sabato 30 giugno 2007

Chiara Civello, intimamente

Garbo, sobrietà. E approcci morbidi. Con gli accordi, con l’universo musicale, con la gente. E poi note misurate e tenere. Molto intime. Voce gentile e bella presenza: Chiara Civello si predispone bene, con grazia. Giacca bianca su un completo rosso tenue, viso pulito di una semplicità espressiva. Cattura. E apre l’edizione numero tre del Locus Festival, nell’ormai angusta Piazza Rodio, insufficiente ad ospitare gli appuntamenti di una manifestazione ben reclamizzata (da Bass Culture) e legittimamente appetibile. Anche e soprattutto per lo spessore artistico degli altri ospiti chiamati ad integrare, sino al trenta luglio, il suo cartellone (tra questi, vale ricordarlo, anche Franco Battiato, oltre a Paolo Fresu, alla capoverdiana Lura e a Gianluca Petrella). Ma anche per la capacità di offrire, anno dopo anno, percorsi musicali ben delineati.La ragazza romana, cresciuta negli States, è un’autrice che scalpita e intriga. Per come affronta il palcoscenico e per come si offre. Senza aggredire. Cioè, con raffinatezza. E con una naturalezza che ci è sembrata non preconfezionata, non artificiale. Piano e voce, inseguendo il cliché più nobile della canzone d’autore. Ma anche chitarra, studiata in passato e abbandonata, ma recuperata in tempo nel deserto dell’isola di Stromboli, malgrado l’intenzione originaria di riposarsi. Un’intenzione, peraltro, tradita dopo tre giorni di relax. «La chitarra che, in Sicilia, è diventata presto la compagna di soggiorno. Anzi, il simbolo del mio nuovo disco, “The Space between”, appena confezionato, che esce il 21 settembre». Sussurri, una scorta di delicatezza, tonalità che non nascondono le buone frequentazioni sonore (Chiara si è nutrita e ancora si nutre di bosse nova: si sente, si vede). Canta in inglese, in italiano, in portoghese (con pronuncia affidabilissima, garantiamo) e anche in francese. Ha ritrovato il proprio Paese da un anno o poco meno, dopo i dodici spesi oltre confine, in cui sembra aver trovato forma e sostanza: il cosmopolitismo le è concesso. La sua musica è elaborata con gusto e si lascia impastare da una malinconia sottile, che evapora lieve, che non opprime. Non è propriamente bossa, ma le si avvicina, ammiccante: la chitarra, ancora prima del piano, non mente. E non mentono neppure i testi. E’ musica da ascoltare, mai scomposta. «Immediata - suggerisce lei - . Nel mio primo lavoro discografico, ma anche in quello imminente, ho scelto di raccontare i miei momenti, quelli vissuti più recentemente. L’album che ho appena preparato, però, parla innanzi tutto degli spazi. Gli spazi tra le note, gli spazi tra un incontro e un altro». Chiara Civello, ventisei anni, possiede uno stile e non lo abbandona. Perché la canzone d’autore è (deve essere) anche innervata di stile. Distribuisce atmosfera, sempre e comunque. E, appena può, cerca alleanze artistiche, attingendo dal repertorio di Jobim, Armstrong e Bruno Martino. Somministrando, tuttavia, una personalità propria. E baganando felicemente il primo concerto personale in terra di Puglia, dove pure vanta origini non troppo lontane, da parte di madre (Martina Franca). E dove, in fondo, è bello averla incontrata. Con tutta la sua sensibilità. Con tutto il suo swing.

Chiara Civello (voce, pianoforte e chitarra)
Locorotondo (BA), Piazza Rodio
Locus Festival 2007

(pubblicato sul sito www.levignepiene.com)

giovedì 28 giugno 2007

La tecnica del buon gusto

Quando il sentimento scavalca il mestiere, la dogana che divide un concerto come tanti da un’esibizione da vivere (e raccontare) è già abbondantemente oltrepassata. E quando la velleità di divertirsi - insieme, sul palco – supera la tecnica pura e semplice, il confine tra un live di routine e uno suadente e profondo è già decisamente varcato. Il punto è proprio questo: la passione per la propria musica e la facilità ad eseguirla, con calore e affiatamento, è un passaporto fondamentale. Che, con la sola perizia musicale, non si ottiene. Il passaporto del buon gusto, invece, è un documento accessibile a tutti. Ma non raggiungibile da chiunque: anche se dotato. Parentesi chiusa. Per entare in argomento: Michel Portal e Richard Galliano. Due personalità ormai sacre nell’universo musicale della qualità per quasi settanta minuti carichi di tensioni emotive e pulizia sonora. Due artisti completamente convincenti (per intensità, asciuttezza, capacità di completamento reciproco) in un concerto da attendere e poi gustare. Con attenzione. Meglio, in uno dei tanti concerti del ricco cartellone di Bari in Jazz 2007, rassegna quasi infinita (più o meno, sei ore al giorno di note smistate in diversi punti della città: da Piazza San Pietro a Piazza Mercantile, dall’Auditorium della Vallisa al Terminal Crociere del Porto, senza voler escludere il Terminal Arrivi dell’Aereoporto di Palese, sede dell’antipasto antimeridiano) di quattro giorni quattro. Tutti pieni. E tutti aperti alle diverse strade che partono dal jazz e, al jazz, alla fine riportano. Passando anche per le proposte più sperimentali (è il caso della performance del violinista portoghese Carlos Zingaro, del monopolitano Gianni Lenoci e del percussionista Marcello Magliochhi, oppure quella pop-rock dei Dondestán o il progetto di Lucas Niggli). Proposte diverse e, talvolta, convergenti. E, purtroppo, in qualche occasione anche in sovrapposizione l’una con l’altra (e questo, sinceramente, ci è dispiaciuto). Diciamolo sùbito: nell’elenco delle opzioni (una ventina) della manifestazione creata dall’Associazione Culturale Abusuan di Bari e curata artisticamente (assai bene, per quel che abbiamo capito) da Roberto Ottaviano, quella di Portal e Galliano ci ha particolarmente stimolati. E non perché le proposte dei Three Moons (Partipilo al sax, Gargano al contrabbasso e Accardi alla batteria), o il trio guidato da Norma Winston (voce modulata, morbida, a tratti sofisticata), o l’incontro tra il guru Trilok Gurtu e gli Arkè String Quartet o la sfrenata Minafric Orchestra di Pino e Livio Minafra (capace di unire sonorità balcaneggianti, latineggianti, atmosfere delle vecchie grandi orchestre, ritmo e persino le vocalizzazioni di un guest graditissimo come Nabil Salameh dei Radiodervish) o, ancora, il piano di Paolo Angeli, il quartetto di Kenny Wheeler, la Gangbé Brass Band o il quintetto di Henry Texier non siano degni di sincera considerazione e attenta riflessione. Anzi, tutt’altro. Ma quella commistione tra le nostalgie della fisarmonica e l’intimità dei clarinetti ha saputo sedurre la gente: che, istintivamente, si è lasciata rapire. Primo cittadino di Bari, Michele Emiliano, in testa.Operazione facile, peraltro. Gli strumenti hanno saputo riempire il palcoscenico, immediatamente. Con un repertorio saporito, con incroci sincronizzati, con divagazioni (o improvvisazioni, fate voi) sempre efficaci. Trascinando emozioni continue. Portal e Galliano, con esperienza, si sono equamente divisi assoli, momenti di pregio e applausi, intrecciandosi e separandosi, per poi ricongiungersi. Galleggiando sicuri nel concetto di affiatamento, lasciandosi volentieri irretire anche dall’eccentricità di alcune soluzioni sonore (frizzante e interessante, ad esempio, la versione di «Asa Branca», pezzo degli anni trenta scritto dal brasiliano Luís Gonzaga, a cui – poco dopo – è seguita l’interpretazione dell’italianissima «Caruso»). E nobilitando il resto della serata con una scaletta sempre succosa, ben ponderata. Edificata, parafrasando le parole spese pubblicamente dall’art director Roberto Ottaviano, sull’esigenza di ricercare il lato più bello della musica. «In una terra ricca di potenzialità, che vanno però sostenute. E perseguendo una filosofia: presentare lavori niente affatto scontati». Noi sottoscriviamo.

Michel Portal (clarinetti) & Richard Galliano (fisarmonica)
Bari, Piazza San Pietro
Bari in Jazz 2007

(pubblicato sul sito www.levignepiene.com)

venerdì 22 giugno 2007

Dischi - Introspezione di un Viaggio (Pace Quartet)

Un disco, soprattutto a proprio nome, è ancora un biglietto da visita, un argomento di presentazione. Malgrado l’offerta alimentatasi senza controlli, ovunque, in qualsiasi ambiente musicale. Ma un disco è anche un testimone: dell’impegno, della confidenza con gli spartiti, di un concetto artistico, delle emozioni di chi compone e interpetra. Il primo lavoro, poi, discograficamente parlando, è sempre il più amato. Anche se la militanza sul palcoscenico è già datata: malgrado – ed è il caso di Camillo Pace – la giovane età. Il più amato, certo: ma, non per questo, necessariamente convenzionale. Cioè ruffiano: da dover convincere tutti, da piacere a chiunque. Non per questo, necessariamente facile da ascoltare. E, non per questo, necessariamente jazzistico: nonostante il contrabbassista martinese, proprio tra le onde del jazz, si sia innegabilmente formato, al di là di qualche sconfinamento che emerge puntuale di volta in volta. Di più: Camillo Pace inseguiva il disco, il suo primo disco da band leader, da diverso tempo. E il prodotto finito, finalmente, è arrivato. Superando l’inconveniente della data che scivolava, mese dopo mese. E’ arrivato tra la fine di aprile e l’inizio di maggio, con l’etichetta (anch’essa martinese) delle Edizioni dei Corrieri Cosmici di Andrea Annicelli. Anche se la registrazione in studio, sbrigata ad Ostuni, risale al 2006: esattamente un anno prima. L’album , intanto, si porta dietro un titolo profondo e ambizioso («Introspezione di un Viaggio»), una foto di copertina sfuggente eppure penetrante (come quell’albero isolato nella campagna) e sei tracce dai nomi impegnativi («Lettera ad un Orfano», «Soldati di Piombo», «Viaggio di una Nuvola», «Il Mio Sogno», «Colloqui» e «Il Circo»). Dentro, il contrabbassista (a proposito, non è troppo comune che un contrabbassista registri a proprio nome) si procura molto spazio vitale, lasciandosi facilmente convincere dalle sonorità analogiche digitali, gestite per l’occasione da Lello Patruno (batteria elettronica), Valerio Daniele (chitarra elettrica) e Josed Chirudli, pianista di nicchia che vanta studi robusti, idee galoppanti ed esperienze oltre confine, ma – innanzi tutto – personaggio genuino, un “duro e puro” della musica di queste terre. L’intero lavoro, è chiaro, viaggia al di fuori del senso comune e guarda oltre. Come confermano le note di copertina firmate dallo stesso Camillo Pace: «Questo disco nasce dallo studio di uno strumento che non è della famiglia di quelli musicali. La sua funzione di spettro analizzatore arricchisce, qui, le conoscenze del suono». Un suono che diventa materia di un viaggio, la cui introspezione è un’esigenza: prima personale e poi musicale. L’album, cioè, rielabora l’ormai ricco entroterra di esperienze su cui si basa la conoscenza di Camillo Pace, uno degli interpreti pugliesi più frequentemente impegnati sulla scena live, all’interno di diverse formazioni, per numero e genere (cantautorale, jazzistico, reggae, funky). Offrendo, oltre tutto, qualche intuizione: quella, ad esempio, del suono di una matita su un foglio di carta che accompagna le prime note del primo brano prodotte dal contrabbasso. Al di là dell’ampio apporto della tecnologia, comunque, «Introspezione di un Viaggio» non consegna melodie sempre sdrucciole: anzi, spesso sono di assorbimento immediato, talvolta delicate e piacevoli, intessute con equilibrio e nobilitate dalle note di un piano che non rinuncia a qualche sprazzo di eleganza. Che, pure, si alternano a sonorità più nette, addirittura più brutali. Melodie peraltro mai scontate, perché innervate di interruzioni (anche brusche) e cambi di passo ricorrenti. E architettate per sorprendere. «Quasi per assalire l’ascoltatore – spiega Camillo Pace - . Il disco, del resto, è una provocazione. Nei confronti del jazz, anche se non è un’opera jazzistica, ma pure nei confronti dell’elettronica e, più in generale, della musica». E che, diversamente da altre produzioni, tributa al contrabbasso un raggio d’azione molto ampio, dilagante. Tanto da oscurare, unitamente al piano, gli altri strumenti. Pedaggio imposto, evidentemente, da chi ha ideato, arrangiato e condotto il progetto. Ma questa, dicevamo, è l’opera discografica prima di Camillo Pace. E qualcosa, in fondo, gli andava concesso.

Introspezione di un Viaggio (Edizioni dei Corrieri Cosmici, 2007)
Camillo Pace Quartet (Camillo Pace: contrabbasso; Josed Chirudli: piano ed effetti analogico digitali; Valerio Daniele: chitarra elettrica; Lello Patruno: batteria elettronica)

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

domenica 17 giugno 2007

La nuova strada dei Radicanto

Dalle atmosfere etniche e popolari al cantautorato venato d’eleganza. Il concetto musicale dei Radicanto emigra, calandosi in un percorso accarezzato nel tempo, inseguito e – infine – raggiunto. E forgiato da mutamenti lenti, eppure sostanziali. I mutamenti già captati negli ultimissimi tempi, cioè: e sintetizzati da un diverso approccio alle note, dall’evoluzione dei testi, dalla rinuncia ad alcuni strumenti (Giuseppe De Trizio, il band leader, abbandona il mandolino e si dedica esclusivamente alla corde della chitarra), dall’opzione delle basi computerizzate, dalla ricostituzione dell’organico (il gruppo, da un po’, è un trio: e, adesso, con De Trizio e Fabrizio Piepoli, viaggia la violoncellista Giovanna Buccarella). E - soprattutto, forse – dalla solidificazione artistica degli ispiratori del progetto, ormai saldi tasselli del mosaico orchestrale di un’autrice di larghe intuizioni e di sicura versatilità come Teresa De Sio. Radicando, oggi, significa canzone. Canzone stesa su un tessuto musicale persino delicato (il violoncello della Buccarella assicura momenti anche raffinati) e plasmata da una voce, quella di Piepoli, ben modulata, sicura e talvolta sinuosa, ma anche riarrangiata dagli effetti del campionamento. Canzone che galleggia tra nostalgia e versi maturi, appoggiata sulla ricca gestualità del suo vocalist: che, detto per inciso, molto spesso ricorda quella di Nabil Salameh dei Radiodervish e che, proprio per questo, non garantisce assoluta originalità. Ma il prodotto lordo resta assolutamente interessante e indubbiamente ben amalgamato. Premiato, del resto, anche dal Festival Musicultura, che ospiterà alcune composizioni dei Radicanto nell’appuntamento finale. Composizioni, oltre tutto, in attesa di essere concentrate in un disco, che prima o poi si concretizzerà. E, ad ogni modo, presentate a Bari, nell’affascinante terrazza del Fortino di Sant’Antonio, nella prima delle due giornate dedicate ai percorsi musicali attraverso la camzone d’autore, kermesse organizzata con un pizzico di coraggio dal Club della Canzone d’Autore di Bari, grazie pure all’apporto della locale amministrazione comunale. Operazione che, se non altro, ha trascinato l’appuntamento dal chiuso di un locale (nel 2006 fu ospitato al Nord Wind Discopub) al centro animatissimo della città. «InCanti d’Autore 2007», manifestazione giovane in cerca (e meritevole) di rispetto e consolidamento, alla sua seconda edizione ha peraltro coinvolto anche la voce e la chitarra di Armando Adonino, il trio capitanato da Paolo Troccoli, il sestetto dell’avvocato Nick Lisco, autore barese ironico e dal timbro vocale vagamente caposseliano (che, con toni morbidi, racconta storie di vita quotidiana, sorretto da una band di estrazione jazzistica che non disdegna il blues), i sempre ricercati Fabularasa, il tarantino Daniele Di Maglie & la Salamandra Orchestra, il quintetto di Angelo Ruggiero e, infine, l’arguto e spesso impegnato Goran Kuzminac, serbo d’origine ma italianissimo nella lingua e nello stile musicale. Traducendo, cinque ore di parole: chiare e surreali, immediate e rifinite, colte e semplici. Parole, il motore delle idee. Come quelle di un festival: un festival della canzone d’autore, che ancora festival vero e proprio non è. Ma che, silenziosamente, ambirebbe a diventarlo. Il solo coraggio, però, a questo punto non basta più. Dal prossimo anno, servirebbe anche un supporto (esterno) più sostanzioso. Per fortificare il progetto, per ampliarlo. Per colmare un vuoto musicale. Che, pensandoci attentamente, a Bari e in Puglia si avverte.
Radicanto (Fabrizio Piepoli: voce, tastiera e campionatore; Giuseppe De Trizio: chitarra; Giovanna Buccarella: violoncello)Armando Adonino (voce e chitarra) Paolo Troccoli (voce e chitarra)
Fabularasa (Luca Basso: voce; Poldo Sebastiani: basso; Vito Ottolino: chitarra; Giuseppe Berlen: batteria)
Daniele Di Maglie (voce e chitarra) & Salamandra Orchestra (Gianni Gelao: flauto, mandolino e ciaramella; Christò Chiapperin: piano; Agostino Scaramello: basso; Giovanni Chiapperini: fisarmonica e batteria)
Angelo Ruggiero Quintet (Angelo Ruggiero: voce; Emanuela Lioi: violino e cori; Diego Morga: piano; Camillo Pace: contrabbasso; Pippo D’Ambrosio: batteria e percussioni)
Goran Kuzminac (voce e chitarra)
Bari, Terrazza del Fortino di Sant’Antonio
InCanti d’Autore 2007

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

martedì 12 giugno 2007

Di tutto, di più. In libertà

Niente balcanismi, questa volta. Chi li attendeva o pretendeva, non è ripagato. Il progetto Zina (o meglio, il nuovo progetto Zina), che è poi uno dei ramificanti progetti di Cesare dell’Anna, è – invece – parte di tutto e, chissà, anche di più. E’, cioè, pop arabeggiante (la voce del gruppo è, non a caso, tunisina), rock addolcito dai fiati e dai ritagli di etnica, rock esuberante di molta elettronica (anche troppa, forse): e dimentichiamo sicuramente qualcosa. Ad esempio, qualche venatura di latin jazz e qualche accenno di rap. Insomma, è world music: termine utile per definire il non facilmente classificabile. Quello che è scomodo etichettare: perché l’etichetta scolorisce, evapora. Lasciando sensazioni senza nome, molto spesso. Niente balcanismi, no. Ma un caleidoscopio di colori ed intenzioni. Un contenitore di suoni (anche tosti, “sparati”) che si aggrappa ad un unico filo conduttore: la musica, punto di riferimento sovrano in mezzo all’anarchia delle note. Zina è un gruppo salentino che orbita oltre i confini geografici, oltre le frontiere sonore, senza bavagli, senza misteri. E senza schemi. Tutto o quasi viene centrifugato, digerito e ridistribuito con nonchalance, liberamente. L’orchestra acquista forza dall’impatto sonoro che genera e dalla personalità errante della sua stessa idea. Che non possiede limiti geografici, culturali e musicali. Il sound è ricco e moderno, volubile, spazioso: in cui la prima tromba, quella di Cesare Dell’Anna, può navigare, scorazzare, interferire, divagare, improvvisare, impartire il percorso, assecondare il ritmo, rilanciare. Senza essere accentratrice. Almeno, non in questa occasione. Il live, preparato da Rodolfo Renna, vecchio amico dei palcoscenici di casa nostra, e presentato ad Avetrana (Piazza Giovanni XXIII, nel quadro dei festeggiamenti per la ricorrenza di Sant’Antonio da Padova), è di difficile catalogazione, ma vitale e corposissimo. Sfrenato, anche. Dove certi sud del mondo si incontrano e incontrano altre esperienze, altre latitudini. Confrontandosi, evolvendosi. Certo, l’apporto delle basi elettroniche è – soprattutto in coda al concerto – esiziale, inarrestato. Oseremmo dire, anche un po’ esagerato, perché aggressivo. Tanto da togliere qualcosa alla verve e alla tecnica dei protagonisti (Dell’Anna a parte, Davide Arena è un ottimo musicista e il resto della band conosce i tempi e sa affrontare la platea). Condizionando il cliché dell’intero programma, che talvolta si svela ripetitivo. E che non rinuncia a caricare i toni, appena può. Dicevamo: di tutto e di più, in libertà. Quella libertà di espressione attorno alla quale l’evoluzione artistica del trombettista leccese, da diverso tempo, sta circumnavigando, aprendo nuovi sentieri e allacciando nuove collaborazioni (anche un altro suo progetto, quello legato al nome degli Opa Cupa, sta valutando nuove soluzioni sonore). Rispondendo all’animo nomade e istrionico dell’ispiratore e del caudillo di un’espressione musicale alternativa, forse un po’ trasgressiva, inconsueta, colorata. Uno di quegli interpreti che vivono meglio misurandosi continuamente: con la musica, con gli intrecci, con se stesso, con il mondo che galoppa, con la progettualità, con la varia umanità che scavalca gli ostacoli disseminati sulla strada dell‘integrazione e dell’interazione. E, infine, con la notte. Quella porzione di vita che misura e decodifica la lista delle sfide.

Zina
Avetrana (TA), Piazza Giovanni XXIII
Festeggiamenti di Sant’Antonio da Padova

(pubblicato sul sito http://www.levignepiene.com/)

giovedì 7 giugno 2007

E, trent'anni dopo, l'Apogeo

Trent’anni di Perigeo e della sua storia non avrebbero potuto dissolversi così, impunemente. Quel progetto targato Giovanni Tommaso, del resto, è riuscito a segnare il sentiero intrapreso dal jazz italiano, curioso di approcciarsi a sonorità più moderne, più avanzate. E poi trent’anni, in ogni caso, rappresentano una dote importante, una porzione di tempo liofilizzata in un impegno che non andrebbe dilapidato, mai. Trent’anni dopo, allora, arriva l’Apogeo. E c’è ancora, dietro e davanti le quinte, Giovanni Tommaso, contrabbassista di culto e di militanza corazzata, ma anche di solido palmarès e di ampio retroterra artistico. Già, l’Apogeo: in realtà, altro non è che un quintetto incaricatosi di riallacciare il discorso, quel vecchio discorso interrotto del Perigeo. Il Perigeo di Tommaso, ma anche di Bruno Biriaco alla batteria, Claudio Fasoli al sax, Tony Sidney alla chitarra e Franco D'Andrea al piano. Riallacciare il discorso, ecco il punto. Indicare una via nuova, che parta da quella più antica. Coinvolgendo (alcuni) compagni nuovi. E proprio Tommaso, anche se non lo dichiara apertamente, fa intendere il senso del progetto. Con chiarezza. Non per coltivare le ombre ingombranti della nostalgia. Ma, probabilmente, per il gusto di riunire la propria esperienza musicale, quella del chitarrista Bebo Ferra e del batterista Anthony Pinciotti con la il rampantismo virtuoso di un sassofonista non più emergente (meglio dire: già emerso) come Daniele Scannapieco e la vitalità del pianoforte gestito dalle mani di Claudio Filippini. L’Apogeo, dunque, prova a difendere il concetto di continuità. Dimostrando che c’è qualcosa da dire, ancora. E da offrire. Facendolo con un concerto robusto, ma non eccessivamente trasgressivo, malgrado il rockeggiare della chitarra di Ferra, che si preoccupa di trascinare il sound verso sponde meno convenzionali. Delegando, però, il sax di Scannapieco a riaccostare le tonalità più tipiche del jazz: il jazz nella sua accezione, diciamo pure, più consueta. Con un concerto quadratosi a lavori in corso e inserito nel cartellone duemilasette di Fasano Jazz, in seconda battuta (avevano aperto la rassegna i Soft Machine Legacy di Teo Thravis; la chiudono i Tàngheri, con un live che lega il tango e il jazz). Un concerto, soprattutto, inedito. E sì: l’Apogeo, in terra di Puglia, ha debuttato davanti a una platea. A tutti gli effetti. Perché l’idea è ancora abbastanza giovane e perché l’unico precedente incontro dei cinque protagonisti avviene tra le pareti di uno studio di registrazione romano, dove nasce il disco che conferisce maggior dignità al progetto, accompagnandolo. Particolare, questo che non sfugge, peraltro. Almeno in partenza. La prestazione piace da sùbito, ma decolla definitivamente quando l’intesa si consolida, a musica già avviata. Le poche ore di interazione, cioè, traspaiono. Per poi sfumare e consegnare un’ora e mezza di buone intuizioni, di assoli di pregio, di buoni ritmi e di energia sufficiente a soddisfare la gente radunata in largo San Giovanni Battista. Ma anche novanta minuti di respiro vasto, intensi. Moderni, ma quanto basta. E niente affatto freddi. L’Apogeo decide di non impressionare deliberatamente con effetti sconvolgenti. E, dunque, di non esagerare. Mantenendo saldo il legame con quel jazz da cui si nutre. Affacciandosi, quando serve, verso orizzonti più aperti. Ma assicurandosi (e assicurando) un equilibrio intelligente. Persino colto. Perché, a suo modo, raffinato.

Giovanni Tommaso “Apogeo” Quintet (Giovanni Tommaso: contrabbasso; Bebo Ferra: chitarra elettrica; Daniele Scannapieco: sassofono; Claudio Filippini: pianoforte; Anthony Pinciotti: batteria)
Fasano (BR), Largo San Giovanni Battista
Fasano Jazz 2007

(pubblicato sul sito www.levignepiene.com)