giovedì 12 aprile 2007

Affabulatore di successo

Giovanni Allevi si arrampica agile. Ma non è più, ormai, solo un semplice emergente ancora esposto alle intemperie del mestiere e all’ineluttabilità degli eventi. Anzi, è da tempo un artista di prestigio ben consolidato. Tournée dopo tournée. Meglio ancora, il pianista ascolano sembra felicemente percorso dal brivido sottile del successo, diciamo pure quasi unanimemente riconosciuto. Successo che, certo, potrà aggradare o meno: solitamente, i detrattori non mancano, dovunque. E neppure i critici, che gli rimproverano di aver fiutato un percorso più comodo e meglio redditizio e di cavalcarlo, accontentandosi e rinunciando ad una composizione più cerebrale: che, detto per inciso, la sua enorme tecnica musicale consentirebbe tranquillamente. E di non cercare soluzioni nuove, autoconfinandosi al già ascoltato e già prodotto. Cioè all’usato banalmente sicuro. E, soprattutto, nonostante la buona conoscenza dello strumento, di non cedere alle tentazioni dell’improvvisazione: che rendono il musicista più completo. Per definizione. Eppure, ad ogni modo, di lui - da un po’- si parla molto. E sempre più spesso. Merito di una certa creatività di base, che gli va comunque (e innanzi tutto) riconosciuta. E che ha persino avvicinato il suo cognome all’opera dei maestri di un tempo: Mozart, Chopin e Liszt (è vero, non inventiamo niente, riportiamo giudizi già emessi). E merito pure della capacità di rendere la propria musica fruibile al grande pubblico, al quale interpone colloqui confidenziali e vincoli di simpatia un po’ costruita. O dell’abilità di non prendersi troppo sul serio, davanti alla platea. E, magari, merito anche di una buona struttura (la comunicazione, cioè) che lo sorregge e lo promuove con efficacia. Oppure di un look moderno (felpa, jeans e scarpe da tennis) che seduce la meglio gioventù e fa vendere. E, perché no, di una composizione fortunata (“Come Sei Veramente”, del penultimo album, «No Concept», diventata la colonna sonora di uno spot BMW) che lo ha pubblicizzato oltre ogni previsione. E, infine, della sua quarta fatica discografica («Joy», 2006, cinquantamila copie vendute), che il ragazzo – un trentottenne ispirato e attento ai dettagli della commercializzazione del prodotto, discreto affabulatore, ironico e anche un po’ ruffiano – sta continuando a presentare, in Italia e anche oltre (New York, Tokio). Scendendo, perciò, anche in Salento, ed esibendosi in un caloroso Teatro Politeama Greco (sold out, per la cronaca). Dopo essere passato, recentemente, anche da Taranto e, il giorno prima, a Barletta. Giovanni Allevi, intanto, possiede un solido presente. Ritagliato da uno stile rilassato e sempre godibile: che va benissimo a chi, da un disco o un concerto, non pretende niente di più che passare ottimamente il proprio tempo. E guarda fiducioso al futuro: l’imminente condivisione artistica con la Berliner Orchestra lo conferma. Scommettendo sulla sua musica, che tuttavia non è propriamente classica e non è sicuramente jazzistica. E che non vanta radici popolari. Ma che lascia incontrare sonorità classiche e pop: dalla cui miscela sorge un sound elegante e misurato, sempre dolce, ma perfettamente assimilabile da questi tempi difficili e sempre più difficilmente etichettabili. Soprattutto in ambito artistico. «Joy», interamente proposto a Lecce, è una sintesi del suo mondo, tra il serio e il gioviale. Un mondo che pesca in tutte le direzioni, senza albergarvi: «Ho sempre chiesto alla musica di portarmi in un luogo incantato». L’ultimo cd realizzato, arrivato in coda a «Dita» (1997), «Compilation» (2003) e al già citato «No Concept» (2005), non tradisce l’impostazione alla quale il talento marchigiano, “Premio Recanati” 2005, sembra coscientemente accartocciato. Impostazione da cui, è una sensazione, non intende facilmente derogare. E solo “Jazzmatic” («Un pezzo che non ha niente di jazz, perché non c’è imporovvisazione») accellera il ritmo di un concerto che percorre felice il suo binario, senza distrasi. E che poi finisce con il tributare la sezione dedicata ai bis a due brani meno recenti, estratti dal penultimo disco. Dimenticando tutto il lavoro precedente. Ma «Joy» è il presente dorato. Ed è quello che la gente chiede, alla fine. «Un dico nato così – confessa Allevi - : tornando dalla Cina, ho sofferto un attacco di panico, è intervenuta l’ambulanza e mi sono trovato al Policlinico. Lì ho giurato: se fossi uscito da quel posto, avrei suonato con gioia di vivere. E’ venuta a trovarmi, allora, una melodia dolcissima, chè è divenuta il primo brano dell’album: “Panic”, appunto. Attorno al quale, poi, è nato il resto del lavoro». Non sappiamo, però, quanta verità esista e quanta letteratura navighi dentro la storia. Ma sappiamo di un pianista dotato, di un affabulatore che decodifica il mondo, che sa guadarlo. E che, in questo tempo periglioso, si muove con agio e scaltrezza. Complimenti sinceri.

Giovanni Allevi (pianoforte)

Lecce, Teatro Politeama Greco

(pubblicato sul sito www.levignepiene.com)

venerdì 6 aprile 2007

Personaggio all'improvviso

Personaggio all’improvviso. E figura di rapida, rapidissima ascesa. Mario Biondi è una voce alla moda. Ma una voce, vera. Verace. Profonda e possente, dunque penetrante. Per questo, forse, sgomita con disinvoltura. E per questo, oltre che piacere, si impone ad un pubblico già discretamente vasto. Anzi, crescente. Giorno dopo giorno. Personaggio senza approfittarne. Cioè senza esagerare. Che non deborda, che non varca i limiti. Questione di giudizio e mestiere, evidentemente. Dettagli trasportati sul palco, dove comincia a riconoscere il profumo della notorietà, a trentasei anni. Spesi, sin qui, in quel limbo dove, troppo spesso, si agitano professionalità e talenti in cerca di un varco, di uno spiraglio. Che, quasi sempre, non si apre. Perché, più di una volta, sono le coincidenze a modificare il destino: quando va bene. Personaggio positivo. Anche nelle parole (semplici) consumate. E voce intrigante. Buona a tenere il live, a dirigerlo, a indirizzarlo. Voce che emerge con forza propria, mai banale, mai scontata. E mai sprecata. Non insegue il sensazionalismo spicciolo, Mario Biondi. Lasciando, però, un tappeto di buone sensazioni, attorno. Mescolando jazz, pop, soul confidenziale e anche un po’ di funky, appoggiandosi a composizioni originali («This Is What You Are») e a qualche standard («On A Clear Day», «Slow Hot Wind»). Comunque, una voce che cattura l’ascolto. E che obbliga a incagliarsi contro le immagini preconfezionate, così scomode da scansare. La prima: dicono che sia la voce più nera del panorama musicale italiano. La seconda: è il Barry White di casa nostra. Del quale possiede timbro e sfumature La terza: è la personalità emergente dell’anno di grazia duemilasette, semestre primo. Tutto vero, effettivamente. Come dimostrato assai recentemente nella kermesse nazionalpopolare di Sanremo (apparizione applauditissima al fianco dell’ostunese Amalia Grè: e la notorietà acquisita, ovviamente, nasce in Liguria) e, poco più avanti, anche a latitudini meno celebrate, quelle di casa nostra. Con un concerto convincente e robusto tenuto al Mavù di Locorotondo (per la rassegna “Mavù Plus”: la stessa che, neppure due settimane prima, aveva dirottato in Puglia il nuovo progetto degli Avion Travel). Dove – e l’inciso è essenziale – il vocalist catanese si fa assistere dagli High Five, un quintetto di solide radici jazzistiche: rampante o, se preferite, già affermato. Per capirlo, basta sfogliare i nomi e i cognomi dei protagonisti, giovani, ma già sufficientemente decorati: il trombettista torinese Fabrizio Bosso, fantasista e battitore libero insieme, personalità e sfrontatezza; il sassofonista napoletano Daniele Scannapieco, libero di galoppare su sentieri vasti; il contrabbassista romano Pietro Ciancaglini, trentaduenne autodidatta; il pianista Luca Manutza, brioso e avvolgente, e il batterista Lorenzo Tucci, abruzzese tecnico ed energico. Tutti supportati da Luca Florian, percussionista invitato spesso e volentieri. Ricapitolando, una voce e un quintetto di sei artisti che dal jazz partono e al jazz arrivano: conviene sottolinearlo, dribblando gli equivoci. Giocando, è chiaro, con le sonorità. E con i fiati, che sanno improvvisare, incrociare, sovrapporsi e inseguirsi. Ed edificando il concerto, sempre frizzante, sul ritmo. Un concerto niente affatto rigido, persino elegante, a suo modo. Meglio ancora: asciutto. E, comunque, ben confezionato, gravido di atmosfere. Atmosfere nu jazz, ovvio. Nel corso del quale, altrettanto ovviamente, si impone «Handful of Soul», il disco di esordio (quarantamila copie vendute, sin qui) di Mario Biondi, artista dalla consumata esperienza come turnista (si chiama gavetta) e, perciò, sempre assai sicuro davanti al microfono. Questa sì, una garanzia. Per lui e per noi.


Mario Biondi (voce) & High Five Quintet (Fabrizio Bosso: tromba; Daniele Scannapieco: sassofono; Luca Manutza: pianoforte; Pietro Ciancaglini: contrabbasso; Lorenzo Tucci: batteria). Guest Luca Florian (percussioni)
Locorotondo (BA), Mavù Club
Mavù Plus

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)