sabato 27 gennaio 2007

Vigoroso tango

Difficile che Javier Girotto vanifichi l’occasione. Che sprechi l’opportunità di pubblicizzare (bene) il suo intimo eppure variegato mondo musicale. Che disperda l’abilità di presentare il suo prodotto: non sempre squisitamente jazzistico, ma saldamente collegato al jazz (l’abbiamo già scritto, rafforziamo il concetto). Che sciupi la chance di esportare il lato migliore (e, sicuramente, quello più romantico) della sua terra, l’Argentina. Difficile che il sassofonista cordobés inciampi nel progetto, che si scontri con critiche ruvide, che perda porzioni di un prestigio che - col tempo, piuttosto – va irrobustendosi: proposta dopo proposta, concerto dopo concerto. Difficile, cioè, restare delusi, dopo averlo ascoltato. Per la bontà complessiva dei suoi spartiti, ma anche per la cura dedicata al prodotto e – soprattutto – per la totale offerta di se stesso alla platea. Che lo rende professionista dai grandissimi sentimenti: particolare non trascurabile. Che la gente, infatti, non trascura affatto. Javier Girotto, oltre tutto, è un argentino molto più italiano di quanto possa sembrare: al di là delle più o meno antiche origini fasanesi. Perché, proprio in queste contrade, ha guadagnato considerazione, rispetto, cachet e residenza (romana, più precisamente alla Magliana). Ma che resta profondamente affascinato dal proprio Paese. Anche e innanzi tutto musicalmente. Segno distintivo, questo, che lo accompagna sul palcoscenico. Sul quale non perde l’ambizione di vantare le proprie origini: come è accaduto recentemente anche a Locorotondo, dove è tornato a incrociare gli strumenti con i vecchi compagni dei Córdoba Reunión, rispolverando tutto ciò che non è tango. I ritmi di quell’angolo di mondo, del resto, continuano a coinvolgerlo, a corteggiarlo, a circuirlo. Obbligandolo a perseverare, mutando però il progetto. E, allora, quel tango momentaneamente accantonato riaffora potente, a Capurso, in occasione del quarto compleanno del Multiculturita Festival, produzione di punta della locale Associazione “Porta del Lago”, che tornerà a luglio con nomi di ottima qualità e persino diverse sorprese. E, ventiquattr’ore dopo, a San Severo. Riaffiora il tango e riaffiora con un’altra situazione. Al fianco di Javier c’è Luciano Biondini, fisarmonicista spoletino di estrazione classica, ma di larghi orizzonti. La coppia, intendiamoci, non è propriamente una novità: i due lavorano assieme dagli albori del duemila, amalgamati da un disco praticamente autoprodotto («Cacerolazo») e, in un certo senso, persino sfortunato (perché bloccato in ristampa, per due volte, da disavventure finanziarie di due diverse case discografiche) e rilanciati (i protagonisti, dotati di ironia, ci passeranno il verbo) da «Terra Madre», un album più recente che raccoglie alcuni brani del precedente lavoro e composizioni successive. Il live, è chiaro, fluttua tra il tango (non c’è Piazzolla e neppure Gardel: il repertorio è assolutamente originale) e il jazz, impressionando (la scelta del verbo, questa volta, è assolutamente legittima) per l’elevato quoziente di tensione emotiva che riesce a sprigionare e, di rimando, a catturare. L’interpretazione è vigorosa, talvolta addirittura nervosa, dipinta da tinte forti, marcate. Di quelle che sanno decodificare i sentimenti e le peculiarità di una nazione come l’Argentina. Concerto di impatto profondo, per intenderci. Di sensazioni decise, di emozioni anche violente. Dove convivono nostalgie e complicità sonore assolutamente godibili. Traducendo, Girotto e Biondini si concedono apertamente, completamente. Ed è questo il dettaglio che ci preme sottolineare: non accade sempre, non accade troppo spesso, ve lo possiamo assicurare. Al di là delle qualità e della professionalità innegabili di tantissimi altri artisti che sono transitati e transiteranno in terra di Puglia. A margine, ma non troppo: le iniziative jazzistiche, da queste parti, nascono con soddisfacente frequenza (dovremmo tutelarle: tutti assieme) e, talvolta, resistono. Come a Capurso, dove il Multiculturita Festival si appresta ad affrontare l’anno della conferma, dei grandi impegni (parole testuali del presidente dell’Associazione “Porta del Lago”, Giacomo Santorsola). Le anticipazioni sul prossimo cartellone, tra l’altro, ci sono e le riportiamo: oltre al pugliese Pierluigi Balducci (presenterà «Rouge!», il suo ultimo cd.), si alterneranno sul palco allestito di fronte alla Real Basilica lo stesso Luciano Biondini (il 17 luglio), il quintetto di Enrico Rava (sempre il 17), Danilo Rea, Rosario Bonaccorsi, Roberto Gatto, Andrea Pozza e Gianluca Petrella (il 18 acompagneranno Gino Paoli in un progetto nuovo) e, addirittura, Brad Meldhau e Pat Metheny (l’appuntamento è per il 20 luglio: verranno promossi i due dischi recentemente approntati a Los Angeles). Michele Laricchia, art director della rassegna, con orgoglio e voce emozionata ne vantava la crescita costante in una città disabituata – almeno sino a qualche anno addietro – al jazz. La regolarità (della manifestazione), evidentemente aiuta, diventando un ingrediente rilevante di un’affermazione, di un piccolo successo. La continuità dell’impegno e l’evoluzione dell’idea, cioè, pagano. Ma non fatelo sapere, in giro. Non vi conviene: troppi non capirebbero.

Javier Girotto (fiati) & Luciano Biondini (fisarmonica)
Capurso (BA), Sala Botticelli dell’Hotel 90
Multiculturita Aniversary

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

venerdì 12 gennaio 2007

Sulle tracce del maestro

Il Maestro stimola ancora: musicisti di qualsiasi latitudine e di estrazioni persino differenti. Il Maestro incoraggia ancora: produzioni nuove con il marchio dell’usato di qualità. Il Maestro è ancora nell’anima della musica e di chi la gestisce e la interpreta. Probabilmente perché l’innovazione, negli anni sessanta, è passata tra le tastiere del suo pianoforte. E, con l’innovazione, la rivoluzione musicale, almeno nel suo Paese. Anche se da queste parti, al di qua dell’Oceano, non lo sospettiamo neppure. E di lui abbiamo sempre sentito parlare, più o meno confusamente, distratti dai tanti luoghi comuni che governano i discorsi spesi attorno al Brasile. Il Maestro è ancora moderno, geniale, intrigante. Anche se ci ha lasciati da un po’. Probabilmente perché la qualità (e la commerciabilità della musica) non deve (e non può) necessariamente transitare dagli Stati Uniti. Dove pure il Maestro ha vissuto gli anni migliori del proprio sviluppo artistico. E dove il dollaro aveva (e mantiene) un sapore che il cruzeiro prima, il cruzado poi e, infine, il real non hanno mai posseduto. E, probabilmente, anche perché la musica brasiliana (tutta, non solo la bossa nova) dispone di una propria duttilità e di una propria personalità che il mondo fatica a riconoscerle definitivamente ed ufficialmente. Personalità e duttilità che, di fatto, però, esistono da sempre. E resistono. Assorbendo continuamente gli altrui interessi. Il Maestro è António Carlos Jobim, che al di sotto dell’Equatore si sono abituati a chiamare con affetto Tom. E i suoi spartiti pulsano sempre forte. Anche nella remota terra di Puglia, dove una giovane signora innamorata di certe sonorità (Paola Arnesano) gli ha dedicato un album intero di cover, alcune delle quali nemmeno troppo famose e, quindi, deprezzate dall’usura. Un cd, peraltro, uscito da un anno (mese più, mese meno) per l’etichetta YVP Music, generato con la complicità del chitarrista Guido di Leone, del contrabbassista Giuseppe Bassi, del batterista Enzo Zirilli e del sassofonista olandese Barend Middelhoff (sempre più presente sui palcoscenici di casa nostra), ma mai massicciamente presentato prima di adesso. Questione di tempo (che manca), evidentemente. E dei giochi di date, che non convergono mai. Eppure, non è mai troppo tardi. Come dimostrato nel vociare incalzante e sovrano del Taylor’s Coffes Blues di Bitritto, a pochissimi chilometri da Bari, nel corso di un live che precede le repliche di Taranto e Barletta. Parlare del Maestro è parlare dei sentimenti e di quel meraviglioso caleidoscopio di umori che è il Brasile. E, parlando di Jobim (è la traduzione del titolo del lavoro discografico, «Falando de Jobim», appunto) si ripercorrono momenti importanti della canzone brasiliana: è il caso di “Chovendo na Roseira”, a suo tempo delegato alle cure di Elis Regina e non di una vocalist qualunque. Oppure di “Outra Vez”, composta dal Maestro e storicamente utilizzato dall’intimo antagonista João Gilberto (i due, è noto, aprivano assai spesso accese risse verbali dovute ai metodi differenti di lavoro, sino a lacerare un rapporto sempre difficile, puntualmente ricucito dall’impresario Aloysio De Oliveira: e questa è storia). Oppure, ancora, di “Falando de Amor” e, soprattutto, della premiatissima (parliamo di vendite, ovvio) “Estrada do Sol”, interpretata in Brasile da chiunque o quasi. Senza dimenticarsi, comunque, di cogliere l’occasione per impossessarsi di brani meno sfruttati (“Caminhos Cruzados”, “Por Causa de Você”, “Esperança Perdida”, “Você Vai Ver”, “O Grande Amor”, “Só Tinha de Ser Com Você”, “Correnteza” ed altri ancora), almeno sul mercato italiano: rispondendo ad una precisa esigenza di Paola Arnesano, ormai abituata alle incursioni sudamericane («Falando de Jobim» è il terzo disco di un cammino parallelo alla produzione più propriamente jazzistica di una delle voci pugliesi più belle ed espressive). Paola Arnesano che, detto per inciso, asseconda il buon gusto e la logica, essendosi dedicata e dedicandosi ancora allo studio della lingua portoghese (e della pronuncia brasiliana): ingredienti necessari per non macchiare il prodotto musicale di superficialità. E che le hanno permesso, oltre tutto, di confezionare anche l’unica traccia originale del disco, “O Sol e a Lua”. Il tributo a Jobim, tuttavia, non ha voluto e non vuole apparire didascalico. Né rincorrere il mito. Preoccupandosi, piuttosto, di preservare (nel disco e nei concerti, non fa differenza) lo spirito jazzistico di una formazione composta da jazzisti (dal vivo, tuttavia, il tarantino Francesco Lomagistro rimpiazza Enzo Zirilli alla batteria). La scelta ponderata di non ricorrere al pianoforte, che era poi lo strumento di lavoro del Maestro, si spiega così. E così si spiega pure l’idea di puntare molto sulla ritmica e, ancora più pesantemente, sul sassofono di Middelhoff, senza del quale le date live non potrebbero concretizzarsi: ed ecco chiarite anche le difficoltà nel presentare adeguatamente il prodotto finito. Middelhoff, del resto, risiede a Bologna: l’Italia è lunga e le situazioni musicali si sovrappongono. Nel mare grande della musica da gustare, però, succede anche questo e occorre sapersi gestire (sul palcoscenico) e adattare (in platea). Pazientando, perché qualcosa accade, prima o poi. Almeno in questo angolo di periferia italiana, dove il fermento musicale cresce costante. E, se ci sono le idee (anche semplici e addirittura scontate, ma ben rifinite e sviluppate), si può sperare, cioè coltivare prospettive future. Alla fine (ci ripetiamo: ne siamo consapevoli) la qualità e i progetti producono la differenza. Senza l’obbligo di dover rivoltare la storia della musica.

Paola Arnesano (voce), Barend Middelhoff (sassofono), Guido Di Leone (chitarra), Giuseppe Bassi (contrabbasso) & Francesco Lomagistro (batteria) in "Falando de Jobim"
Bitritto (BA), Taylor’s Coffee Blues
Jazz Juice 2007

(pubblicato sul sito www.levignepiene.com)