - confida l'autore - quello è il numero che mi accompagna da sempre in tutte le date importanti. E anche perché il lavoro è stato ultimato nel 2007: proprio quando, alla settima composizione, mi sono accorto di dover confezionare il prodotto. Di più: sette tracce con sette quadri distinti e, quindi, sette significati differenti». Album intimista e, sicuramente, anche molto intimo, "Seven" affonda le radici nella classica contemporanea e nasconde una storia suggestiva: «Esatto: è stato interamente registrato all'interno dell'Istituto di Meditazione e Preghiera "Le Sorgenti", tra Lecce e Novoli. Per scelta, la mia. Un giorno ci passai davanti e mi affascinò l'archiettura da castello medievale. Poi, è passato del tempo. Successivamente, a spartiti completati, volevo evitare la freddezza di uno studio di registrazione e la routine dei tecnici. Mi ricordai di quel luogo: ci sono rimasto cinque giorni, da solo. C'ero io e la strumentazione appositamente trasportata sin lì per autoregistrarmi: bastava premere un pulsante e suonare». Massimo Carrieri esegue quello che scrive, senza abbandonarsi all'improvvisazione. Che non fa parte, almeno per adesso, dei suoi progetti. Proprio perché il progetto è scrivere. «E, in effetti, scrivo da tempo. Sono arrivato alla registrazione tardi. Ma gran parte dei brani sono stati ideati nel periodo in cui studiavo e vivevo lontano da Martina, dove sono tornato due anni fa. "Romance", per esempio, è una composizione del 2000. Solo "Alba a Leuca" è abbastanza recente». E neppure il jazz rientra ancora nel progetto. «Anche se - continua - l'interesse con il jazz bianco, peraltro scoccato non più tardi due anni addietro, abbia contribuito a formarmi. Quelle note, non lo nego, mi attirano: ma non sono un jazzista. Scrivere jazz è un'altra cosa, occorrono altre logiche per farlo». E, scavando, neppure il mercato discografico è una priorità: «Assolutamente. "Seven" non nasce con pretese commerciali, ma per il desiderio di comunicare». Chapeau, maestro Carrieri. Il disco merita il successo. Se non altro, per le parole spese. Quelle che non tutti osano spendere. Perché il mercato pretende personaggi, prima di tutto. Abili ad autopromuoversi, soprattutto. Perché, oggi, apparire è sempre più conveniente di essere. E la regola non scritta recluta regolarmente soldati sempre più numerosi. Ma noi, in fondo, siamo inguaribili romantici: e attendiamo ancora fiduciosi il momento in cui l'apparenza mostrerà l'inganno.

Seven (autoprodotto, 2007)
Massimo Carrieri (pianoforte)

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domenica 14 ottobre 2007

Dischi - L'Immagine di Te (Radiodervish)

Ipotizziamo: il progetto-Radiodervish, sin dagli inizi, s’impregna di originalità, per niente scalfita dalle frequenti operazioni di avvicinamento altrui. La rincorsa a certe sonorità, cioè, esiste e resiste, assalendo da diverse direzioni: ma l’originalità, quando si scopre e appare, non sfugge ed emerge. Per questo, la gente avrà captato il messaggio, dilatatosi nel tempo. Accettandolo e incoraggiandolo. Quel messaggio che nasconde tra le note una sua limpidezza, un istinto diretto e profondo. E la versalità vocale di Nabil Ben Salameh, leader di una formazione ormai fortemente (e affettivamente) radicata nel territorio, quello di Puglia, ma facilmente esportata: e non da oggi. Una formazione che, di questi tempi, può essere considerata di culto: affermazione difficile, ma suffragata dai fatti. E non alberga il timore di ritrovarsi smentiti. E poi, ancora: la band galleggia sicura su indubbie qualità musicali, sapientemente shekerate tra gli arrangiamenti puliti e ricercati di Michele Lobaccaro e le composizioni solide, disposte ad affrontare il peso degli anni e gli attentati subdoli della memoria. Tra atmosfere mediorientali e la world music di impronta europea. Infine: certa musica è musica di questi tempi e occorre pure tenerne conto. La moda, cioè, trascina anche gli spartiti e si fa cavalcare. Le cause, forse, spiegano gli effetti. Ma, se non lo fanno, cambia poco. La verità è che ogni apparizione dal vivo dei Radiodervish crea attesa. Ovvero, affluenza: recentemente confermata a Conversano, in un live all’aperto con le controindicaziooni della tramontana e la concorrenza ingombrante del calcio in tv (la Nazionale giocava e vinceva). Non è poco. E ogni novità discografica del gruppo appulo-palestinese diventa un evento: come la presentazione ufficiale de «L’Immagine di Te», album di nove tracce griffato Radiofandango, avvenuta nell’affollatissima (e, per questo, angusta) ma preziosissima sede barese della Feltrinelli. Prima nazionale ovviamente: in attesa di pubblicizzare il prodotto (in commercio dal 19 ottobre) nel resto del territorio italiano: sfruttando, appunto, la catena dei punti Feltrinelli. Il lavoro segue il binario del successo evidente degli ultimi tre dischi realizzati dai Radiodervish (“Centro del Mundo” del 2002, “In Search of Simurgh” del 2004 e “Amara Terra Mia” del 2006), ma non lo rincorre. Non completamente, almeno. E non solo per il singolo che presta il nome all’intero album: una canzone, diciamo così, saldamente agganciata ai vagoni del pop. Partorita con un gusto meno esotico, forse a beneficio di un pubblico ancora più ampio. Che, riteniamo, sia uno degli obiettivi precipui della produzione, affidata a Pino Pinaxa Pischetola (responsabile del missaggio e della programmazione dei suoni) e, soprattutto, a Franco Battiato. La cui presenza, da questo punto di vista, è assolutamente itinerante, nonché vincolante. Lavoro basato su brani inediti, di amore e di vita, che sa continuare ad attingere dalle tonalità arabeggianti, ma che concede numerosi ammiccamenti alla musica largamente distribuita negli anni ottanta e anche alla disco music del decennio precedente. «Battiato, per noi, ha sempre costituito un punto di riferimento – svela Nabil -. Oggi, è anche qualcosa di più». Guida spirituale, ambasciatore nobile di un progetto che vuole ampliarsi, ramificarsi, complice di un sogno che vuole durare nel tempo. A dieci anni dalla costituzione del gruppo, che adesso può contare – dopo qualche apparizione fugace del passato – anche sul violino di Anila Bodini, che numericamente ha rimpiazzato il violoncello di Giovanna Buccarella, compagna di viaggio degli ultimi tempi. C’è sempre, invece, Alessandro Pipino, tastierista (e fisarmonicista) storico dei Radiodervish, che è anche il coautore musicale di tutti i brani (“L’Immagine di Te”, “Tutto Quello Che Ho”, “Babel”, “Se Vinci Tu”, “Milioni di Promesse”, “Yara”, “Avatar”, “Sama Beirut” e “Stella Briciola di Campo”). E c’è, alla batteria, anche Antonio Marra, il quinto uomo di una formazione che, se non cambia indirizzo, comincia a perseguire pure altre direzioni musicali. Evitando, se non altro, di ripetersi e di adagiarsi sulle fortune già conosciute. Affrontando, semmai, un altro problema: le reazioni dei più affezionati, abituati ad un certo cliché, fresco e raffinato. Reazioni che conosceremo presto. Consapevoli che il concetto di qualità è salvaguardato anche dall’ultimo disco. Da cui si può ripartire: avvicinandosi con fiducia.

L'immagine di Te (Radiofandango, 2007)
Radiodervish (Nabil Ben Salameh: voce e chitarra acustica; Michele Lobaccaro: basso e chitarra acusstica; Alessandro Pipino: tastiere; Anila Bodini: violino; Antonio Marra: batteria)


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venerdì 12 ottobre 2007

Coraggiosa Ondina

Napoletana vera, spontanea, estroversa. Fuori dal palcoscenico, Ondina Sannino è vivace, frizzantina. E, davanti al microfono, sa essere anche intrigante. Senza aggrapparsi alla prestanza della voce. No, non possiede voce potente, Ondina. Ma la sua voce sa avvolgere il brano, accompagnarlo: e sa modellarsi su di esso. Non ci sono forzature, ma molte sfumature. Forse, la sua musica non folgora e non rapisce immediatamente. Ma va pedinata e scoperta con calma, ascoltandola. E poi la voce porta in dote lo scat, quella vocalizzazione di sillabe senza senso compiuto che è uno dei suoi marchi distintivi. Che fa tanto jazz, quello di cinquant'anni fa. E che fa tanta atmosfera, senza però apparire anacronistico: perché reinventato sulla base di sonorità attualissime, come le sole percussioni di accompagnamento. E, comunque, perché sistemato in un tessuto sonoro adattato ai tempi. Malgrado il live presentato a Locorotondo dalla Sannino (anzi, dal suo settetto) abbia duplicato le note di Wayne Shorter e, dunque, una fetta del suo mondo musicale, galleggiato tra gli anni sessanta e quelli settanta del novecento.E sì: la seconda proposta di "Antiphonae Jazz 2007" è un omaggio (a Shorter, appunto) senza divagazioni, espressamente confezionato - già tre anni addietro - da un disco che, adesso, Ondina Sannino e il pianista Riccardo Di Stasi hanno avuto il piacere di presentare al pubblico di questa porzione di Puglia. Un disco generato, almeno in parte, con nomi diversi (in sala di registrazione c'erano Fabrizio Bosso alla tromba, Stefano Calcagno al trombone e Giuseppe La Pusata alla batteria; dal vivo si esibiscono Marco Sannini, Lello Carotenuto e Gaetano Fasano), che non si limita a trasportare gli spartiti e a rischiare gli arrangiamenti (firmati Di Stasi). Andando, invece, oltre. Perché il progetto è proprio questo: «Abbiamo selezionato una certa quantità di composizioni - ammette la Sannino - e formato il gruppo. Poi, mi sono preoccupata di scrivere dei testi che si inserissero nel contesto e che, dunque, sono un arricchimento postumo. E' stata una sfida. Difficile». Una sfida, esatto. Vinta con un pizzico di fascino (della Sannino: un fascino informale, non imbalsamato), con una sezione di fiati tosta (i già citati Lello Carotenuto e Marco Sannini e Giulio Martino), una batteria robusta (Fasano si fa sentire e, sonoramente, incide), un contrabbassista di indubbie e accertate qualità (Aldo Vigorito) e il coordinamento di un entuasiasta (e divertito) Di Stasi. Tutti centrifugati in un concerto dai tratti spesso marcati ma, a volte, delicati, che non rinuncia a dispensare immagini e colori. Immagini e colori disposti a sottolineare l'originalità della scrittura di Shorter. «Quell'originalità che mi ha conquistato», sussurra Ondina, di rosso vestita, napoletana di Castellammare che arriva dalla musica popolare, coltivata in tempi ormai lontani, vivace e sopantenea, estroversa e frizzantina, informalmente affascinante. E, evidentemente, anche coraggiosa.

Ondina Sannino (voce), Riccardo Di Stasi (pianoforte e trastiere), Marco Sannini (tromba), Giulio Martino (sax tenore e sax soprano), Lello Carotenuto (trombone), Aldo Vigorito (contrabbasso) & Gaetano Fasano (batteria e percussioni) in "Homage to Wayne Shorter"
Locorotondo (BA), Auditorium Comunale
Antiphonae Jazz 2007

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giovedì 11 ottobre 2007

Il Mediterraneo di Savina

Il Mediterraneo si apre. Sempre di più. Alle relazioni interetniche, all’interscambio artistico. Il processo di confronto e condivisione (di ideali: musicali e, quindi, culturali) procede sicuro, s’intensifica. Ne hanno parlato e ne parlano diffusamente, ne parliamo anche noi: da tempo. La novità non esiste. Registriamo, piuttosto, il fiorire di iniziative che tendono a consolidare i rapporti tra genti di estrazione e provenienza diversi: oggi assolutamente necessari e conseguenziali, a fronte dei mutamenti sociali del ventesimo e, soprattutto, del ventunesimo secolo. Il Mediterraneo si apre e, perciò, si restringe. Nel senso che le distanze si abbattono e che quel mare un po’ chiuso e bollente non è più frontiera, ma campo aperto. Malgrado certe occlusioni mentali resistano forte, un po’ ovunque. E nonostante lo scenario politico non produca troppi argomenti per rallegrarsi. Il Mediterraneo può essere attraversato anche nello spazio di qualche canzone, da una riva all’altra. Incrociando le rotte dei fenici e gli istinti migratori dei giorni nostri. Accompagnando l’esigenza di plasmare peculiarità differenti, abitudini diverse e religioni oppostre. Del resto, la canzone (tradizionale oppure no: fa lo stesso) e, più in generale, la musica hanno insegnato e insegnano a riunire. Obiettivo che anima anche la produzione di Savina Yannatou, greca minuta dalla voce duttile e marcata. Una di quelle voci abili a dispensare atmosfere senza tempo, a scavare in profondità, a strappare dalla terra – da tutte le terre – le nostalgie ancestrali, il dolore quotidiano, la bellezza dei momenti più semplici. Che, poi, sono i fotogrammi di una storia, di una storia comune. La storia di tutti noi: musulmani, cristiani, ebrei, atei e maroniti, conservatori e progressisti. Il fascino mediterraneo e l’eleganza spontanea di Savina Yannatou è riapparso sui palcoscenici di Puglia. Per l’occasione, su quello del Teatro Kismet OperA di Bari, che ha ospitato la terza puntata di “Soul Makossa”, la (ormai rituale) rassegna approntata dal dinamico Centro Interculturale Abusuan di Bari, un contenitore attento all’importanza e alla complessità del vocabolo “contaminazione” e del concetto di interscambio. Il live dell’artista ateniese, oltre tutto, costituiva uno dei cardini del cartellone dell’ottava edizione, interamente dedicata alla figura femminile. Scelta, peraltro, dettata da una particolarità del duemilasette, anno europeo per le pari opportunità e l’uguaglianza tra uomini e donne, direttamente promosso dal Parlamento di Strasburgo. E, allora, in un’ora e mezza ben strutturata, partendo proprio dalla Grecia, Savina e la “Primavera en Salonico”, formazione che la accompagna (contrabbasso, fisarmonica, violino, percussioni, chitarra, bouzouki e fiati) hanno immediatamente sconfinato nel repertorio dei canti del sud dell’Italia (dalla Sicilia alla Sardegna), dell’Armenia, delle terre arabo-andaluse, della Galizia, delle genti israelite e della Palestina (con una canzone tradizionalemnte eseguita nel corso delle ricorrenze di nozze). Non dimenticando la delicatezza terragna e quella leggerezza penetrante che attualizza il passato, riproposto con giochi vocali ricorrenti, ma non ingombranti. E regalando momenti di musica autentica, agile. Buona a sostenere l’idea di Mediterraneo su cui insistere e applicarsi ancora: anche se ne parlano tutti. Anche se le rotte che lo solcano possono rivelarsi eccessivamente sfruttate, prigioniere di una moda o, peggio ancora, di un’assuefazione. Nemici subdoli dai quali diffidare. Vigilando con cura.

Savina Yannatou (voce) & Primavera in Salonico
Bari, Teatro Kismet OperA
Soul Makossa 2007

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

mercoledì 26 settembre 2007

Dischi - Coloriade (Pasquale Mega Ensemble)

L’avevamo incontrato ed era emozionato, sinceramente emozionato. Annunciando il disco ormai ultimato, prima della pubblicazione. E l’abbiamo incrociato anche dopo, a lavoro già commercializzato: sempre emozionato, trasparentemente emozionato. Pasquale Mega è un musicista che non vi vive di musica, perché della musica non ha fatto una professione, ma solo una passione. Inconfutabile, duratura, forte, forse anche viscerale. Ma che anche per la musica vive. Dispensando, da anni, sprazzi di pianismo curato, vagamente colto, ma non didascalico e neppure elitario. Suonando quando c’è la possibilità e, soprattutto, quando emergono le condizioni: per interpretare un repertorio asciutto, nell’ambiente ideale, con le atmosfere adatte. E non solo per il gusto di apparire o di dimostrare di appartenere al panorama jazzistico pugliese. Preferendo i progetti o, meglio ancora, la progettualità: che va al di là della serata, dell’appuntamento, della presenza in una rassegna. E, ovviamente, al di là del cachet: che non può ingolosirlo e che, infatti, non lo ingolosisce. Proprio perché la sua musica non è un impegno, ma un piacevolissimo diversivo. Quella progettualità, del resto, sempre rimbalzata nei cartelloni di «Antiphonae», contenitore jazzistico di ormai solida tradizione che – detto per inciso – è una sua intuizione e una sua scommessa. Il suo disco è “Coloriade”, raccolta di otto pezzi collezionati al fianco di amici veri come i Vertere, quartetto d’archi made in Puglia, il contrabbassista martinese Camillo Pace, il batterista altamurano Antonio Dambrosio (del cui ensemble lo stesso Mega fa parte) e, infine, il trombettista romagnolo Marco Tamburini e il sassofonista Javier Girotto, due guest ciclicamente chiamati ad esibirsi a queste latitudini e puntualmente coinvolti dai jazzisti di casa nostra. Otto tracce dal sound pulito e dai toni marcati, pieni, ben assemblati. Oseremmo dire ricercati, senza tuttavia rinunciare al gusto della fruibilità. Otto occasioni di fare musica per un asolto attento, chiaramente nobilitate dalla presenza ingombrante (nel senso migliore del termine) di Girotto, che impartisce all’album delle venature precise e, per chi lo conosce e apprezza, inconfondibili. E, infine, otto modi di ritrovare Pasquale Mega alla direzione di un’idea accarezzata nel tempo, ipotizzata da tanto. E sgorgata con pazienza, senza affrettare i tempi. Un cd, peraltro, sostenuto e distribuito da «Dodicilune», su cui tocca evidentemente ripetersi: l’etichetta leccese, infatti, continua a offrire spazio agli artisti pugliesi che possiedono talento e freschezza interpretativa, avvicinandoli alla produzione di musicisti ormai riconosciuti a livello nazionale e internazionale. Assicurando, oltretutto, un prodotto esteticamente godibile, sin dal confezionamento (le copertine in cartone sono sempre curatissime: anche questo conta). “Coloriade” è un prodotto rifinito, dotato di personalità propria. Non complesso e neppure ostico, ma sicuramente indirizzato ad appassionati sensibili e anche discretamente esigenti. Del quale Pasquale Mega, nelle note di copertina, racconta le origini: «Da tempo avevo in mente di registrare alcuni dei miei brani utilizzando una formazione abbastanza insolita nel jazz: mi piaceva infatti l’idea di un connubio tra il classico quintetto jazz (sax, tromba, pianoforte, contrabbasso, batteria) ed il classico quartetto d’archi (…) Avrei voluto che il quartetto d’archi non fungesse solo da supporto (…), bensì fosse parte integrante del progetto (…)». Un prodotto, infine, transitato attraverso la perizia musicale e l’esperienza maturata da Luigi Giannatempo, arrangiatore cerignolano cui è stato affidato un passaggio fonndamentale («Le sue idee coincidevano perfettamente con le mie – fa sapere ancora Mega - ed inoltre i brani erano molto in sintonia con il suo mondo musicale». Garanzia di un cammino comune e proficuo. E di un disco al quale il suo líder maximo si è sentito strettamente legato, da sùbito, ancor prima di entrare nello studio di registrazione. Di questo siamo testimoni. Come di quel pudore serio e genuino che ha fortificato l’attesa di Pasquale Mega. Un pudore che - di questi tempi, santificati al concetto di supponenza dilagante - sconvolge un poco. Ma che non disturba affatto.

Coloriade (Dodicilune, 2007)
Pasquale Mega Ensemble (Pasquale Mega: pianoforte; Javier Girotto: sax soprano e sax baritono; Marco Tamburini: tromba e flicorno; Camillo Pace: contrabbasso; Antonio Dambrosio: batteria; Giuseppe Amatulli: violino; Ida Ninni: violino; Domenico Mastro: viola; Giovanna Buccarella: violoncello)

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

giovedì 13 settembre 2007

La voce delle donne

Un palcoscenico in accentuata penombra, un microfono. Una voce, una chitarra. Una donna. Lucilla Galeazzi canta la sua musica, che è un po’ la musica dell’Italia intera. L’Italia popolare di sempre, l’Italia trasversale e viscerale, sofferente e profonda, nascosta e sconosciuta. L’Italia dei quattro punti cardinali, delle campagne e delle risaie, della periferia e delle fabbriche. Quella che non passa dalle televisioni e dalle radio, dai canali istituzionali e da quelli commerciali. Lucilla Galeazzi è una donna. Sola, con la sua chitarra. E con la sua voce. Quella voce che è sintesi della voce e del pensiero di tanti. Senza volto. Una voce che persegue la lunga strada che parte dagli albori del novecento per solcare gli anni difficili della guerra, del dopoguerra e dell’indusrializzazione. Voce che arriva fluida alla contemporaneità di questi giorni: satura, modulata, gravida di emozioni, pregna di sensazioni. L’artista ternana è un’intuizione felice dell’Associazione “Terrae”, che ha voluto e preparato la rassegna “Domine – Tre al Femminile”, sponsorizzata dalla Regione Puglia e dall’amministrazione comunale di Gioia del Colle e presentata nello stesso centro della Terra di Bari, al Teatro “Rossini”. Felice malgrado la concomitanza ingombrante (e presumibilmente vincolante, considerata l’inadeguata affluenza di pubblico) con la diretta via etere della performance dell’Italia di Donadoni in Ucraina. Felice per il viaggio che porta in dote: viaggio nella penisola, senza rotta precisa, inseguendo il vento dei ricordi, le parole o, forse, l’istinto. Braccando le storie, il passato scomodo, i volti. Soprattutto i volti. «La musica popolare, diceva il mio maestro, non è fatta di note, ma di facce. Ed è un modo di intendere la vita e la comunicazione», certifica lei. E, così, il viaggio parte dalla Valnerina, nelle contrade di Norcia: proprio dove, anni addietro, cominciò il suo lavoro di ricerca, continua, assidua, attenta. Nei poderi, direttamente dalle fonti dei braccianti, nelle case. Ricerca mirata: dei motivi da tradurre in canzoni, ma – soprattutto – dei cantori, dei narratori. E proseguita, più tardi, tra le mondine o gli operai. Senza dimenticare di rielaborare i racconti di una guerra ormai lontana, ma ancora culturalmente vicina. Badando all’essenzialità nella melodia. Leggendo. E ascoltando (e riascoltando) testimonianze in vinile del patrimonio popolare. Poi, dalla Valnerina alla Toscana, la terra dei rispetti, vere e proprie forme poetiche. La Toscana di “Maremma”, artisticamente battuta da Caterina Aguero, un’altra donna della canzone sommersa di un’Italia infinita. Come Rosa Baldassarri, o Giovanna Daffini: dalle quali Lucilla Galeazzi si fa accompagnare, consigliare, indirizzare. Sul filo di una tensione che, però, non assale. E, dalla Toscana, si approda in Sicilia e, immediatamente dopo, si risale l’Appennino, toccando l’Emilia. La voce è duttile. Ed è una voce che parla essenzialmente di donne e del loro mondo, indissolubilmente legato agli accadimenti sociali di un Paese in evoluzione. Partendo dalle donne e dalla loro angolazione. Donne come Giovanna Marini. «Che mi ha insegnato tanto: ad esempio, il rispetto per questa musica e la capacità di reinventare un canto o una melodia». Dall’Emilia, allora, si navigano le acque basse delle risaie padane: la versione delle mondine di “Bella Ciao” è lenta e plastica, avvolgente. Ma Lucilla è anche autrice: “Voglio una Casa” è una storia popolare senza radici nel passato, ma con l’eredità genetica della tradizione. E produzione propria è anche un disco recente come «Amore e Acciaio», direttamente ispiratole da Terni, la sua città. Che è poi la terra di San Valentino e, al contempo, uno dei poli siderurgici italiani. E’ tempo, intanto, di tornare ad esplorare i sentieri del sud, entrando in Calabria (con un testo e una musica attinta dal repertorio di Ambrogio Sparagna) e, quindi, in Campania (è l’omaggio a Roberto de Simone). Ma il viaggio deve consumarsi: e lo fa nella vivacità del salterello («il cugino della tarantella, ritmo proprio di quelle zone che, storicamente, non fecero parte del Regno delle Due Sicile, rimanendo affrancate al potere del Papa»), ancora eseguito nelle regioni centrali di un’Italia che, talvolta, riesce persino a non dimenticare il proprio retroterra storico e culturale. Scansando il palco generalista delle televisioni e infilandosi tra la gente, nelle piazze, nei borghi storici, oppure nei teatri. Tre universi da cui - ostinatamente, orgogliosamente – qualcuno riparte. Ripercorrendo gli indizi della memoria.

Lucilla Galeazzi (voce e chitarra) in “Mi Do Arie”
Gioia del Colle (BA), Teatro “Rossini”
Domina – Tre al Femminile

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

sabato 1 settembre 2007

Sulla strada del turismo musicale

Se la vita è arte dell'incontro, forse la musica può essere considerata un incontro dentro le linee dell'arte. Almeno a Matera, in fondo ad un'estate meteorologicamente bollente e culturalmente abbastanza generosa: e, comunque, più che in altre occasioni, ci è parso di intuire. Un incontro attraversato da prove tecniche di turismo alternativo, dall'idea meravigliosa di un progetto duttile e, perciò, ulteriormente integrabile. E sostenuto dalla note itineranti del jazz. Un incontro che è poi la festa dell'Onyx, cioè una sintesi di live dislocati in diversi angoli del Sasso Barisano e del Sasso Caveoso, ma anche della Civita, ovvero del borgo storico della città lucana, di percorsi turistico-sonori, di intuizioni anche sufficientemente ardite per non sfuggire alla curiosità (il concerto all'alba, per esempio) e di degustazioni. Altrove, un'operazione come questa si chiamerebbe turismo musicale. Del quale, esplicitamente, magari non si parla. Ma che - di fatto - esiste: incidendo (positivamente) sull'economia locale. Pensate ad Umbria Jazz e alle attività stimolate dalla kermesse. E pensate ai pacchetti-vacanza collegati alle note dei Giardini del Frontone o del Teatro Morlacchi. Alle comitive che raggiungono Perugia con viaggi organizzati, da ogni angolo d'Italia. Ma prendiamo atto che, anche alle nostre latitudini, si cominci a pensare, ipotizzare, organizzare in questa direzione: e ne prendiamo atto con simpatia. Tributando della considerazione che merita il lavoro dell'Associazione Onyx e del suo promotore Luigi Esposito: che, di "Gezziamoci 2007 - La Via del Jazz", è ispiratore convinto. In attesa di essere anche estremamente convincente nei colloqui futuri con gli enti locali: che, peraltro, sembrano aver cautamente appoggiato l'evento. E che, però, dovranno fornire nuove risposte, fortemente concrete: quelle che servono a replicare la programmazione, a rafforzare l'impegno, a creare la continuità. Ovvero, i segreti dell'affermazione. "La Via del Jazz" è una proposta di fine estate inglobata nella consueta programazione, spalmata nelle quattro stagioni dell'anno, di "Gezziamoci". Dentro, c'è il fascino antico (forse, anche rivalutato) delle band itineranti (quattro, una per ogni giorno della rassegna: dall'Olivoil Jazz Band alla Jazz Moments, dalla Fanfara Populara alla Matera Street Parade), un fascino recentemente distribuito, dalle nostre parti, pure dal "Jazz Summer Festival" di Capurso. E c'è, poi, la soluzione "concerto più visita turistica in bus", attraverso alcuni dei luoghi più caratteristici di Matera (e, chi la conosce davvero, sa che sono diversi). E c'è, dicevamo, la magia delle note al sorgere del sole del quartetto di sassofoni Sax Four Fun, di fronte al suggestivo panorama delle chiese rupestri, appena oltre i confini urbani. Ma non mancano neppure i progetti originali, come "Fuori Fase", generato da Felice Mezzina e dall'Ensemble dell'Onyx appositamente per la quattrogiorni tra i Sassi. Oppure, gli ospiti che assicurano affluenza: come Mirko Guerrini (e il suo "Cirko", che praticamente chiude la manifestazione) e il più stagionato Lino Patruno, ancora motivatissimo conduttore di un viaggio immaginario negli albori del jazz, tra gli spartiti di Joe Venuti e Salvatore Massaro, di Louis Armstrong e Django Reinhardt, di Lang e Grapelli. Volti e situazioni sapientemente miscelati tra larghi, piazzette discrete, chiostri e testimonianze rupestri di indubbia suggestione, come il semplice eppure affascinante prospetto della Chiesa della Madonna de' Idris. La particolarità dell'idea, tuttavia, si ramifica nei dettagli: perchè i momenti musicali eseguiti dal vivo (non meno di tre per serata, ovviamente sincronizzati, alcuni presentati dopo la mezzanotte) sono parte integrante di diversi circuiti turistici che abbracciano l'intero bagaglio artistico e culturale di Matera. Ai quali si accede seguendo la banda itinerante, trait d'union sonoro dal pomeriggio alla sera inoltrata, dotata di un banditore e anche di una guida che si preoccupa di spiegare la storia di ogni singolo sito toccato dal percorso. Il resto, infine, lo fa la musica sparsa dal 30 agosto al 2 settembre: quella sicuramente meno jazzistica dei Têtes de Bois e quella manouche dei Les Manuages; quella più contemporanea dei Mas Que Nada, dei Jail-Break e dei Couleur Musique e quella ambiziosa dei Machine des Sons e del Quintetto Introverso; quella di largo respiro della Big Band del Conservatorio "Duni" di Matera e quella più tradizionale del Larry Franco Quartet e, appunto, di Patruno & His Blue Four. La musica che può (e deve) catturare, invogliare, canalizzare: per aprire nuovi orizzonti. Senza il sospetto di apparire (o sentirsi) svilita, utilizzata. Sembra arrivato il momento di provarci. Seriamente. E non solo a Matera.

Olivoil Jazz Band (Giuliano Di Cesare: tromba; Giuseppe Mucciaccia: clarinetto; Carlo De Toma: banjo; Michele Di Stasio: basso tuba; Saverio Pepe: banditore) in concerto itinerante
Fuori Fase (Felice Mezzina: sax tenore e direzione; Tommaso Capitolo: sax alto; Angelo Manicone: sax tenore; Emilio Tritto: sax baritono; Edoardo Cilla: sax alto; Michele Munno: sax alto, sax soprano e sax tenore; Michele Cappiello: sax tenore; Gianni Caputo: percussioni)
Les Managues (Umberto Viggiano: chitarra; Vincenzo Cristallo: chitarra; Giuseppe Venezia: contrabbasso) in “La Musica degli Zingari”
Lino Patruno (chitarra) & His Blue Four (Mauro Carpi: violino; Giacomo Bertuglia: contrabbasso; Michael Supnick: voce, trombone, cornetta e alto horn; Clive Riche: voce) ; guest Attilio Troiano (voce e sassofono)
Mas Que Nada (Michele Cappiello: sax tenore; Tommaso Capitolo: sax contralto; Renato Zaccagnino: chitarra; Daniele Quercia: contrabbasso; Giovanni Caputo: batteria)
Matera, varie location
Gezziamoci 2007 - La Via del Jazz

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

venerdì 24 agosto 2007

Pino Daniele è ancora qui

«Il Mio Nome E' Pino Daniele e Vivo Qui». Sembra aleggiare il sapore della rivendicazione, sembra sgomitare l'esigenza di evidenziare una presenza e un'appartenza. Sembra avanzare l'istinto di sottolineare una linea musicale, un percorso artistico, una storia. Più semplicemente, forse, è l'ultimo album ideato e confezionato da uno dei cantautori più prolifici del palcoscenico italiano. E, soprattutto, da uno degli artisti più radicati nel territorio discografico, senza soluzione di continuità. Da trent'anni: mese più, mese meno. Cioè, da un personaggio di culto: al di là delle tendenze del momento, delle mutazioni generazionali, dell'evoluzione (o dell'involuzione) di certe forme di comunicazione, anche nel campo delle note e delle sonorità. Esatto, perchè Pino Daniele, napoletano emigrato, canta e suona da anni lunghi, senza aver mai disperso la voglia e il coraggio di esprimersi, sentendo di aver ancora qualcosa da dire o da offrire. Rifugiandosi - è successo recentemente - in spartiti più morbidi, più etnici (diciamo pure più arabeggianti): in ossequio a quell'idea meravigliosa di comunicare con altre culture, con altre forze concettuali. In ossequio a quella corsa verso la commistione e la contaminazione che, da un po', sembra aver contagiato artisti nobili e meno nobili: e che sembra essere diventata (anche meritoriamente, sia detto) una delle priorità del Duemila. E allontanandosi, magari, da quelle atmosfere profondamente blues che avevano caratterizzato il suo approccio con il successo. Atmosfere che, peraltro, Daniele non ha mai rinnegato. Anzi, puntualmente rispolverato: alla prima occasione.E proprio l'ultima produzione discografica è il motivo trascinante del tour estivo, ovviamente fiorente di date, anche pugliesi, come quella di Ostuni. Tradotte in un concerto equamente (e simbolicamente) diviso in due parti, discretamente itinerante, guidato a due velocità distinte. Ma sempre con garbo, buon gusto, nei binari del buon ascoltare. Di là (la prima parte) le composizioni più giovani, più intime; gli accordi più dolci e curati, i toni - talvolta - quasi confidenziali, le tonalità più morbide e delicate. E la chitarra acustica, accompagnata da contrabbasso (quello di Rino Zurzolo, compare storico), batteria (c'è Alfredo Golino), piano (di Gianluca Polio) e percussioni (con la vivacità di Ernestico): un supporto essenziale, niente affatto invadente, ma anche generoso di spunti armonici. Nel segno di una sobrietà matura, che riesce a catturare. Di qua (la seconda parte del live) le canzoni più stagionate, più generose di suoni, più immediate all'assimilazione, più spedite. E' il momento in cui Daniele si alza e imbraccia la chitarra elettrica e il contrabbasso si fa sostituire dal basso: e, allora, sfilano vecchi ricordi come "Toledo", "Habana", "Io Per Lei", "Yes, I Know", "Che Dio Ti Benedica", "Io So' Pazzo". C'è il blues, adesso: e si sente. «Ma sono un napoletano che è andato via dalla propria terra - ammette -. E qualsiasi meridionale porta con sé, dovunque vada, il sentimento del sud. Per questo sono arrivato ad una conclusione: essere del sud è un modo di vivere che resta nella testa. E così conserviamo il nostro grande attaccamento alla terra». Parole utili per introdurre un brano spartiacque, un classico del primo periodo artistico - il periodo napoletano -, "Napule E'", degno di resistere in mezzo a due altri e ben definiti momenti storici di una carriera inseguita da due (o, forse, tre) generazioni. Ovviamente distribuite tra il pubblico. Ma il dato, questa svolta, appariva scontato. E ci avrebbe meravigliato qualcosa di diverso. Perchè la canzone italiana d'autore sa durare nel tempo: sempre che, alla base, convivano musicalità e spessore intellettuale. La tendenza di un momento o il frutto di una moda fugace e sfuggente, invece, affonda. E, davanti, non resta nulla.

Pino Daniele (voce e chitarre), Gianluca Polio (piano), Rino Zurzolo (contrabbasso e basso), Alfredo Golino (batteria) e Ernestico (voce e percussioni)
Ostuni (BR), Nuovo Foro Boario

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giovedì 23 agosto 2007

Applausi tra le ombre

Il Brasile è un sogno speciale, soprattutto per chi può sognare. Per altri, è terra aspra. E poi gli anni settanta sono un'epoca difficile: si propaga la cosidetta abertura, ma il regime militare è ancora presente, oppressivo. Jim Porto è un giovane artista arrivato a Rio de Janeiro dal Rio Grande do Sul, ma che abbastanza presto decide di scavalcare l'Atlantico e atterrare in Italia. Dove colora le notti del Manuia, uno dei locali preferiti della movida romana, movimentando la scena musicale, iniettando lo spirito del proprio Paese: che, a quei tempi, in Europa è ancora una macchia sulla cartina geografica, o poco più. Sono anni di gavetta, a metà strada tra il concerto e il piano bar. E quegli anni servono prima a sopravvivere e poi a vivere meglio. L'esperienza fortifica il ragazzo e il ragazzo rimane in Italia. Jim Porto, anzi, esporta la sua musica, solca la penisola e, nell'ambiente degli appassionati, si costruisce un nome sicuro. Pubblicando anche vinili e, più tardi, cd: come l'ultimo, recentissimo, "Live at Blue Note": alla cui realizzazione partecipa anche un jazzista rampante come Fabrizio Bosso, trombettista torinese che ama spaziare e che coltiva una precedente (ma ancora attuale) intesa musicale con un altro artista arrivato dal Brasile, Irio de Paula. Jim Porto, per capirci, non è una voce (e un pianoforte) qualunque: basti parlare di qualche antica collaborazione. Ad esempio, con Gilberto Gil e Milton Nascimento: non è poco. Anzi, il suo pianismo fluido, la sua facilità di espressione musicale, le larghe concessioni alla platea e un'esuberanza tutta sudamericana sono garanzia di spettacolo e buon umore. La capacità di reggere lo spettacolo è, oltre tutto, limpidissima: adeguatamente rodata nelle ore notturne spese tra cocktail e cornetti, in una Roma che non voleva dormire. Eppure, il live presentato in compagnia dei Narandiba a Cisternino, ultima proposta della quattordicesima rassegna "Pietre Che Cantano", dedicata (quest'anno, così come il prossimo) a diverse sonorità che partono dal Brasile, non ci ha particolarmente convinti. E non per i fondamentali musicali (innegabili) dell'interprete gaúcho (con l'accento rigorosamente sulla u: da non confondere con un gaucho argentino). Ma, soprattutto, per il taglio eccessivamente nazional-popolare (o commerciale, fa lo stesso) conferito al concerto, per la scelta (scontatissima; anzi, aggiungeremmo banale) del repertorio (Jim Porto ha raccolto una decina di brani brasiliani tra i più popolari in Italia, arrangiandone qualcuno in maniera, peraltro, convincente; senza però offrire qualcosa di più o di diverso: in due parole, accontentandosi e accontentandoci), per la formula un po' abusata (l'immancabile viaggio all'interno del Brasile) e per l'errata valutazione di considerare un festival (o una rassegna, fate voi) alla stregua di un piano-bar. E, ancora, per qualche sbrigativa versione di alcune composizioni importanti, all'interno della storia della musica popolare brasiliana: detto per inciso, non ci è sembrato affatto che ricordasse i testi di "O Que Será" di Chico Buarque de Hollanda (strofe invertite, altre tranciate, verbi modificati: e l'improvvisazione, in questi casi, non c'entra) o di "Aquele Abraço" di Gilberto Gil (e crediamo che la supposta sicurezza di incontrare un pubblico inconsapevole o particolarmente tollerante non può ragionevolmente salvarlo, nell'occasione). Intendiamoci, però: la gente si è divertita ed ha anche applaudito, con la giusta convinzione di chi non possiede le argomentazioni per dissentire, o di chi non può (o non vuole) approfondire. E, allora, va bene così. E, in fondo, va bene anche a noi, ci mancherebbe. Del resto, la musica, come una qualsiasi manifestazione di intrattenimento, deve piacere. Ma non sottoscriviamo l'approccio di Jim Porto al concerto e neppure molti dettagli. Come, appunto, quello di esimersi dall'offrire uno spaccato più preciso e aderente alla realtà (ovvero, lontano dal già troppe volte ascoltato) di un Paese come il Brasile: da parte di un brasiliano, oltre tutto, ci è sembrato ingeneroso. Una realtà che, diciamolo forte e chiaro, va oltre le famosissime "Aguas de Março" (tuttavia ben suonata e arricchita da vocalizzazioni intriganti, così care ai jazzisti), "Você Abusou", O Bébado e a Equilibrista" (bella versione, va detto), "Eu e Você" di Jobim, "Flor de Lis" e "Sina" di Djavan, "Mas Que Nada" e "País Tropical" di Jorge Ben, che sono brani ormai utilizzati da chiunque. Che siamo abituati ad ascoltare ovunque. E che non avremmo sospettato di incontrare (non tutti assieme, almeno) in una rassegna: una rassegna che gli organizzatori stessi definiscono, anche con legittimo orgoglio, di nicchia. Senza parlare dell'incursione, nella parte finale del live, di "No Woman No Cry" di Bob Marley: canzone che, sicuramente, fa audience, ma che poco s'inserisce nel contesto: malgrado proprio Gilberto Gil, ultimamente, ne abbia partorito una versione brasiliana. Un altro evidente omaggio alla globalizzazione. O, più probabilmente, alla commercializzazione. Appunto.

Jim Porto (voce e pianoforte) & Narandiba (Jurandir Santana: chitarra; Marco Frattini: basso; Maurício Melo: batteria)
Cisternino (BR), Piazza Vittorio Emanuele
Pietre Che Cantano 2007 - Brazillusion

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martedì 21 agosto 2007

Il ritorno di Girotto

In Puglia, Javier Girotto è ospite puntuale. Ci sta bene e ci torna volentieri. Forse perché le sue radici argentine confluiscono a Fasano. Forse perché il movimento musicale, tra lo Jonio e l'Adriatico, è sempre vivido, stimolante: e, pertanto, le possibilità di esibirsi riescono sempre a moltiplicarsi. Forse perchè l'ampia base dei musicisti pugliesi è di caratura assolutamente soddisfacente e, al loro fianco, si può ipotizzare, costruire, progettare. E, probabilmente, anche perché il sassofonista di Córdoba, negli ultimi tempi, ha allacciato rapporti strettissimi con il Vertere, quartetto rigorosamente pugliese di estrazione classica, ma dotato di ampi orizzonti. Impalcando un sodalizio artistico ormai cementato da un certo numero di live, da affinità evidenti, da sincera amicizia e dalla realizzazione di un lavoro discografico (Nahuel, uscito nello scorso mese di aprile con l'etichetta delle edizioni de "Il Manifesto"): già presentato a livello nazionale a Roma e, in ambito regionale, a Nardò e Noci (in Piazza Plebiscito, nel quadro di Nocincanta '07) e in attesa di essere divulgato dal vivo pure a Polignano (fine mese di agosto), Ruvo (ad inizio di settembre) e Locorotondo (in autunno inoltrato: il concerto farà parte del cartellone di Antiphonae Jazz 2007). Javier Girotto riprende a solcare le strade di Puglia e, di contro, questa terra lo accoglie con premura, ogni volta. Sicuramente perché la sua arte è indiscutibile, certamente perchè il suo sound è carico di vigore, di energia, di lucida esuberanza. Ma anche perché ciascuna performance (in duo con Biondini, oppure con i Córdoba Reunion, oppure al fianco dei Vertere String Quartet: il prodotto, al di là dei compagni di viaggio, non cambia) si rivela ricchissima di suggestioni. In cui l'artista non si risparmia mai, regalando note penetranti, fraseggi arditi, momenti di musica sempre viva. E intimamente argentina. Attorno alla quale ruotano i progetti, paralleli e convergenti. E solitamente fortunati, peraltro. «L'ultimo, quello realizzato con il Vertere String Quartet - fa sapere lo stesso Girotto - è un progetto che si poggia su composizioni originali del sottoscritto, partorite negli anni novanta, nel periodo in cui arrivai in Italia, arrangiate dal cerignolano Luigi Giannatempo e musicate in maniera più cameristica. Nel disco, tuttavia, ci permettiamo di presentare un brano, "Fíar", estrapolato dal repertorio di Astor Piazzolla: ma questa è l'unica cover». Il quartetto d'archi (due violini: il nocese Giuseppe Amatulli e il ruvese Angelo Berardi; una viola: il martinese Domenico Mastro; un violoncello: quello della barese Giovanna Buccarella) offre sponda alla creatività del leader, dignificandone ulteriormente temi e talento, irrobustendo un repertorio di per sé apprezzabilissimo e fortemente impreziosito da assoli dispendiosi e persino temerari. Repertorio che, tra le altre, prevede "La Poesía", una delle composizioni più robuste di Girotto, la già citata "Fíar" (per la quale il cordobés si affida al flauto moxeño, di fabbricazione artigianale, costruito nel remoto villaggio di Umajuaca, a quattromila metri di altitudine, e legato ad una storia di altri tempi: l'indigeno che lo ha costruito non pretese - in cambio - denaro, ma l'impegno di risarcire la terra con vino e cibo, versati in una buca scavata da Javier), la ribelle "Para la Abuela Elisa", "Nahuel" (brano che condiziona il titolo dell'intero album, dedicato alle popolazioni della Patagonia) e "La Luna", ispirata dall'omonima opera poetica di Borges. Ma che, anche e soprattutto, traduce motivazioni infinite, calore, passioni ardenti e originalità. Segni distintivi di un argentino capitato sulle rotte di Puglia. E che, da queste parti, ritornerà, molto presto. Lo attendiamo, felici di farlo.

Javier Girotto (fiati) & Vertere String Quartet (Giuseppe Amatulli: violino; Angelo Berardi: violino; Domenico Mastro: viola; Giovanna Buccarella: violoncello)
Noci (BA), Piazza Plebiscito
Nocincanta '07

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

mercoledì 15 agosto 2007

Istrionicamente Bollani

C'è folla. Troppa folla. La piazza implode. Di gente. Ma insieme si sta bene ugualmente. Certo, quella piazza è piccola. E l'ospite - l'ultimo ospite del Locus Festival 2007 - è prezioso: meglio ancora, concettualmente gradito ad una larga fetta di pubblico. Non solo: Stefano Bollani è, ormai, un pianista di culto. Dalle sfumature popolari. Di più: da Locorotondo si ritrova persino a transitare spesso. Lasciando estimatori nuovi e anche amici, ogni volta che ripassa. Il concerto, poi, comincia prima di quanto ci si possa aspettare. Difficile che accada: eppure, è così. Perchè non c'è quasi più nessuno da accogliere. Sono tutti lì, già da diversi quarti d'ora. Senza contare che la sera della vigilia di Ferragosto, oltre tutto, è un incentivo aggiunto: a essere presenti, a monitorare il territorio. E si parte. Confortati dalla certezza di incontrare il Bollani di sempre: ironico, istrionico, verboso, comunicativo, fedele al personaggio che si è ritagliato dopo i primi vagiti di un successo che ha cominciato a manifestarsi meno di dieci anni addietro, sotto le note del jazz. Jazz che, lentamente, è scivolato verso composizioni che abbiamo imparato a definire contemporanee: e che, cioè, attingono da ogni ambito musicale, e che vengono triturate, digerite e confezionate per una platea eterogenea. Attitudine, questa, che - con il tempo - ha sconfinato in altri panorami: ad esempio, quello bibliografico, raggiunto con un titolo recente, "La Sindrome di Brontolo". Bollani, dunque, trascina ancora la propria simpatia con istinto giullaresco, però mai volgare. Che è poi la sua forza e il suo segreto, commercialmente parlando. Integrando tutto con il suo pianismo sciolto, immediato, gravido di divagazioni dotte, ma anche divertenti. Affrontate con il sorriso, ma anche con una tecnica di base che - tuttavia - non lo costringe, non lo limita, non lo imprigiona. Che, anzi, lo rende universale, ancorchè facilmente fruibile. Il musicista milanese ammicca a situazioni sonore agili, ricche e pastose, ma somministrando puntualmente spunti di spessore, che si agitano senza pesare, senza bussare. E che scivolano, quasi senza farsene accorgere. Come certi virtuosismi, che producono folklore e, contemporaneamnete, infondono sostanza al repertorio. Ecco, il repertorio: si passa da "Il Domatore di Pulci", brano originale, a "Tristeza" di Haroldo Lobo, un autore legato al fortunato movimento della bossa nova, dagli standard americani a "Che Cosa Sono le Nuvole", un poema di Pasolini musicato da Domenico Modugno, dalla battistiana "Mi Ritorni in Mente" a "Samba da Benção" di un altro brasiliano, Vinícius de Moraes, da "Per Elisa" di Beethoven (ma l'interpretazione, in realtà, è uno scherzo riuscito, una riproduzione credibilissima di una registrazione su vinile alterata dal tempo) ad "Antonia", composizione di Antonio Zambrini. Un repertorio, peraltro, tradizionalmente chiuso da una dissacrante madley di brani a richiesta, intrecciati sul momento e di vastissima provenienza musicale: che è, del resto, un'attesissima appendice del programma. Valorizzato, per l'occasione, dalla presenza fugace, sul palco, di un guest con cui duettare, il sassofonista Francesco Bearzatti, friulano assorbito dalle vacanze ostunesi, già tra i protagonisti della manifestazione, al fianco di Gianluca Petrella, non troppi giorni prima. Classico e meno classico, quasi sacro e quasi profano: è tutto commestibile, è tutto lecito. E lo spettatore non rimane insensibile. Il buon umore, infine, fa il resto: trasformandosi in un certo carisma che lascia la maggior parte della moltitudine in rispettoso (e, di questi tempi, anacronistico e, perciò, pregiatissimo) silenzio. E raggiungendo il cuore della gente, senza mostrare fatica. Bollani è questo. E per questo ritornerà (lo fa, del resto, ciclicamente) in Puglia. Riempiendo automaticamente la piazza o il teatro. Degli affezionati che crescono, ma anche del suo talento, del suo fervore, del suo istinto picaresco. Che, poi, è il sigillo finale di una rassegna, il Locus Festival, tra le più convincenti dell'intera stagione estiva pugliese. Per nomi, cognomi e, talvolta, anche progetti. Malgrado qualcuno abbia già dissentito sul concetto: lo sappiamo per certo. E, allora, questa volta non ci resta che dissentire al dissenso. Scusateci, può capitare.

Stefano Bollani (voce e pianoforte). Guest Francesco Bearzatti (sassofono)
Locorotondo (BA), Piazza Convertini
Locus Festival '07

(pubblicato sul sito www.levignepiene.com)

venerdì 10 agosto 2007

Un disco per gli eroi

Questa è la storia di un abbinamento un po' insolito. Che, però, funziona. Ed è la storia di un feeling antico che torna a brillare: in un estate che, talvolta, ha saputo regalarci spunti di buona musica e qualche progetto interessante. In un periodo fortemente condizionato dall'istinto di contaminazione. In un'epoca di ricerca - non sempre premiata - del nuovo. O del poco usato. Questa è la storia di un percorso intrapreso da poco, con entusiasmo sano. La storia del pianismo discretamente colto di Nico Morelli che avvolge e protegge le percussioni un po' rustiche e la batteria solida e vivace di Enzo Lanzo. Abbinamento dai lineamenti tutt'altro che inediti, ci mancherebbe, ma ben amalgamato. E punto di partenza della rassegna Ceglie Open Jazz 2007, che - più avanti - riserverà la performance di piano solo di Matthew Shipp, il live Alessandro Marseglia e l'appuntamento con il quartetto dello stesso Ship.Il primo concerto della rassegna è dotato di temi ariosi, ben strutturati, interessanti; di melodie piene, spesso incalzanti. Per l'occasione, anche registrate: detto per inciso, in previsione di un imminente disco live, che comproverà l'impegno e il progetto alla base di esso. Un progetto inseguito caparbiamente da Enzo Lanzo, soprattutto: che affonda sul profilo degli eroi, di ieri e di oggi. Degli eroi classici, degli eroi paralleli, degli eroi di sempre, degli eroi nascosti. E sconosciuti. "Heroes" è un live che raccoglie poche cover (di Monk, ad esempio) e molte composizioni originali: sia di Nico Morelli (una per tutte: "Two Voices for the Queen") che di Enzo Lanzo (ci piace segnalare "Don Cherry" e "Kroma", che il pianista tarantino definisce "ambiziosa" e che il batterista si permette anche di vocalizzare: riavvicinandosi agli albori del suo cammino musicale). Qualcuna di queste, anche suggestiva: come "Ilva's Boys", che Lanzo esegue da solo, dedicandola agli eroi di casa nostra. Come quei ragazzi che perdono la speranza e la vita sul posto di lavoro. Come è puntualmente accaduto, più volte, nelle acciaieria di questa terra. Un brano serrato e denso, in qualche modo onomatopeico: nel senso che ricorda l'incedere del ciclo produttivo. Dall'altra parte, poi, Morelli è bravo e frizzante come ce lo ricordavamo: imprime il passo, detta i tempi, distribuisce note rotonde. Oltre tutto, il quarantaduenne compositore approdato a Parigi sembra, da un po', maggiormente visibile a queste latitudini: e la cosa non può che rallegrarci, dal momento che il suo talento è ormai unanimemente riconosciuto. "Con Nico - riferisce Enzo Lanzo - la collaborazione è datata. Si è interrotta, anni fa, ma l'abbiamo riallacciata. E, tra di noi, continua a esserci molta complicità". Pienamente tradotta sul palco, aggiungeremmo. Dove si sistemano anche i tributi dedicati a quei musicisti fuori dagli schemi: eroi pure loro, con diritto pieno. E dove, al momento dei bis, si aggiunge un altro amico di un passato prossimo, il contrabbassista Nico Catacchio. Non prima, però, che Nico Morelli abbia avuto il piacere di estrapolare un passaggio (la notissima "Santu Paulu") della sua ultima produzione discografica, "Un(folk)ettable", album che osa mescolare i ritmi del jazz con quelli delle tradizioni popolari salentine, distribuito dall'etichetta Universal.Parentesi finale: "Heroes" è una proposta, un dosaggio pianificato con intelligenza. Che, tuttavia, non tutti hanno colto (ma non è obbligatorio che debba esserlo, sia chiaro). Ed è un progetto di quelli che vanno vissuti, dal vivo, con una dose di attenzione in più: e questa, ovviamente, è un'opinione, la nostra. Un progetto, consentiteci di sottolinearlo, sciupato sin dall'inizio dalla scarsa educazone di tanti, troppi ascoltatori (o, meglio ancora, presenzialisti). Ovvero, da un tarlo che, indistintamente, corrode ormai dieci spettacoli su dieci (a Ceglie, oppure altrove, il discorso non cambia). E che sicuramente non sminuisce la buonissima volontà e l'ottima intuizione del gruppo organizzatore del festival (il Sagrato della Chiesa Madre, stretto dal castello, è suggestivo, e l'idea di rendere gratuiti gli eventi era e resta meritoria). Ma cominciamo seriamente a credere che, in Puglia (una delle regioni d'Italia in cui si produce più musica, la maggior parte delle volte aperta a chiunque, senza l'obbligo del tagliando d'ingresso), sia arrivato il tempo di cominciare a utilizzare più spesso la biglietteria. E chiedere una contropartita economica: simbolica, non più che simbolica. Sufficiente, però, ad incentivare il processo di selezione naturale. La selezione della platea.

Nico Morelli (pianoforte) & Enzo Lanzo (batteria e percussioni). Guest Nico Catacchio (contrabbasso)

Ceglie Messapica (BR), Sagrato della Chiesa Madre

Ceglie Open Jazz Festival 2007

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

martedì 7 agosto 2007

Dalla memoria necessaria al futuro possibile

E' vero: nell’immaginario collettivo la storia e la musica degli Inti Illimani si raggomitolano alle date, alle situazioni. Al momento storico e alla brutalità di un regime, alle pieghe dolorose di un Paese. Musica e storia sopravanzate dagli accadimenti sociali e politici che hanno spazzato la paura, la repressione, i progetti di riconquista, gli istinti della rivoluzione. Accadimenti indissolubilmente legati al passato prossimo di una terra (il Cile) e, in generale, di un continente (il Sud America) in bilico eterno tra lotta e sofferenza. E, soprattutto, dipendenti da anni oscuri e da un'afflizione pesante. Ma quel Cile sanguinario di Pinochet non esiste più e non esiste più neppure la sua criminale negazione di qualsiasi diritto personale. E, sulla Moneda, ora sventola la democrazia al femminile targata Bachelet. Sì, quei tempi sono un incubo mal cicatrizzato: eppure andati. E, con essi, si è sbiadita tutta una letteratura. Della quale la produzione degli Inti Illimani fa parte legittimamente. Come un certo movimento musicale degli anni settanta o l'eterna figura di Victor Jara.E’ vero: quel gruppo di impavidi (anche se, della formazione originaria, sono rimasti in tre) si trascinava con dignità il peso di una storia e degli anni, ma anche l'ammirazione di una parte (schierata) di una generazione: che, trentacinque anni fa, avrebbe voluto modificare e plasmare il mondo, guadagnando - in cambio - troppe disillusioni. Alla quale, però, le canzoni degli Inti Illimani rievocavano ancora travagli e passioni, barbarie e resistenze. E producevano ancora emozioni. Una parte di una generazione che, molti anni dopo, popolava testardamente i loro concerti, alzando quel pugno sinistro e rincorrendo le strofe di rabbia, lacerate dal tempo. Perché vibrava ancora qualcosa, di fronte a quelle note, a quelle parole. Perché quella storia pulsava sempre e quella febbre continuava a crescere. Non era solo la nostalgia, ad agitarsi. C'era, piuttosto, una forza viva che proseguiva a sgomitare: e ogni esibizione dal vivo della formazione cilena, rifugiata in Italia negli anni della dittatura, abbatteva il muro dell'archeologia ideologica e i vincoli temporali. Rafforzandosi di energia propria, vivida, sempre giovane. Difficile spiegarlo, difficile crederlo: ma la tensione, neppure troppo tempo fa, era fresca e si arrampicava possente. E quella musica sapeva trascinare come prima: chi, trentacinque anni fa, viveva la quotidianità degli eventi e anche chi non c'era ancora. Ma il tempo passa. E qualcosa cancella, obbligatoriamente. Gli Inti Illimani hanno già deciso di varcare l’epoca. Sentite Horácio Durán, il leader del gruppo: “La nostalgia è un brutto sentimento, quando diventa sociale. E la nostra formazione deve rappresentare un ponte tra la memoria necessaria e un futuro possibile. Ormai siamo un ottetto multigenrazionale: fra di noi c’è chi è nato dopo il golpe, dopo i primi vagiti del terrore. E, soprattutto, non vogliamo essere il museo di noi stessi: ma un’espressione di un continente molto vivo”. Allora, il progetto si ammoderna, si trasfigura, si allarga. Cambia. Differenziando il passo, mutando tratti somatici. Quello che è stato, è stato. Dopo, c’è altro. La frase magica (“el pueblo unido jamás será vencido”), con la musica che le ruota attorno, resta un tributo doveroso, al quale è impossibile sottrarsi, ma solo a fine concerto. E un tributo al passato è anche “Rin del Angelito”. Due rarità, ormai. Il repertorio attuale, proposto a Martignano, è però assolutamente nuovo e, sostanzialmente, taglia i rapporti con il retroterra emozionale. Proiettando un live ben curato, sobrio (anche troppo), ricco di motivi attinti dal patrimonio tradizionale sudamericano, vicinissimo al concetto di world music. Eppure lontano dai sentimenti partoriti un tempo e dalle scenografie già viste e vissute. In una parola, raffreddato. Forse anche per la scelta (lodevole, ci mancherebbe) della locale amministrazione comunale di sistemare davanti al palco un numero consistente di sedie: se non altro, per celebrare degnamente il ventunesimo compleanno di Piazza della Repubblica, la location dell’evento che, proprio dagli Inti Illimani, fu inaugurata nel 1986. Ma un concerto come quello del gruppo cileno, correggeteci se sbagliamo – andrebbe vissuto in piedi, popolarmente. Come, riteniamo, sia sempre accaduto, dovunque. E’ il nuovo corso, gente. Occorre guardare avanti. E cade, probabilmente, un altro mito. Certo, dentro la nuova storia c’è ancora il legame forte con le proprie radici. C’è la cultura dell’appartenenza, l’orgoglio, il sentimento, una certa leggerezza che accomuna tutti gli artisti sudamericani, il gusto di proporsi, una giovialità naturale. Gli Inti Illimani si divertono ancora. Affacciandosi deferentemente sull’Italia che li ha protetti, salvaguardati e, forse, anche incoraggiati: “Buonanotte Fiorellino” di De Gregori e una versione interessante della tarantella sono, del resto, due maniere di esprimere la propria gratitudine verso un popolo che hanno sentito e sentono sempre amico e di prepararsi il cammino verso il futuro possibile. Due maniere per non dimenticare che la loro musica non possiede frontiere, perché mai le ha possedute. Anche quando la formazione, alla fine degli anni sessanta, si costituì, confrontandosi con i canti popolari boliviani. Da allora, sì, il tempo è passato in fretta, infilandosi nello sconvolgimento dei costumi e nella frenesia dei rinnovamenti del ventesimo secolo. E’ passato, cancellando qualcosa. E’ il nuovo corso, gente. E gli Inti Illimani, persino loro, si adeguano. Il tempo è andato. Lasciando, sul fondo, uno strato di tristezza.

Inti Illimani
Martignano (LE), Piazza Della Repubblica

(pubblicato sul sito www.levignepiene.com)