lunedì 24 dicembre 2007

Intimità nel gelo

Amalia, intimamente. Quasi sussurrando, con quella voce che sa navigare nelle note. Ma sempre misurata, calcolata, distribuita in dosi contenute. Amalia Grè è la musica che non vuole aggredire. E' una voce che non vuole abusare di se stessa. Ed è un personaggio che non ama debordare. Anche la gestualità è discreta. E l'approccio al concerto può persino sembrare un po' algido. La ragazza detta sul palco il suo talento, ma senza approfittarne. Poi, la notte di Locorotondo è umida e gelida. E il palcoscenico è esposto all'atmosfera amara, a immediato ridosso della campagna di Val d'Itria. Amalia è una vocalist infreddolita: non fa nulla per nasconderlo. Né per dimenticare di averlo più volte sottolineato. E' infreddolita e, per questo, forse un po' fredda, distaccata. Certo, il live non si priva di una godibilità di fondo, ma non decolla mai per davvero. Probabilmente, anche perché - quando potrebbe farlo - esaurisce il suo viaggio. L'esibizione, cioè, è corta (sessantacinque minuti, bis compreso) e la platea abbastanza indisciplinata. La stagione concertistica del Mavù parte con un nome divenuto importante: e anche giustamente. L'artista ostunese si è guadagnata speso specifico e spessore con ottime produzioni discografiche, critiche generose e una partecipazione recente nel gran circo mediatico di Sanremo. E la stessa location, da un po' di tempo, ha abituato i frequentatori della notte a proposte stuzzicanti. Le premesse migliori, dunque, ci sono. Però, manca qualcosa. La Grè non frantuma la patina di gelo (meteorologico e figurato) tra la scena e il pubblico, limitandosi. Trattenendosi. Non concedendosi mai completamente. O, almeno, questa è la sensazione. Anche se l'idea fondamentale è felice: perché galleggia tra jazz e pop, tra standard (una sofisticata e interessante versione di Moon River, ad esempio) e produzione propria, tra inglese ed italiano. Puntando deliberatamente sulla modulazione della voce e sulla delicatezza, che restano due punti di riferimento all'interno del suo bagaglio musicale. Di più: Amalia Grè interagisce assai poco con la gente, spendendo pochissime parole: quelle che ribadiscono gli inconvenienti atmosferici. Crediamo che, a certi livelli, non basti. E poco importa se il pianoforte è uno solo (in sede di presentazione, invece, il concerto prevedeva due pianisti). Anche perché Michele Ramauro sfrutta benissimo il suo, regalando momenti agili e vivaci e sonorità amabilissime. Il quartetto, peraltro, si appoggia sul basso di Marco De Filippis e sul timbro marcato della batteria governata da Alessandro Graziani. Talvolta, infine, Ricchezza Falcone garantisce le scene: compensando, in qualche maniera, la distanza tra la voce e la piazza. Diciamola tutta, allora: avremmo immaginato un concerto più caloroso, più avvolgente. Anche più ricco, sotto il profilo della quantità. Un concerto nato soprattutto per dignificare l'ultima fatica discografica della cantante pugliese, "Per Te": anche intrigante sotto il profilo musicale, ma - riteniamo - complessivamente banale nei testi in italiano. E questa volta, almeno, Amalia Grè e la sua voce possono ritenersi in credito.

Amalia Grè (voce), Michele Ranauro (pianoforte), Marco De Filippis (basso acustico e basso elettrico), Alessandro Graziani (batteria) e Ricchezza Falcone (scene)

Locorotondo (BA), Mavù Club

(pubblicato sul sito www.levignepiene.com)

sabato 15 dicembre 2007

L'oriente sudamericano

Il violino e la voce arrivano da Tokio: la morbida raffinatezza di Aska Kaneko si allarga e diventa intensa, vibrante. E anche le percussioni trascinano l’accento nippnico: Yahiro Tomohiro sa dosare il ritmo e le esplosioni. E’ l’anima orientale di Gaia Cuatro, un agglomerato di suoni speziati e anche veementi, di inventiva e intuizioni feconde. E, qualcuno dice, anche un azzardo musicale. Perché l’altra metà della formazione sorge nell’altra metà del mondo, nell’Argentina dei mille colori, e si consolida in Europa: anzi, in Italia. Con il pianismo fresco, ma anche vigoroso e colorito di Gerardo Di Giusto, un cordobés che ha lavorato (e, tuttora, lavora) anche con Javier Girotto. E con il contrabbasso di Carlos Buschini, detto “El Tero”, probabilmente il collante di anime così diverse. L’avrete capito: il live dell’insolito quartetto, penultima presenza nel cartellone di «Antiphonae Jazz 2007», per l’omonima associazione martinese costituiva – sin dall’inizio – una sfida nella sfida. Una sfida al conformismo jazzistico, concettualmente non troppo tenero con la proposta dei Gaia Cuatro e, più in generale, con la commistione di due universi (culturali, ancor prima che musicali) diametralmente diversi. Una sfida al pubblico di casa nostra, discretamente disabituato ad incontri così arditi. Una sfida all’intero progetto stesso, che – da ottobre a oggi – ha voluto presentare percorsi differenti che si incrociano e si sovrappongono al jazz: dalla pizzica e dalla musica popolare italiana rielaborata da Nico Morelli alle sonorità shorteriane di Ondina Sannino e Riccardo Di Stasi; dall’incontro tra il quartetto d’archi dei Vertere e la produzione originale di Pasquale Mega alla contaminazione intercontinentale. In attesa dell’ultimo concerto in programma, quello di Dado Moroni ed Enrico Pieranunzi: due pianoforti, insieme. E nient’altro.Una sfida, certo. Anche alle asperità meteorologiche. In questo caso, inattesa. E, purtroppo, persa: perché la neve e il ghiaccio sull’asfalto scoraggiano molti. Anzi, moltissimi. Privando della cornice adeguata un appuntamento variegato e venato di ritmi anche sostenuti, dove il jazz entra ed esce, lasciando il terreno all’improvvisazione, alla mescolanza di stili e sonorità, ad una contaminazione suggestiva che corre spedita, senza inciampare. «Ci siamo trovati nel 2003, a Parigi – spiega El Tero Buschini – e, da quell’esperienza, abbiamo capito che si poteva approfondire il discorso, partire con un progetto comune. Insistere. E non è assolutamente facile, al di là delle esperienze artistiche di ciascuno di noi, ritrovarsi: per ovvi motivi logistici. Eppure, ci stiamo riuscendo. In quattro anni, abbiamo realizzato anche due dischi: il primo registrato a Tokio, il secondo in Italia, a Udine». Il violino di Aska Kaneko impartisce la variazioni sui temi; la batteria etnica di Tomohiro è discreta, ma presente. E, all’occorrenza, vigorosa, impetuosa. Il fraseggio di Gerardo di Giusto è fresco, ma anche energico. Buschini si divide tra basso e contrabbasso, istruendo la navigazione tra jazz e funk, tra chacaraca e baguala, due sentimenti musicali profondamente argentini. Il concerto si mantiene sempre lieve, frizzante. Custodendo con sapienza la propria originalità e la sua musicalità generosa. E i protagonisti si spartiscono equamente spazi ed evoluzioni, slanci e propagazioni. Vincendo la sfida, superando il pregiudizio, abbattendo la diffidenza. E sconfiggendo, sul palco, la colpa di non possedere un nome ancora facilmente spendibile. Quello che, magari, avrebbe solleticato il coraggio di affrontare la neve incostante e il freddo aggressivo di Locorotondo.

Gaia Cuatro (Aska Kaneko: voce e violino; Gerardo Di Giusto: pianoforte; Carlos Buschini : basso e contrabbasso; Yahiro Tomohiro: batteria etnica e percussioni)

Locorotondo (BA), Auditorium Comunale

Antiphonae Jazz 2007

(pubblicato sul sito www.levignepiene.com)

mercoledì 12 dicembre 2007

Il mondo di Gaber

Il mondo di Gaber è questa contemporaneità controversa e irriguardosa dei sentimenti, lo spazio di quarant’anni discussi e intensi, è la nostra storia incerta, è la società difettosa che sfugge, è questa strada che si torce e si biforca. E’ un mondo reale, lo specchio di quel che siamo. La variante di quello che avremmo dovuto essere. Il risultato, lucido e scabroso, di quello che abbiamo voluto diventare. Ma il mondo di Gaber è quello che Gaber ci ha lasciato. Né più, né meno. Come se il tempo non fosse transitato. Perchè l’evoluzione degli anni non ci ha spronati, non ci ha modificati, non ci ha migliorati. E’ lo stesso mondo che Giorgio Gaber ci ha raccontato. Trent’anni fa. Vent’anni fa. E dieci anni fa. Ancora vigorosamente attuale, immutato. Con i suoi tic, le sue debolezze, i suoi opportunismi, le proprie convenienze, tutti i conformismi, le cattive abitudini. Il mondo di Gaber è sempre qui. Tra noi. E Raffaele Zanframundo, massafrese ormai navigato sui palcoscenici della finzione, ha voluto riproporlo. Davanti ad una platea, quella del Teatro Pubblico Pugliese, circuito per il quale ha assemblato “Mondo G”, spettacolo teatral-musicale presentato alla stampa a Crispiano e, successivamente, al pubblico dell'Ideal di Manduria. In attesa di esportare il progetto a Castellana, Massafra, Manfredonia, Cerignola, Andria, Molfetta e Sannicandro Garganico. Proposta fedele all’originale, chiariamo sùbito. Perché i monologhi e le canzoni del repertorio gaberiano sono esattamente quelli che abbiamo conosciuto, senza sofisticazioni o rimaneggiamenti. Ma soltanto estrapolati da contesti (e spettacoli) diversi e, quindi, assemblati in un nuovo percorso: ovviamente propedeutico all’omaggio (perché di omaggio a Gaber, dichiaratamente, si tratta) pensato da Zanframundo. Che, peraltro, si arroga soltanto il diritto di collegare testi e situazioni. Facendosi accompagnare dalla voce e dalla gestualità di Davide Berardi e da musicisti storicamente aperti alla progettualità e, talvolta, anche alla sperimentazione. Come Vittorio Gallo, sassofonista versatile e ispirato, Adolfo la Volpe – chitarrista di impronta moderna – e Vito Maria Laforgia, contrabbassista che ama l’improvvisazione e che cura la direzione musicale dello spettacolo.“Mondo G” entra sulle note di “Torpedo Blu” e si lascia scivolare tra concetti di solidarietà e appartenenza, tra ideologie e politica, tra valori e libertà, fobie e amore («una parola strana»), paure e ipocrisie, potere e corruzione: sondando la caratura dei rapporti, l’uomo tra la gente, la gente attorno all’uomo. Strisciando contro tutti gli egoismi. Toccando le angolazioni del mondo, che poi è il mondo di Gaber. E che è ancora il nostro mondo: anche se Gaber non è più tra noi. E anche se il tempo continua a incalzare. Mentre, alle spalle, sfila l’Italia che sopporta, l’Italia di chi non possiede nomi e cognomi facilmente spendibili. L’Italia raccontata ne “Il Conformista” o ne “La Democrazia”, oppure in “Destra e Sinistra” e “Se Io Sapessi”, in “Si Può” e “La Libertà”. «E’ vero – ammette Raffaele Zanframundo- : Giorgio Gaber è la radiografia del mondo attuale, che è poi la ragione che mi ha spinto a proporre questo spettacolo. Nel mio modo di essere uomo di teatro c’è dell’ironico e del decadente, del grottesco e del lirico: e, in quest’ambito, la sua figura ha rappresentato un versante della cultura europea che è quanto di più frizzante e vivo la scena teatrale italiana abbia prodotto negli ultimi anni. Lo spettacolo si concentra su un attore e un quartetto che agiscono su una scena scarnificata, in cui gli unici elementi visibili sono un tavolino e due sedie che ospitano vari personaggi». Tutti rigosamente credibili.

Raffaele Zanframundo (voce recitante) & il Quartetto G (Davide Berardi: voce; Vito Maria Laforgia: contrabbasso; Adolfo La Volpe: chitarra-looping; Vittorio Gallo: sassofono)
Crispiano (TA), Centro Polivalente

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

martedì 4 dicembre 2007

L'emozione di un incontro

L’emozione di un incontro. L’incontro per un’emozione. L’incontro di due vecchi compagni di musica. La musica sempre nuova di un incontro che si perde nel tempo. Gino Paoli e Luís Bacalov. Due personalità e due storie. Il Teatro Orfeo di Taranto li accoglie e li riavvicina in un concerto che sostiene il cartellone e l’attività dell’Orchestra della Magna Grecia. Di cui il pianista argentino è, da tre anni, il direttore principale. “Eventi Musicali”, del resto, è una rassegna che si nutre di momenti speciali. Come un incontro particolare deve essere. «Ci siamo ritrovati sul palco, insieme, dopo un po’ di tempo». Bacalov viaggia sui ricordi personali. «Ci siamo conosciuti ed eravamo ancora giovani. Frequentavamo il gruppo di lavoro della RCA, io ero soprattutto un arrangiatore, allora. Ma poi ci siamo incrociati di nuovo, più volte. Questa, però, è la prima serata in assoluto in cui ci siamo divisi il palco. Anzi, in cui ho accompagnato Gino. Uno che, con il passare del tempo, migliora. Sì, adesso è ancora più bravo, adesso interpreta la musica anche meglio. Uno che non dimentica cos’è l’umiltà. E che non ha problemi a cantare spartiti altrui. E vi dico un’altra cosa: non c’è altro autore italiano che abbia scritto tante cose straordinarie». L’italiano fluente dell’argentino Luís divaga con garbo, planando su una fetta di storia del cantautorato di casa nostra. E Gino spiega al microfono, tra le note di sempre, la colonna sonora di un tragitto infinito, fiorito nei club degli anni sessanta, dietro quegli occhiali scuri e una voce ancora da plasmare, domare, accomodare. E, poi, finalmente affinata. Voce inconfondibile, impressa nella memoria collettiva. Il concerto è la scontata introspezione di un’epoca, di più epoche. Di un percorso (atteso: la gente è lì per quello) che congiunge i punti nodali di una vita condensata nella canzone. Ci sono i titoli più facili da ricordare (“La Gatta”, “Il Cielo in una Stanza”, “Senza Fine”, “Quattro Amici al Bar”, “Ti Lascio una Canzone”, “Sapore di Sale”, “Ma Come Si Fa”), ma anche le intense “Albergo a Ore” e “Coppi”, la tenchiana “Mi Sono Innamorato di Te” e poi, ancora, “Sassi”, “Averti Addosso” e persino un omaggio allo stesso Bacalov, che con Vinícius de Moraes, negli anni settanta, incise “O Velho e A Flor”, riproposta in un portoghese teneramente scolastico. Dunque, pochissime eccezioni a parte, il repertorio ampiamente previsto, macchiato di ricordi e solcato da incursioni strumentali che traducono motivi celebri utilizzati dal cinema: del maestro argentino, ma anche di Morricone. All’interno, va detto, di un live fluido. E non ingessato come l’ultimo proposto a queste latitudini (e che non ci piacque affatto) dall’autore genovese. Pochi anni addietro, a Saturo, c’era però la Vanoni. E, sicuramente, un’altra situazione. Dicevamo, piuttosto: il gusto dell’incontro. Sentite Paoli: «La qualità di un essere umano che vuole considerarsi vivo è l’umiltà. E umiltà è anche coltivare quegli incontri che arricchiscono. Purchè emerga la predisposizione ad imparare, ad apprendere. Chi ritiene di sapere non sa più niente. Qualsiasi incontro non può prescindere, però, neppure dal rispetto: per la musica, per le parole di una canzone, per le regole della musica. E ogni incontro permette di entrare in una nuova dimensione. Purchè ci si adatti alle contingenze». In questo caso, ad un ensemble orchestrale, che possiede tempi e rituali propri. «Io, quando canto, mi adatto a chi mi è vicino. Cambio interpretazione in base all’apporto offerto da chi suona al mio fianco». L’artista, cioè, non distribuisce solo musica, ma anche concetti integri, degni. Che valorizzano il personaggio, la carriera. Ad esempio: «Non scrivo canzoni per avere, ma per dare. E per formulare delle domande». Oppure: «La vita è un buffo gioco che ciascuno cerca di capire con le parole». Ancora: «La canzone è un’arte di seconda categoria, ma ha un vantaggio enorme: diventa di chi la canta. E un attrezzo: che chiunque può usare». Infine: «La poesia è una maniera di vivere, una strana signora che appare nei posti più impensati». La musica è passata, i messaggi rimangono. Raccogliamoli.

Gino Paoli (voce), Luís Bacalov (pianoforte e direzione) & l’Orchestra ICO della Magna Grecia di Taranto
Taranto, Teatro Orfeo
Eventi Musicali 2007/2008

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)