sabato 27 ottobre 2007

Se la pizzica incontra il jazz

Pizzica e jazz. Insieme. Fuse e servite in una soluzione unica. Che non vuol dire situazione ibrida. Né congestionata dall’esigenza di mescolare, di apparire e di rincorrere il mito della modernità che tanto piace ai discografici e al mercato. Quel mercato che si accartoccia su qualsiasi novità. Pizzica e jazz, non separati. Ma ciascuno con la propria funzionalità, con la propria personalità, con le proprie caratteristiche. Liberi di esprimersi, interagendo. Piazzate sul tappeto sonoro parallelamente, eppure abilitate a convergere. Sentimenti popolari e note ricercate, gli uni affianco alle altre. Sfidando gli istinti della logica. Evidentemente, si può. E il risultato è molto migliore di quanto si possa sospettare o prevedere. Lo dimostra «Un[folk]ettable», il disco (ormai sufficientemente datato, ancorchè ancora giovane) e, quindi, il progetto che Nico Morelli e il suo gruppo (quello italo-francese, con il quale il pianista tarantino viaggia da qualche tempo) hanno recentemente promosso oltralpe con la prospettiva di promuoverlo degnamente anche in Italia. Un’dea che, almeno per il momento, ha attirato la curiosità di «Antiphonae Jazz 2007», contenitore pronto a suggellare la rinnovata partnership con il Comune di Locorotondo. E, va detto, anche la curiosità popolare: del resto, il live del quintetto, aprendo ufficialmente il nono cartellone della rassegna, ha richiamato nella raccolta location dell’Auditorium Comunale un numero corposo di amici personali e di appassionati. Molti dei quali sono rimasti in strada, per sopraggiunto sold-out. Ad ascoltare, defilati. «Un[folk]ettable» rievoca foneticamente un antico successo di Nat King Cole, ma il prodotto è figlio legittimo di questi tempi, dove è pratica comune scavalcare il già ascoltato. Ma è anche la somma dell’incrocio tra un musicista pugliese (Morelli, appunto), un contrabbassista francese di origini croate (Stephane Kerecki), un batterista dal nome italiano e dall’animo e dall’accento fortemente francese che arriva dalla world music (Bruno Ziarelli), un polistrumentista della Normandia innamorato delle sonorità meridionali della terra di Dante (Mathias Duplessy) e una voce calabrese emigrata da anni lunghissimi a Parigi (Tonino Cavallo). Pensate, cioè, ad una commistione di queste proporzioni e immaginate il resto. Cioè una formazione effervescente, decisamente informale (qualche sprazzo di cabaret musicale regala simpatia e ammorbidisce i toni) e abile a incrociare due ambiti musicali (la pizzica e il jazz, dicevamo) distinti e distanti da sempre. Eppure, integralmente shekerati, in giusta dose: quanto basta per non complicare il cammino di nessuno. «Io sono pugliese – rivela Nico Morelli – e da sempre compongo jazz. Ad un certo punto, però, mi sono chiesto: “Perché suono jazz?”. E, allora, ho pensato che mescolare la musica popolare della mia terra e le sonorità jazzistiche fosse una buona intuizione. Certo, avevo necessità di un cantore popolare che conoscesse il repertorio: e, a Parigi, dove risiedo e opero, non è facile trovarlo. Ce n’è uno, però. Ed è l’unico: Tonino Cavallo, che ho prontamente coinvolto in questo progetto. La cui base musicale è quella tradizionale, riarrangiata (finemente, ndr) da me». E, aggiungiamo noi, puntualmente portata sui binari di un jazz limpido. Con naturalezza. Perché, attorno al cuore del tema, che attinge dichiaratamente alla pizzica, alla tarantella o a i motivi più classici dell’universo popolare (anche di area campana, per capirci), s’installano forti e chiari gli assoli e le divagazioni di preciso stampo jazzistico. Che mai rinunciano a un tessuto elegante, sia detto. E neppure ai ritmi serrati e alla licenza di improvvisare, che rendono la performance semple fluida e agile, capace di rimanere in piedi, da sola. Per due ore, senza trascinarsi. Tra titoli familiari (“Menamenamò”, “Contropizzica”, “Cantilena”, “Pizzica Strana” e “Antidoto alla Tarantola”) e un omaggio a Thelonius Monk, unico tributo alla galassia degli standard. Tra un rammarico profondo (la stampa francese, spiega Morelli, non ha decodificato e, dunque, apprezzato il lavoro discografico) e una consolazione: che la gente, la gente di Puglia, sembra aver ben accolto «Un[folk]ettable», un disco fabbricato in Francia pensando ai terragni orizzonti di questo fazzoletto di mondo. Ancora ispirato, ancora affascinante.

Nico Morelli Quintet (Nico Morelli: pianoforte e tamburello; Tonino Cavallo: voce, tamburelli e organetto; Mathias Duplessy: voce, chitarra, tamburelli e berimbau; Stephane Kerecki: contrabbasso; Bruno Ziarelli: batteria)
Locorotondo (BA), Auditorium Comunale
Antiphonae Jazz 2007

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

domenica 21 ottobre 2007

Dischi - Seven (Massimo Carrieri)

Massimo Carrieri è martinese, ha trentatre anni e qualcosa da dire. E da dare. Con la musica. Con composizioni corpose. Di quelle che lasciano trasparire il lavoro che esiste alla base, nelle fondamenta. E' un autore giovane, ma sufficientemente navigato. Eppure, sgambettato dalla scarsa visibilità: sin qui. Perché assorbito da studi lunghi (di arrangiamento e orchestrazione, con Luís Bacalov), in Italia e anche all'estero (al Berkler College of Music di Boston, per esempio). Perché il ritorno alle origini (la Puglia, appunto) è un avvenimento ancora abbastanza giovane. Perché il pianismo contemporaneo è una zona ancora di frontiera: non è musica classica e non è neppure jazz o altro: e, allora, gli spazi per esprimersi si affievoliscono. Perché la materia è complessa: e poi possiede già i suoi miti, quei nomi e cognomi rampanti che un po' tutti conoscono e cominciano ad amare. E che, magari, prima o poi, apriranno la strada a chi è arrivato dopo, cronologicamente parlando. Massimo Carrieri è un compositore discretamente eclettico. Dentro la sua musica sgomitano impegno e intuizioni. Ma la sua carta d'identità è tuttora sconosciuta ad un pubblico più vasto. Anche a queste latitudini: che, alla fine, sono anche le sue. Malgrado abbia scritto pure per Antonella Ruggero. E nonostante si siano avvicinati alla sua fonte Nico Morelli o Massimiliano Pitocco, uno dei principi del bandoneón in Italia. Perché, forse, mancava un disco a suo nome, chissà. E la pubblicità è il motore del commercio: anche in campo musicale. Quel disco, però, ad ottobre dell'anno duemilasette è infine arrivato. E regolarmente presentato nel decentrato, ma accoglientissimo (e raffinato) Caffè Letterario Altrove di Crispiano: uno di quei posti di un tempo che escono dall'album dei ricordi o da quello delle nostalgie. Le nostalgie di un luogo che non si è mai creduto potesse esistere davvero, in questa Puglia di contraddzioni infinite. Dove la differenza è dentro l'atmosfera, nei soffitti affrescati o sul pavimento di quelle case di una volta. E parentesi chiusa. Il disco è "Seven", cioè "Sette", praticamente autoprodotto, partorito e gestito con calma e con cura, nel tempo. "Sette", perché sette sono le tracce - tutte ben strutturate - che lo assemblano. «Sette anche perché - confida l'autore - quello è il numero che mi accompagna da sempre in tutte le date importanti. E anche perché il lavoro è stato ultimato nel 2007: proprio quando, alla settima composizione, mi sono accorto di dover confezionare il prodotto. Di più: sette tracce con sette quadri distinti e, quindi, sette significati differenti». Album intimista e, sicuramente, anche molto intimo, "Seven" affonda le radici nella classica contemporanea e nasconde una storia suggestiva: «Esatto: è stato interamente registrato all'interno dell'Istituto di Meditazione e Preghiera "Le Sorgenti", tra Lecce e Novoli. Per scelta, la mia. Un giorno ci passai davanti e mi affascinò l'archiettura da castello medievale. Poi, è passato del tempo. Successivamente, a spartiti completati, volevo evitare la freddezza di uno studio di registrazione e la routine dei tecnici. Mi ricordai di quel luogo: ci sono rimasto cinque giorni, da solo. C'ero io e la strumentazione appositamente trasportata sin lì per autoregistrarmi: bastava premere un pulsante e suonare». Massimo Carrieri esegue quello che scrive, senza abbandonarsi all'improvvisazione. Che non fa parte, almeno per adesso, dei suoi progetti. Proprio perché il progetto è scrivere. «E, in effetti, scrivo da tempo. Sono arrivato alla registrazione tardi. Ma gran parte dei brani sono stati ideati nel periodo in cui studiavo e vivevo lontano da Martina, dove sono tornato due anni fa. "Romance", per esempio, è una composizione del 2000. Solo "Alba a Leuca" è abbastanza recente». E neppure il jazz rientra ancora nel progetto. «Anche se - continua - l'interesse con il jazz bianco, peraltro scoccato non più tardi due anni addietro, abbia contribuito a formarmi. Quelle note, non lo nego, mi attirano: ma non sono un jazzista. Scrivere jazz è un'altra cosa, occorrono altre logiche per farlo». E, scavando, neppure il mercato discografico è una priorità: «Assolutamente. "Seven" non nasce con pretese commerciali, ma per il desiderio di comunicare». Chapeau, maestro Carrieri. Il disco merita il successo. Se non altro, per le parole spese. Quelle che non tutti osano spendere. Perché il mercato pretende personaggi, prima di tutto. Abili ad autopromuoversi, soprattutto. Perché, oggi, apparire è sempre più conveniente di essere. E la regola non scritta recluta regolarmente soldati sempre più numerosi. Ma noi, in fondo, siamo inguaribili romantici: e attendiamo ancora fiduciosi il momento in cui l'apparenza mostrerà l'inganno.

Seven (autoprodotto, 2007)
Massimo Carrieri (pianoforte)

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

domenica 14 ottobre 2007

Dischi - L'Immagine di Te (Radiodervish)

Ipotizziamo: il progetto-Radiodervish, sin dagli inizi, s’impregna di originalità, per niente scalfita dalle frequenti operazioni di avvicinamento altrui. La rincorsa a certe sonorità, cioè, esiste e resiste, assalendo da diverse direzioni: ma l’originalità, quando si scopre e appare, non sfugge ed emerge. Per questo, la gente avrà captato il messaggio, dilatatosi nel tempo. Accettandolo e incoraggiandolo. Quel messaggio che nasconde tra le note una sua limpidezza, un istinto diretto e profondo. E la versalità vocale di Nabil Ben Salameh, leader di una formazione ormai fortemente (e affettivamente) radicata nel territorio, quello di Puglia, ma facilmente esportata: e non da oggi. Una formazione che, di questi tempi, può essere considerata di culto: affermazione difficile, ma suffragata dai fatti. E non alberga il timore di ritrovarsi smentiti. E poi, ancora: la band galleggia sicura su indubbie qualità musicali, sapientemente shekerate tra gli arrangiamenti puliti e ricercati di Michele Lobaccaro e le composizioni solide, disposte ad affrontare il peso degli anni e gli attentati subdoli della memoria. Tra atmosfere mediorientali e la world music di impronta europea. Infine: certa musica è musica di questi tempi e occorre pure tenerne conto. La moda, cioè, trascina anche gli spartiti e si fa cavalcare. Le cause, forse, spiegano gli effetti. Ma, se non lo fanno, cambia poco. La verità è che ogni apparizione dal vivo dei Radiodervish crea attesa. Ovvero, affluenza: recentemente confermata a Conversano, in un live all’aperto con le controindicaziooni della tramontana e la concorrenza ingombrante del calcio in tv (la Nazionale giocava e vinceva). Non è poco. E ogni novità discografica del gruppo appulo-palestinese diventa un evento: come la presentazione ufficiale de «L’Immagine di Te», album di nove tracce griffato Radiofandango, avvenuta nell’affollatissima (e, per questo, angusta) ma preziosissima sede barese della Feltrinelli. Prima nazionale ovviamente: in attesa di pubblicizzare il prodotto (in commercio dal 19 ottobre) nel resto del territorio italiano: sfruttando, appunto, la catena dei punti Feltrinelli. Il lavoro segue il binario del successo evidente degli ultimi tre dischi realizzati dai Radiodervish (“Centro del Mundo” del 2002, “In Search of Simurgh” del 2004 e “Amara Terra Mia” del 2006), ma non lo rincorre. Non completamente, almeno. E non solo per il singolo che presta il nome all’intero album: una canzone, diciamo così, saldamente agganciata ai vagoni del pop. Partorita con un gusto meno esotico, forse a beneficio di un pubblico ancora più ampio. Che, riteniamo, sia uno degli obiettivi precipui della produzione, affidata a Pino Pinaxa Pischetola (responsabile del missaggio e della programmazione dei suoni) e, soprattutto, a Franco Battiato. La cui presenza, da questo punto di vista, è assolutamente itinerante, nonché vincolante. Lavoro basato su brani inediti, di amore e di vita, che sa continuare ad attingere dalle tonalità arabeggianti, ma che concede numerosi ammiccamenti alla musica largamente distribuita negli anni ottanta e anche alla disco music del decennio precedente. «Battiato, per noi, ha sempre costituito un punto di riferimento – svela Nabil -. Oggi, è anche qualcosa di più». Guida spirituale, ambasciatore nobile di un progetto che vuole ampliarsi, ramificarsi, complice di un sogno che vuole durare nel tempo. A dieci anni dalla costituzione del gruppo, che adesso può contare – dopo qualche apparizione fugace del passato – anche sul violino di Anila Bodini, che numericamente ha rimpiazzato il violoncello di Giovanna Buccarella, compagna di viaggio degli ultimi tempi. C’è sempre, invece, Alessandro Pipino, tastierista (e fisarmonicista) storico dei Radiodervish, che è anche il coautore musicale di tutti i brani (“L’Immagine di Te”, “Tutto Quello Che Ho”, “Babel”, “Se Vinci Tu”, “Milioni di Promesse”, “Yara”, “Avatar”, “Sama Beirut” e “Stella Briciola di Campo”). E c’è, alla batteria, anche Antonio Marra, il quinto uomo di una formazione che, se non cambia indirizzo, comincia a perseguire pure altre direzioni musicali. Evitando, se non altro, di ripetersi e di adagiarsi sulle fortune già conosciute. Affrontando, semmai, un altro problema: le reazioni dei più affezionati, abituati ad un certo cliché, fresco e raffinato. Reazioni che conosceremo presto. Consapevoli che il concetto di qualità è salvaguardato anche dall’ultimo disco. Da cui si può ripartire: avvicinandosi con fiducia.

L'immagine di Te (Radiofandango, 2007)
Radiodervish (Nabil Ben Salameh: voce e chitarra acustica; Michele Lobaccaro: basso e chitarra acusstica; Alessandro Pipino: tastiere; Anila Bodini: violino; Antonio Marra: batteria)


(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

venerdì 12 ottobre 2007

Coraggiosa Ondina

Napoletana vera, spontanea, estroversa. Fuori dal palcoscenico, Ondina Sannino è vivace, frizzantina. E, davanti al microfono, sa essere anche intrigante. Senza aggrapparsi alla prestanza della voce. No, non possiede voce potente, Ondina. Ma la sua voce sa avvolgere il brano, accompagnarlo: e sa modellarsi su di esso. Non ci sono forzature, ma molte sfumature. Forse, la sua musica non folgora e non rapisce immediatamente. Ma va pedinata e scoperta con calma, ascoltandola. E poi la voce porta in dote lo scat, quella vocalizzazione di sillabe senza senso compiuto che è uno dei suoi marchi distintivi. Che fa tanto jazz, quello di cinquant'anni fa. E che fa tanta atmosfera, senza però apparire anacronistico: perché reinventato sulla base di sonorità attualissime, come le sole percussioni di accompagnamento. E, comunque, perché sistemato in un tessuto sonoro adattato ai tempi. Malgrado il live presentato a Locorotondo dalla Sannino (anzi, dal suo settetto) abbia duplicato le note di Wayne Shorter e, dunque, una fetta del suo mondo musicale, galleggiato tra gli anni sessanta e quelli settanta del novecento.E sì: la seconda proposta di "Antiphonae Jazz 2007" è un omaggio (a Shorter, appunto) senza divagazioni, espressamente confezionato - già tre anni addietro - da un disco che, adesso, Ondina Sannino e il pianista Riccardo Di Stasi hanno avuto il piacere di presentare al pubblico di questa porzione di Puglia. Un disco generato, almeno in parte, con nomi diversi (in sala di registrazione c'erano Fabrizio Bosso alla tromba, Stefano Calcagno al trombone e Giuseppe La Pusata alla batteria; dal vivo si esibiscono Marco Sannini, Lello Carotenuto e Gaetano Fasano), che non si limita a trasportare gli spartiti e a rischiare gli arrangiamenti (firmati Di Stasi). Andando, invece, oltre. Perché il progetto è proprio questo: «Abbiamo selezionato una certa quantità di composizioni - ammette la Sannino - e formato il gruppo. Poi, mi sono preoccupata di scrivere dei testi che si inserissero nel contesto e che, dunque, sono un arricchimento postumo. E' stata una sfida. Difficile». Una sfida, esatto. Vinta con un pizzico di fascino (della Sannino: un fascino informale, non imbalsamato), con una sezione di fiati tosta (i già citati Lello Carotenuto e Marco Sannini e Giulio Martino), una batteria robusta (Fasano si fa sentire e, sonoramente, incide), un contrabbassista di indubbie e accertate qualità (Aldo Vigorito) e il coordinamento di un entuasiasta (e divertito) Di Stasi. Tutti centrifugati in un concerto dai tratti spesso marcati ma, a volte, delicati, che non rinuncia a dispensare immagini e colori. Immagini e colori disposti a sottolineare l'originalità della scrittura di Shorter. «Quell'originalità che mi ha conquistato», sussurra Ondina, di rosso vestita, napoletana di Castellammare che arriva dalla musica popolare, coltivata in tempi ormai lontani, vivace e sopantenea, estroversa e frizzantina, informalmente affascinante. E, evidentemente, anche coraggiosa.

Ondina Sannino (voce), Riccardo Di Stasi (pianoforte e trastiere), Marco Sannini (tromba), Giulio Martino (sax tenore e sax soprano), Lello Carotenuto (trombone), Aldo Vigorito (contrabbasso) & Gaetano Fasano (batteria e percussioni) in "Homage to Wayne Shorter"
Locorotondo (BA), Auditorium Comunale
Antiphonae Jazz 2007

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

giovedì 11 ottobre 2007

Il Mediterraneo di Savina

Il Mediterraneo si apre. Sempre di più. Alle relazioni interetniche, all’interscambio artistico. Il processo di confronto e condivisione (di ideali: musicali e, quindi, culturali) procede sicuro, s’intensifica. Ne hanno parlato e ne parlano diffusamente, ne parliamo anche noi: da tempo. La novità non esiste. Registriamo, piuttosto, il fiorire di iniziative che tendono a consolidare i rapporti tra genti di estrazione e provenienza diversi: oggi assolutamente necessari e conseguenziali, a fronte dei mutamenti sociali del ventesimo e, soprattutto, del ventunesimo secolo. Il Mediterraneo si apre e, perciò, si restringe. Nel senso che le distanze si abbattono e che quel mare un po’ chiuso e bollente non è più frontiera, ma campo aperto. Malgrado certe occlusioni mentali resistano forte, un po’ ovunque. E nonostante lo scenario politico non produca troppi argomenti per rallegrarsi. Il Mediterraneo può essere attraversato anche nello spazio di qualche canzone, da una riva all’altra. Incrociando le rotte dei fenici e gli istinti migratori dei giorni nostri. Accompagnando l’esigenza di plasmare peculiarità differenti, abitudini diverse e religioni oppostre. Del resto, la canzone (tradizionale oppure no: fa lo stesso) e, più in generale, la musica hanno insegnato e insegnano a riunire. Obiettivo che anima anche la produzione di Savina Yannatou, greca minuta dalla voce duttile e marcata. Una di quelle voci abili a dispensare atmosfere senza tempo, a scavare in profondità, a strappare dalla terra – da tutte le terre – le nostalgie ancestrali, il dolore quotidiano, la bellezza dei momenti più semplici. Che, poi, sono i fotogrammi di una storia, di una storia comune. La storia di tutti noi: musulmani, cristiani, ebrei, atei e maroniti, conservatori e progressisti. Il fascino mediterraneo e l’eleganza spontanea di Savina Yannatou è riapparso sui palcoscenici di Puglia. Per l’occasione, su quello del Teatro Kismet OperA di Bari, che ha ospitato la terza puntata di “Soul Makossa”, la (ormai rituale) rassegna approntata dal dinamico Centro Interculturale Abusuan di Bari, un contenitore attento all’importanza e alla complessità del vocabolo “contaminazione” e del concetto di interscambio. Il live dell’artista ateniese, oltre tutto, costituiva uno dei cardini del cartellone dell’ottava edizione, interamente dedicata alla figura femminile. Scelta, peraltro, dettata da una particolarità del duemilasette, anno europeo per le pari opportunità e l’uguaglianza tra uomini e donne, direttamente promosso dal Parlamento di Strasburgo. E, allora, in un’ora e mezza ben strutturata, partendo proprio dalla Grecia, Savina e la “Primavera en Salonico”, formazione che la accompagna (contrabbasso, fisarmonica, violino, percussioni, chitarra, bouzouki e fiati) hanno immediatamente sconfinato nel repertorio dei canti del sud dell’Italia (dalla Sicilia alla Sardegna), dell’Armenia, delle terre arabo-andaluse, della Galizia, delle genti israelite e della Palestina (con una canzone tradizionalemnte eseguita nel corso delle ricorrenze di nozze). Non dimenticando la delicatezza terragna e quella leggerezza penetrante che attualizza il passato, riproposto con giochi vocali ricorrenti, ma non ingombranti. E regalando momenti di musica autentica, agile. Buona a sostenere l’idea di Mediterraneo su cui insistere e applicarsi ancora: anche se ne parlano tutti. Anche se le rotte che lo solcano possono rivelarsi eccessivamente sfruttate, prigioniere di una moda o, peggio ancora, di un’assuefazione. Nemici subdoli dai quali diffidare. Vigilando con cura.

Savina Yannatou (voce) & Primavera in Salonico
Bari, Teatro Kismet OperA
Soul Makossa 2007

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)