venerdì 24 agosto 2007

Pino Daniele è ancora qui

«Il Mio Nome E' Pino Daniele e Vivo Qui». Sembra aleggiare il sapore della rivendicazione, sembra sgomitare l'esigenza di evidenziare una presenza e un'appartenza. Sembra avanzare l'istinto di sottolineare una linea musicale, un percorso artistico, una storia. Più semplicemente, forse, è l'ultimo album ideato e confezionato da uno dei cantautori più prolifici del palcoscenico italiano. E, soprattutto, da uno degli artisti più radicati nel territorio discografico, senza soluzione di continuità. Da trent'anni: mese più, mese meno. Cioè, da un personaggio di culto: al di là delle tendenze del momento, delle mutazioni generazionali, dell'evoluzione (o dell'involuzione) di certe forme di comunicazione, anche nel campo delle note e delle sonorità. Esatto, perchè Pino Daniele, napoletano emigrato, canta e suona da anni lunghi, senza aver mai disperso la voglia e il coraggio di esprimersi, sentendo di aver ancora qualcosa da dire o da offrire. Rifugiandosi - è successo recentemente - in spartiti più morbidi, più etnici (diciamo pure più arabeggianti): in ossequio a quell'idea meravigliosa di comunicare con altre culture, con altre forze concettuali. In ossequio a quella corsa verso la commistione e la contaminazione che, da un po', sembra aver contagiato artisti nobili e meno nobili: e che sembra essere diventata (anche meritoriamente, sia detto) una delle priorità del Duemila. E allontanandosi, magari, da quelle atmosfere profondamente blues che avevano caratterizzato il suo approccio con il successo. Atmosfere che, peraltro, Daniele non ha mai rinnegato. Anzi, puntualmente rispolverato: alla prima occasione.E proprio l'ultima produzione discografica è il motivo trascinante del tour estivo, ovviamente fiorente di date, anche pugliesi, come quella di Ostuni. Tradotte in un concerto equamente (e simbolicamente) diviso in due parti, discretamente itinerante, guidato a due velocità distinte. Ma sempre con garbo, buon gusto, nei binari del buon ascoltare. Di là (la prima parte) le composizioni più giovani, più intime; gli accordi più dolci e curati, i toni - talvolta - quasi confidenziali, le tonalità più morbide e delicate. E la chitarra acustica, accompagnata da contrabbasso (quello di Rino Zurzolo, compare storico), batteria (c'è Alfredo Golino), piano (di Gianluca Polio) e percussioni (con la vivacità di Ernestico): un supporto essenziale, niente affatto invadente, ma anche generoso di spunti armonici. Nel segno di una sobrietà matura, che riesce a catturare. Di qua (la seconda parte del live) le canzoni più stagionate, più generose di suoni, più immediate all'assimilazione, più spedite. E' il momento in cui Daniele si alza e imbraccia la chitarra elettrica e il contrabbasso si fa sostituire dal basso: e, allora, sfilano vecchi ricordi come "Toledo", "Habana", "Io Per Lei", "Yes, I Know", "Che Dio Ti Benedica", "Io So' Pazzo". C'è il blues, adesso: e si sente. «Ma sono un napoletano che è andato via dalla propria terra - ammette -. E qualsiasi meridionale porta con sé, dovunque vada, il sentimento del sud. Per questo sono arrivato ad una conclusione: essere del sud è un modo di vivere che resta nella testa. E così conserviamo il nostro grande attaccamento alla terra». Parole utili per introdurre un brano spartiacque, un classico del primo periodo artistico - il periodo napoletano -, "Napule E'", degno di resistere in mezzo a due altri e ben definiti momenti storici di una carriera inseguita da due (o, forse, tre) generazioni. Ovviamente distribuite tra il pubblico. Ma il dato, questa svolta, appariva scontato. E ci avrebbe meravigliato qualcosa di diverso. Perchè la canzone italiana d'autore sa durare nel tempo: sempre che, alla base, convivano musicalità e spessore intellettuale. La tendenza di un momento o il frutto di una moda fugace e sfuggente, invece, affonda. E, davanti, non resta nulla.

Pino Daniele (voce e chitarre), Gianluca Polio (piano), Rino Zurzolo (contrabbasso e basso), Alfredo Golino (batteria) e Ernestico (voce e percussioni)
Ostuni (BR), Nuovo Foro Boario

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giovedì 23 agosto 2007

Applausi tra le ombre

Il Brasile è un sogno speciale, soprattutto per chi può sognare. Per altri, è terra aspra. E poi gli anni settanta sono un'epoca difficile: si propaga la cosidetta abertura, ma il regime militare è ancora presente, oppressivo. Jim Porto è un giovane artista arrivato a Rio de Janeiro dal Rio Grande do Sul, ma che abbastanza presto decide di scavalcare l'Atlantico e atterrare in Italia. Dove colora le notti del Manuia, uno dei locali preferiti della movida romana, movimentando la scena musicale, iniettando lo spirito del proprio Paese: che, a quei tempi, in Europa è ancora una macchia sulla cartina geografica, o poco più. Sono anni di gavetta, a metà strada tra il concerto e il piano bar. E quegli anni servono prima a sopravvivere e poi a vivere meglio. L'esperienza fortifica il ragazzo e il ragazzo rimane in Italia. Jim Porto, anzi, esporta la sua musica, solca la penisola e, nell'ambiente degli appassionati, si costruisce un nome sicuro. Pubblicando anche vinili e, più tardi, cd: come l'ultimo, recentissimo, "Live at Blue Note": alla cui realizzazione partecipa anche un jazzista rampante come Fabrizio Bosso, trombettista torinese che ama spaziare e che coltiva una precedente (ma ancora attuale) intesa musicale con un altro artista arrivato dal Brasile, Irio de Paula. Jim Porto, per capirci, non è una voce (e un pianoforte) qualunque: basti parlare di qualche antica collaborazione. Ad esempio, con Gilberto Gil e Milton Nascimento: non è poco. Anzi, il suo pianismo fluido, la sua facilità di espressione musicale, le larghe concessioni alla platea e un'esuberanza tutta sudamericana sono garanzia di spettacolo e buon umore. La capacità di reggere lo spettacolo è, oltre tutto, limpidissima: adeguatamente rodata nelle ore notturne spese tra cocktail e cornetti, in una Roma che non voleva dormire. Eppure, il live presentato in compagnia dei Narandiba a Cisternino, ultima proposta della quattordicesima rassegna "Pietre Che Cantano", dedicata (quest'anno, così come il prossimo) a diverse sonorità che partono dal Brasile, non ci ha particolarmente convinti. E non per i fondamentali musicali (innegabili) dell'interprete gaúcho (con l'accento rigorosamente sulla u: da non confondere con un gaucho argentino). Ma, soprattutto, per il taglio eccessivamente nazional-popolare (o commerciale, fa lo stesso) conferito al concerto, per la scelta (scontatissima; anzi, aggiungeremmo banale) del repertorio (Jim Porto ha raccolto una decina di brani brasiliani tra i più popolari in Italia, arrangiandone qualcuno in maniera, peraltro, convincente; senza però offrire qualcosa di più o di diverso: in due parole, accontentandosi e accontentandoci), per la formula un po' abusata (l'immancabile viaggio all'interno del Brasile) e per l'errata valutazione di considerare un festival (o una rassegna, fate voi) alla stregua di un piano-bar. E, ancora, per qualche sbrigativa versione di alcune composizioni importanti, all'interno della storia della musica popolare brasiliana: detto per inciso, non ci è sembrato affatto che ricordasse i testi di "O Que Será" di Chico Buarque de Hollanda (strofe invertite, altre tranciate, verbi modificati: e l'improvvisazione, in questi casi, non c'entra) o di "Aquele Abraço" di Gilberto Gil (e crediamo che la supposta sicurezza di incontrare un pubblico inconsapevole o particolarmente tollerante non può ragionevolmente salvarlo, nell'occasione). Intendiamoci, però: la gente si è divertita ed ha anche applaudito, con la giusta convinzione di chi non possiede le argomentazioni per dissentire, o di chi non può (o non vuole) approfondire. E, allora, va bene così. E, in fondo, va bene anche a noi, ci mancherebbe. Del resto, la musica, come una qualsiasi manifestazione di intrattenimento, deve piacere. Ma non sottoscriviamo l'approccio di Jim Porto al concerto e neppure molti dettagli. Come, appunto, quello di esimersi dall'offrire uno spaccato più preciso e aderente alla realtà (ovvero, lontano dal già troppe volte ascoltato) di un Paese come il Brasile: da parte di un brasiliano, oltre tutto, ci è sembrato ingeneroso. Una realtà che, diciamolo forte e chiaro, va oltre le famosissime "Aguas de Março" (tuttavia ben suonata e arricchita da vocalizzazioni intriganti, così care ai jazzisti), "Você Abusou", O Bébado e a Equilibrista" (bella versione, va detto), "Eu e Você" di Jobim, "Flor de Lis" e "Sina" di Djavan, "Mas Que Nada" e "País Tropical" di Jorge Ben, che sono brani ormai utilizzati da chiunque. Che siamo abituati ad ascoltare ovunque. E che non avremmo sospettato di incontrare (non tutti assieme, almeno) in una rassegna: una rassegna che gli organizzatori stessi definiscono, anche con legittimo orgoglio, di nicchia. Senza parlare dell'incursione, nella parte finale del live, di "No Woman No Cry" di Bob Marley: canzone che, sicuramente, fa audience, ma che poco s'inserisce nel contesto: malgrado proprio Gilberto Gil, ultimamente, ne abbia partorito una versione brasiliana. Un altro evidente omaggio alla globalizzazione. O, più probabilmente, alla commercializzazione. Appunto.

Jim Porto (voce e pianoforte) & Narandiba (Jurandir Santana: chitarra; Marco Frattini: basso; Maurício Melo: batteria)
Cisternino (BR), Piazza Vittorio Emanuele
Pietre Che Cantano 2007 - Brazillusion

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martedì 21 agosto 2007

Il ritorno di Girotto

In Puglia, Javier Girotto è ospite puntuale. Ci sta bene e ci torna volentieri. Forse perché le sue radici argentine confluiscono a Fasano. Forse perché il movimento musicale, tra lo Jonio e l'Adriatico, è sempre vivido, stimolante: e, pertanto, le possibilità di esibirsi riescono sempre a moltiplicarsi. Forse perchè l'ampia base dei musicisti pugliesi è di caratura assolutamente soddisfacente e, al loro fianco, si può ipotizzare, costruire, progettare. E, probabilmente, anche perché il sassofonista di Córdoba, negli ultimi tempi, ha allacciato rapporti strettissimi con il Vertere, quartetto rigorosamente pugliese di estrazione classica, ma dotato di ampi orizzonti. Impalcando un sodalizio artistico ormai cementato da un certo numero di live, da affinità evidenti, da sincera amicizia e dalla realizzazione di un lavoro discografico (Nahuel, uscito nello scorso mese di aprile con l'etichetta delle edizioni de "Il Manifesto"): già presentato a livello nazionale a Roma e, in ambito regionale, a Nardò e Noci (in Piazza Plebiscito, nel quadro di Nocincanta '07) e in attesa di essere divulgato dal vivo pure a Polignano (fine mese di agosto), Ruvo (ad inizio di settembre) e Locorotondo (in autunno inoltrato: il concerto farà parte del cartellone di Antiphonae Jazz 2007). Javier Girotto riprende a solcare le strade di Puglia e, di contro, questa terra lo accoglie con premura, ogni volta. Sicuramente perché la sua arte è indiscutibile, certamente perchè il suo sound è carico di vigore, di energia, di lucida esuberanza. Ma anche perché ciascuna performance (in duo con Biondini, oppure con i Córdoba Reunion, oppure al fianco dei Vertere String Quartet: il prodotto, al di là dei compagni di viaggio, non cambia) si rivela ricchissima di suggestioni. In cui l'artista non si risparmia mai, regalando note penetranti, fraseggi arditi, momenti di musica sempre viva. E intimamente argentina. Attorno alla quale ruotano i progetti, paralleli e convergenti. E solitamente fortunati, peraltro. «L'ultimo, quello realizzato con il Vertere String Quartet - fa sapere lo stesso Girotto - è un progetto che si poggia su composizioni originali del sottoscritto, partorite negli anni novanta, nel periodo in cui arrivai in Italia, arrangiate dal cerignolano Luigi Giannatempo e musicate in maniera più cameristica. Nel disco, tuttavia, ci permettiamo di presentare un brano, "Fíar", estrapolato dal repertorio di Astor Piazzolla: ma questa è l'unica cover». Il quartetto d'archi (due violini: il nocese Giuseppe Amatulli e il ruvese Angelo Berardi; una viola: il martinese Domenico Mastro; un violoncello: quello della barese Giovanna Buccarella) offre sponda alla creatività del leader, dignificandone ulteriormente temi e talento, irrobustendo un repertorio di per sé apprezzabilissimo e fortemente impreziosito da assoli dispendiosi e persino temerari. Repertorio che, tra le altre, prevede "La Poesía", una delle composizioni più robuste di Girotto, la già citata "Fíar" (per la quale il cordobés si affida al flauto moxeño, di fabbricazione artigianale, costruito nel remoto villaggio di Umajuaca, a quattromila metri di altitudine, e legato ad una storia di altri tempi: l'indigeno che lo ha costruito non pretese - in cambio - denaro, ma l'impegno di risarcire la terra con vino e cibo, versati in una buca scavata da Javier), la ribelle "Para la Abuela Elisa", "Nahuel" (brano che condiziona il titolo dell'intero album, dedicato alle popolazioni della Patagonia) e "La Luna", ispirata dall'omonima opera poetica di Borges. Ma che, anche e soprattutto, traduce motivazioni infinite, calore, passioni ardenti e originalità. Segni distintivi di un argentino capitato sulle rotte di Puglia. E che, da queste parti, ritornerà, molto presto. Lo attendiamo, felici di farlo.

Javier Girotto (fiati) & Vertere String Quartet (Giuseppe Amatulli: violino; Angelo Berardi: violino; Domenico Mastro: viola; Giovanna Buccarella: violoncello)
Noci (BA), Piazza Plebiscito
Nocincanta '07

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mercoledì 15 agosto 2007

Istrionicamente Bollani

C'è folla. Troppa folla. La piazza implode. Di gente. Ma insieme si sta bene ugualmente. Certo, quella piazza è piccola. E l'ospite - l'ultimo ospite del Locus Festival 2007 - è prezioso: meglio ancora, concettualmente gradito ad una larga fetta di pubblico. Non solo: Stefano Bollani è, ormai, un pianista di culto. Dalle sfumature popolari. Di più: da Locorotondo si ritrova persino a transitare spesso. Lasciando estimatori nuovi e anche amici, ogni volta che ripassa. Il concerto, poi, comincia prima di quanto ci si possa aspettare. Difficile che accada: eppure, è così. Perchè non c'è quasi più nessuno da accogliere. Sono tutti lì, già da diversi quarti d'ora. Senza contare che la sera della vigilia di Ferragosto, oltre tutto, è un incentivo aggiunto: a essere presenti, a monitorare il territorio. E si parte. Confortati dalla certezza di incontrare il Bollani di sempre: ironico, istrionico, verboso, comunicativo, fedele al personaggio che si è ritagliato dopo i primi vagiti di un successo che ha cominciato a manifestarsi meno di dieci anni addietro, sotto le note del jazz. Jazz che, lentamente, è scivolato verso composizioni che abbiamo imparato a definire contemporanee: e che, cioè, attingono da ogni ambito musicale, e che vengono triturate, digerite e confezionate per una platea eterogenea. Attitudine, questa, che - con il tempo - ha sconfinato in altri panorami: ad esempio, quello bibliografico, raggiunto con un titolo recente, "La Sindrome di Brontolo". Bollani, dunque, trascina ancora la propria simpatia con istinto giullaresco, però mai volgare. Che è poi la sua forza e il suo segreto, commercialmente parlando. Integrando tutto con il suo pianismo sciolto, immediato, gravido di divagazioni dotte, ma anche divertenti. Affrontate con il sorriso, ma anche con una tecnica di base che - tuttavia - non lo costringe, non lo limita, non lo imprigiona. Che, anzi, lo rende universale, ancorchè facilmente fruibile. Il musicista milanese ammicca a situazioni sonore agili, ricche e pastose, ma somministrando puntualmente spunti di spessore, che si agitano senza pesare, senza bussare. E che scivolano, quasi senza farsene accorgere. Come certi virtuosismi, che producono folklore e, contemporaneamnete, infondono sostanza al repertorio. Ecco, il repertorio: si passa da "Il Domatore di Pulci", brano originale, a "Tristeza" di Haroldo Lobo, un autore legato al fortunato movimento della bossa nova, dagli standard americani a "Che Cosa Sono le Nuvole", un poema di Pasolini musicato da Domenico Modugno, dalla battistiana "Mi Ritorni in Mente" a "Samba da Benção" di un altro brasiliano, Vinícius de Moraes, da "Per Elisa" di Beethoven (ma l'interpretazione, in realtà, è uno scherzo riuscito, una riproduzione credibilissima di una registrazione su vinile alterata dal tempo) ad "Antonia", composizione di Antonio Zambrini. Un repertorio, peraltro, tradizionalmente chiuso da una dissacrante madley di brani a richiesta, intrecciati sul momento e di vastissima provenienza musicale: che è, del resto, un'attesissima appendice del programma. Valorizzato, per l'occasione, dalla presenza fugace, sul palco, di un guest con cui duettare, il sassofonista Francesco Bearzatti, friulano assorbito dalle vacanze ostunesi, già tra i protagonisti della manifestazione, al fianco di Gianluca Petrella, non troppi giorni prima. Classico e meno classico, quasi sacro e quasi profano: è tutto commestibile, è tutto lecito. E lo spettatore non rimane insensibile. Il buon umore, infine, fa il resto: trasformandosi in un certo carisma che lascia la maggior parte della moltitudine in rispettoso (e, di questi tempi, anacronistico e, perciò, pregiatissimo) silenzio. E raggiungendo il cuore della gente, senza mostrare fatica. Bollani è questo. E per questo ritornerà (lo fa, del resto, ciclicamente) in Puglia. Riempiendo automaticamente la piazza o il teatro. Degli affezionati che crescono, ma anche del suo talento, del suo fervore, del suo istinto picaresco. Che, poi, è il sigillo finale di una rassegna, il Locus Festival, tra le più convincenti dell'intera stagione estiva pugliese. Per nomi, cognomi e, talvolta, anche progetti. Malgrado qualcuno abbia già dissentito sul concetto: lo sappiamo per certo. E, allora, questa volta non ci resta che dissentire al dissenso. Scusateci, può capitare.

Stefano Bollani (voce e pianoforte). Guest Francesco Bearzatti (sassofono)
Locorotondo (BA), Piazza Convertini
Locus Festival '07

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venerdì 10 agosto 2007

Un disco per gli eroi

Questa è la storia di un abbinamento un po' insolito. Che, però, funziona. Ed è la storia di un feeling antico che torna a brillare: in un estate che, talvolta, ha saputo regalarci spunti di buona musica e qualche progetto interessante. In un periodo fortemente condizionato dall'istinto di contaminazione. In un'epoca di ricerca - non sempre premiata - del nuovo. O del poco usato. Questa è la storia di un percorso intrapreso da poco, con entusiasmo sano. La storia del pianismo discretamente colto di Nico Morelli che avvolge e protegge le percussioni un po' rustiche e la batteria solida e vivace di Enzo Lanzo. Abbinamento dai lineamenti tutt'altro che inediti, ci mancherebbe, ma ben amalgamato. E punto di partenza della rassegna Ceglie Open Jazz 2007, che - più avanti - riserverà la performance di piano solo di Matthew Shipp, il live Alessandro Marseglia e l'appuntamento con il quartetto dello stesso Ship.Il primo concerto della rassegna è dotato di temi ariosi, ben strutturati, interessanti; di melodie piene, spesso incalzanti. Per l'occasione, anche registrate: detto per inciso, in previsione di un imminente disco live, che comproverà l'impegno e il progetto alla base di esso. Un progetto inseguito caparbiamente da Enzo Lanzo, soprattutto: che affonda sul profilo degli eroi, di ieri e di oggi. Degli eroi classici, degli eroi paralleli, degli eroi di sempre, degli eroi nascosti. E sconosciuti. "Heroes" è un live che raccoglie poche cover (di Monk, ad esempio) e molte composizioni originali: sia di Nico Morelli (una per tutte: "Two Voices for the Queen") che di Enzo Lanzo (ci piace segnalare "Don Cherry" e "Kroma", che il pianista tarantino definisce "ambiziosa" e che il batterista si permette anche di vocalizzare: riavvicinandosi agli albori del suo cammino musicale). Qualcuna di queste, anche suggestiva: come "Ilva's Boys", che Lanzo esegue da solo, dedicandola agli eroi di casa nostra. Come quei ragazzi che perdono la speranza e la vita sul posto di lavoro. Come è puntualmente accaduto, più volte, nelle acciaieria di questa terra. Un brano serrato e denso, in qualche modo onomatopeico: nel senso che ricorda l'incedere del ciclo produttivo. Dall'altra parte, poi, Morelli è bravo e frizzante come ce lo ricordavamo: imprime il passo, detta i tempi, distribuisce note rotonde. Oltre tutto, il quarantaduenne compositore approdato a Parigi sembra, da un po', maggiormente visibile a queste latitudini: e la cosa non può che rallegrarci, dal momento che il suo talento è ormai unanimemente riconosciuto. "Con Nico - riferisce Enzo Lanzo - la collaborazione è datata. Si è interrotta, anni fa, ma l'abbiamo riallacciata. E, tra di noi, continua a esserci molta complicità". Pienamente tradotta sul palco, aggiungeremmo. Dove si sistemano anche i tributi dedicati a quei musicisti fuori dagli schemi: eroi pure loro, con diritto pieno. E dove, al momento dei bis, si aggiunge un altro amico di un passato prossimo, il contrabbassista Nico Catacchio. Non prima, però, che Nico Morelli abbia avuto il piacere di estrapolare un passaggio (la notissima "Santu Paulu") della sua ultima produzione discografica, "Un(folk)ettable", album che osa mescolare i ritmi del jazz con quelli delle tradizioni popolari salentine, distribuito dall'etichetta Universal.Parentesi finale: "Heroes" è una proposta, un dosaggio pianificato con intelligenza. Che, tuttavia, non tutti hanno colto (ma non è obbligatorio che debba esserlo, sia chiaro). Ed è un progetto di quelli che vanno vissuti, dal vivo, con una dose di attenzione in più: e questa, ovviamente, è un'opinione, la nostra. Un progetto, consentiteci di sottolinearlo, sciupato sin dall'inizio dalla scarsa educazone di tanti, troppi ascoltatori (o, meglio ancora, presenzialisti). Ovvero, da un tarlo che, indistintamente, corrode ormai dieci spettacoli su dieci (a Ceglie, oppure altrove, il discorso non cambia). E che sicuramente non sminuisce la buonissima volontà e l'ottima intuizione del gruppo organizzatore del festival (il Sagrato della Chiesa Madre, stretto dal castello, è suggestivo, e l'idea di rendere gratuiti gli eventi era e resta meritoria). Ma cominciamo seriamente a credere che, in Puglia (una delle regioni d'Italia in cui si produce più musica, la maggior parte delle volte aperta a chiunque, senza l'obbligo del tagliando d'ingresso), sia arrivato il tempo di cominciare a utilizzare più spesso la biglietteria. E chiedere una contropartita economica: simbolica, non più che simbolica. Sufficiente, però, ad incentivare il processo di selezione naturale. La selezione della platea.

Nico Morelli (pianoforte) & Enzo Lanzo (batteria e percussioni). Guest Nico Catacchio (contrabbasso)

Ceglie Messapica (BR), Sagrato della Chiesa Madre

Ceglie Open Jazz Festival 2007

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martedì 7 agosto 2007

Dalla memoria necessaria al futuro possibile

E' vero: nell’immaginario collettivo la storia e la musica degli Inti Illimani si raggomitolano alle date, alle situazioni. Al momento storico e alla brutalità di un regime, alle pieghe dolorose di un Paese. Musica e storia sopravanzate dagli accadimenti sociali e politici che hanno spazzato la paura, la repressione, i progetti di riconquista, gli istinti della rivoluzione. Accadimenti indissolubilmente legati al passato prossimo di una terra (il Cile) e, in generale, di un continente (il Sud America) in bilico eterno tra lotta e sofferenza. E, soprattutto, dipendenti da anni oscuri e da un'afflizione pesante. Ma quel Cile sanguinario di Pinochet non esiste più e non esiste più neppure la sua criminale negazione di qualsiasi diritto personale. E, sulla Moneda, ora sventola la democrazia al femminile targata Bachelet. Sì, quei tempi sono un incubo mal cicatrizzato: eppure andati. E, con essi, si è sbiadita tutta una letteratura. Della quale la produzione degli Inti Illimani fa parte legittimamente. Come un certo movimento musicale degli anni settanta o l'eterna figura di Victor Jara.E’ vero: quel gruppo di impavidi (anche se, della formazione originaria, sono rimasti in tre) si trascinava con dignità il peso di una storia e degli anni, ma anche l'ammirazione di una parte (schierata) di una generazione: che, trentacinque anni fa, avrebbe voluto modificare e plasmare il mondo, guadagnando - in cambio - troppe disillusioni. Alla quale, però, le canzoni degli Inti Illimani rievocavano ancora travagli e passioni, barbarie e resistenze. E producevano ancora emozioni. Una parte di una generazione che, molti anni dopo, popolava testardamente i loro concerti, alzando quel pugno sinistro e rincorrendo le strofe di rabbia, lacerate dal tempo. Perché vibrava ancora qualcosa, di fronte a quelle note, a quelle parole. Perché quella storia pulsava sempre e quella febbre continuava a crescere. Non era solo la nostalgia, ad agitarsi. C'era, piuttosto, una forza viva che proseguiva a sgomitare: e ogni esibizione dal vivo della formazione cilena, rifugiata in Italia negli anni della dittatura, abbatteva il muro dell'archeologia ideologica e i vincoli temporali. Rafforzandosi di energia propria, vivida, sempre giovane. Difficile spiegarlo, difficile crederlo: ma la tensione, neppure troppo tempo fa, era fresca e si arrampicava possente. E quella musica sapeva trascinare come prima: chi, trentacinque anni fa, viveva la quotidianità degli eventi e anche chi non c'era ancora. Ma il tempo passa. E qualcosa cancella, obbligatoriamente. Gli Inti Illimani hanno già deciso di varcare l’epoca. Sentite Horácio Durán, il leader del gruppo: “La nostalgia è un brutto sentimento, quando diventa sociale. E la nostra formazione deve rappresentare un ponte tra la memoria necessaria e un futuro possibile. Ormai siamo un ottetto multigenrazionale: fra di noi c’è chi è nato dopo il golpe, dopo i primi vagiti del terrore. E, soprattutto, non vogliamo essere il museo di noi stessi: ma un’espressione di un continente molto vivo”. Allora, il progetto si ammoderna, si trasfigura, si allarga. Cambia. Differenziando il passo, mutando tratti somatici. Quello che è stato, è stato. Dopo, c’è altro. La frase magica (“el pueblo unido jamás será vencido”), con la musica che le ruota attorno, resta un tributo doveroso, al quale è impossibile sottrarsi, ma solo a fine concerto. E un tributo al passato è anche “Rin del Angelito”. Due rarità, ormai. Il repertorio attuale, proposto a Martignano, è però assolutamente nuovo e, sostanzialmente, taglia i rapporti con il retroterra emozionale. Proiettando un live ben curato, sobrio (anche troppo), ricco di motivi attinti dal patrimonio tradizionale sudamericano, vicinissimo al concetto di world music. Eppure lontano dai sentimenti partoriti un tempo e dalle scenografie già viste e vissute. In una parola, raffreddato. Forse anche per la scelta (lodevole, ci mancherebbe) della locale amministrazione comunale di sistemare davanti al palco un numero consistente di sedie: se non altro, per celebrare degnamente il ventunesimo compleanno di Piazza della Repubblica, la location dell’evento che, proprio dagli Inti Illimani, fu inaugurata nel 1986. Ma un concerto come quello del gruppo cileno, correggeteci se sbagliamo – andrebbe vissuto in piedi, popolarmente. Come, riteniamo, sia sempre accaduto, dovunque. E’ il nuovo corso, gente. Occorre guardare avanti. E cade, probabilmente, un altro mito. Certo, dentro la nuova storia c’è ancora il legame forte con le proprie radici. C’è la cultura dell’appartenenza, l’orgoglio, il sentimento, una certa leggerezza che accomuna tutti gli artisti sudamericani, il gusto di proporsi, una giovialità naturale. Gli Inti Illimani si divertono ancora. Affacciandosi deferentemente sull’Italia che li ha protetti, salvaguardati e, forse, anche incoraggiati: “Buonanotte Fiorellino” di De Gregori e una versione interessante della tarantella sono, del resto, due maniere di esprimere la propria gratitudine verso un popolo che hanno sentito e sentono sempre amico e di prepararsi il cammino verso il futuro possibile. Due maniere per non dimenticare che la loro musica non possiede frontiere, perché mai le ha possedute. Anche quando la formazione, alla fine degli anni sessanta, si costituì, confrontandosi con i canti popolari boliviani. Da allora, sì, il tempo è passato in fretta, infilandosi nello sconvolgimento dei costumi e nella frenesia dei rinnovamenti del ventesimo secolo. E’ passato, cancellando qualcosa. E’ il nuovo corso, gente. E gli Inti Illimani, persino loro, si adeguano. Il tempo è andato. Lasciando, sul fondo, uno strato di tristezza.

Inti Illimani
Martignano (LE), Piazza Della Repubblica

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mercoledì 1 agosto 2007

Ruvida e spavalda Pietra

Ruvida e un po' spavalda. Terragna e calda. I segni particolari di Pietra Montecorvino attraggono e aggrediscono. Senza insidiare. Tentano e graffiano, senza intralciare. La sua voce irretisce e, spesso, assale. Senza infastidire. Lasciando che il sound mediterraneo e l'istinto (e, con l'itinto, anche il mestiere) partenopeo facciano il resto. Cioè, uno spettacolo popolare (e, a tratti, vagamente nazional-popolare), duttile, cantautoriale ed energico, contaminato (da stili e arrangiamenti sguinzagliati in libertà) e mai protocollare. L'associazione "Pierluigi Galluzzi" la sceglie come primo ed unico ospite (i mezzi economici scarseggiano anche a Polignano) dell'edizione duemilasette dell'omonimo Premio, dedicato alla figura del discografo precocemente scomparso e arrivato all'edizione numero sette. E Pietra Montecorvino risponde con un live lieve, informale, persino gaudente, sicuramente riuscito. E dichiaratamente ruffiano: perchè il repertorio scelto per la serata riunisce alcuni classici tra i più abusati della canzone napoletana ("Luna Rossa", "Maruzzella", "Oj Vita Mia"), dimenticando - ad esempio - la produzione di autori come Pino Daniele o come lo stsso Eugenio Bennato, assai vicino all'artista anche fuori dal palco, e perchè porta in dote l'omaggio (doveroso) al polignanese più famoso, Domenico Modugno ("Tu Sì 'na Cosa Grande"). Pietra, comunque, dimostra interamente la propria arte di gestire la scena e le situazioni, anche in frangenti sdruccioli: come quando dalla chitarra del crispianese Martino De Cesare non partono le tonalità giuste e occorre fermarsi un paio di volte. Dettagli a parte, la sua voce roca taglia il palco e lei si muove con agio, distribuendosi con esperienza. E sorprendendo piacevolmente già in apertura di programma, con la versione italo-partenopea di "Vuelvo al Sur", tango firmato da Carlos Gardel e rivisitato nell'atmosfera e nell'arrangiamento. La rilettura della già citata "Maruzzella", invece, è moderna, ma profonda, e quella della muroliana "Luna Rossa" è immediata, spedita. Non semplici cover, dunque: ma rielaborazioni sostenute da virtù e caratteristiche personali, espressioni di un dosaggio equilibrato di vitalità e personalità. Il sud, intanto, è un pensiero pregnante. E "Sud" è anche la sua prima composizione di successo, colonna sonora di una ormai più che ventennale fatica cinematografica di Arbore ("FF.SS. Che Mi Hai Portato a Fà 'ncoppa a Pusilleche Se Non Mi Vuoi Più Bene?"), in cui la Montecorvino, allora giovanissima, è tra gli interpreti principali. Brano, questo, che segue l'applauditissimo intervento dell'ospite del concerto, Enzo Gragnaniello, e che precede un bis proposto fuori dal palco, a contatto strettissimo con il pubblico (felicemente conquistato) di Piazza Vittorio Emanuele. Pietra Montecorvino canta ed esporta Napoli, con sagacia consumata e con grande teatro. E, soprattutto, piace: per quell'imprudenza che si confonde con il calore e la passionalità, per quella ruvidezza della voce che ne esalta il profilo, per quella presenza scenica che non stinge e non disturba. E' verace, Pietra. E poi, dentro, c'è la Napoli delle cartoline, delle storie quotidiane, dell'immaginario collettivo. La Napoli che ci hanno insegnato a riconoscere, da sempre. Tra duecentomila luoghi comuni, tra le verità dei suoi anfratti.

Pietra Montecorvino (voce), Mohammed Ezzaime El Alaoui (loud e cori), Martino De Cesare (chitarra), Daniele Brenca (basso) & Pachi Palmieri (cajon e tamburo)
Polignano a Mare (BA), Piazza Vittorio Emanuele
VII edizione Premio "Pierluigi Galluzzi"

(pubblicato sul sito www.levignepiene.com)