sabato 20 dicembre 2008

Vecchioni, tra spiritualità e letteratura

Tra il sacro e il profano. Ma non esattamente a metà strada. Anzi, più spirituale che altro. Anche se umanamente terreno. Con la forza interiore di chi ha qualcosa da comunicare. Oltre le note e al di là del palcoscenico. O di chi ha vissuto tra la musica e letteratura per una vita. E che, adesso, può permettersi di spendere due soldi di saggezza, spigolando tra il mistico e la realtà. Senza rinunciare alla laicità degli intellettuali. Come soprattutto i cantautori, certe volte, sanno essere: guardando i giorni che scorrono dall’angolazione privilegiata del navigare tra la gente. Roberto Vecchioni, così, non l’avevamo mai ascoltato. No, così avvolto da una spiritualità che solo il periodo natalizio può dettare e stimolare, mai.
Lui, la sua voce rassicurante e un quintetto d’archi. Un pianoforte e un incrocio coordinato di citazioni, poesie, pensieri, parole, canzoni e musica classica. Saltando agevolmente da Madre Teresa di Calcutta a Mozart, da Vittorio Gassman a Neruda, da Giovanni XXIII e Gandhi a De Andrè, dalla produzione propria alla tradizione della festa dicembrina. Colloquiando con il pubblico e, neppure troppo velatamente, dialogando con Dio. In una chiesa. Di più: nell’Abbazia della Madonna della Scala, cinque chilometri al di là di Noci, uno degli angoli di Puglia dove sembra tornare volentieri (per la terza volta, precisamente). Sono le tracce di “In-Cantus”, il progetto sottopostogli da Giovanni D’Onghia, custode della direzione del Nu Ork Quintet. Un progetto immediatamente sposato: con entusiasmo, diremmo. E con convinzione, ci pare di aver capito. E, innanzi tutto, con naturalezza. Che si dirama in un certo numero di date, tutte fissate nel meridione della penisola, e soprattutto tra lo Jonio e l’Adriatico: Noci a parte, in questi giorni e a queste latitudini il concerto passa anche da Foggia e Galatina.
«Non sono un tenore e non sono un soprano. Sono solo un cantautore. E, perciò, interpreto da cantautore anche questa scaletta tutt’altro che convenzionale. Però, interpreto con l’anima. Ed è questo il dato più importante: in occasioni speciali come queste, ma anche nelle occasioni di tutti i giorni, di sempre. L’esperienza, comunque, è bella e, soprattutto, insolita». E anche gratificante, aggiungiamo: per i protagonisti e per la platea. Il live, di buon gusto e solidi principii, è affrontato con carisma e personalità consumata. Del resto, quarant’anni sul palco non scivolano invano. Ed è uno spettacolo che, a dispetto di qualsiasi previsione, non pesa, né s’impantana. Che non si trascina, ramificandosi fluidamente. E che non si accartoccia su se stesso, perché non cede mai alla tentazione dell’operazione commerciale. Neppure quando sgorga lo spartito di “Jingle Bell”, un must del periodo di Natale. Al quale l’artista milanese non può (e non vuole) sottrarsi.
No, non c’è nulla di scontato. O, peggio, di stantio. Il confezionamento del concerto è la prova provata: il quintetto d’archi accompagna con eleganza le parole di “Blu Moon” e la rivisitazione vecchioniana di un lavoro di Rachmaninov, ma arricchito dai versi di Borges, commistione suggestiva e assolutamente appetitosa. Oppure le versioni toccanti di “Luci a San Siro” e di “Samarcanda” e quelle di altre composizioni mai proposte da vivo, prima di adesso. «Ho scelto bene i compagni di viaggio, che mi hanno aiutato a scegliere un repertorio che, così com’è, per me è assolutamente nuovo. E, ovviamente, allestito per questa specifica avventura, che non avrei potuto sostenere senza di loro». Non c’è neppure spazio per parole superflue. Il professor Vecchioni non si veste da docente, ma spiega il suo rapporto con lo spirito e la spiritualità, tenendosi lontano dai luoghi comuni. Ed è sempre un rapporto franco, sincero, trasparente. «Mi auguro che ognuno veda chiaro dentro di sé. E poi io non sono venuto qui a risolvere nulla, ma sono arrivato per cantare e far cantare».

Roberto Vecchioni (voce), Giuseppe D’Onghia (pianoforte e direzione) & il Nu Ork Quintet (Anton Berovski: violino; Nico Ciricugno: violino; Giuseppe Donnici: viola; Vincenzo Taroni: violoncello; Daniele Roccato: contrabbasso) in “In-Cantus”
Noci (BA), Abbazia della Madonna della Scala

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

venerdì 28 novembre 2008

Antiphonae, di progetto in progetto

Semplice non significa banale. Sì, perché Sunday è un progetto semplice nella sua architettura e fresco nei suoi contenuti. Ma non per questo facile o superficiale. Sunday, anzi, è jazz armonico che si colora di venature moderne, allargandosi verso le sponde di stili diversi, paralleli e convergenti. Concetto che, da solo, sottintende un certo lavoro di fondo. Sunday è il progetto più giovane di Dino Plasmati, chitarrista materano che, talvolta, approda in Puglia. Come in occasione della seconda puntata stagionale di Antiphonae. Progetto non ancora espresso in prodotto discografico, ma già in fase di missaggio. «Però, quasi ci siamo – promette l’artista lucano-: per gennaio ce la facciamo, sicuramente». Sunday, tuttavia, è anche e soprattutto il lavoro di un gruppo, il Jazz Collective. Ovvero, Dino Plasmati a parte, Marco Sinno (tromba e flicorno), Franco Fossanova (contrabbasso in studio di registrazione, basso in versione live), Vito Plasmati (batteria) e Pasquale Mega (pianoforte). Vecchi amici con un’unica provenienza geografica tra i quali s’inserisce il flauto di un romano versatile come Nicola Stilo, guest di livello e di carisma. Il concerto, è ovvio, ripercorre fedelmente i passi del disco che verrà e che si fregerà dell’etichetta Ferlive. Concedendosi, peraltro, qualche parentesi: come “Wave”, di Jobim (e, con Stilo sul palco, non poteva mancare una finestra sulla bossa nova), “In a Sentimental Mood” di Duke Ellington e un tributo a Charlie Parker. Anzi, per essere più precisi, all’auditorium comunale di Locorotondo Pasquale Mega sfrutta l’occasione per ripresentare un brano di sua composizione (“Piazza Storallo”) riadattato per questo ensemble, ma già inserito in Coloriade, l’ultimo album a suo nome, e già eseguito sul palcoscenico della “sua” rassegna, proprio l’anno scorso. Da un progetto all’altro: sette giorni dopo Antiphonae consiglia il nuovo lavoro discografico di Marco Tamburini, uno dei trombettisti di maggior talento espressi negli ultimi anni dal jazz italiano e, soprattutto, uno dei musicisti più abituati alle incursioni sonore sul territorio pugliese. Tamburini, con Three Lower Colours, cerca di avvicinare il jazz all’elettronica, ma senza esagerare. E di incrociarlo al funky, ma senza disturbarlo o stravolgerlo. L’artista romagnolo, bolognese di residenza e di adozione, per la sala di registrazione e per la condivisione del palco sceglie due alleati rodati come Stefano Onorati, pianista livornese dotato di tocco e grazia, e il batterista Stefano Paolini, un altro romagnolo dal timbro convincente. «E’ un’idea, questa – confessa Tamburini – che vogliamo sfruttare e incentivare ancora. Un’idea che ho partorito da un po’ e che, credo, possegga una buona dose di originalità. In Puglia abbiamo già divulgato il progetto: prima a Manduria, questa estate e, recentemente, a Putignano, dove però il trio è stato confortato dalla presenza del quartetto d’archi dei Vertere, un quartetto peraltro totalmente pugliese. Cambiando la formazione, abbiamo dovuto ovviamente modificare gli arrangiamenti, ma Three Lower Colours conserva comunque una personalità propria. Ecco perchè, a breve, ho intenzione di affidare questo lavoro ad un big band. Per questo, perciò, ci stiamo attrezzando». Tamburini punta, come sempre, sulla qualità compositiva, sull’aspetto melodico. Senza dimenticare l’improvvisazione, alla base del progetto stesso, che raccoglie molti brani originali e anche qualche rivisatazione, tratta dal repertorio dei Radiohead e di Miles Davis, per esempio. Distribuendo un’ora e tre quarti di musica da ascoltare con attenzione. Particolare ancora assai caro all’associazione Antiphonae, che continua – nonostante un coinvolgimento popolare sempre inadeguato – ad assicurare una selezione di intuizioni che oltrevarcano e abbattono il concetto di live utile a consumare la serata, giustificare il costo del tagliando d’ingresso e niente più. Molto spesso, altrove, non accade. Anche se piovono copiosamente nomi, cognomi e blasone. Questo, però, la gente non lo sa. E, spesso, si rifiuta di saperlo. Preferendo perseguire il solco tracciato dalla pubblicità. E, quasi sempre, spendendo molto di più.

Jazz Collective (Dino Plasmati: chitarra; Pasquale Mega: pianoforte; Marco Sinno: tromba e flicorno; Franco Fossanova: basso; Vito Plasmati: batteria). Guest Nicola Stilo (flauto)
Locorotondo (BA), Auditorium Comunale
Antiphonae 2008
21.11.2008


Marco Tamburini Trio (Marco Tamburini: tromba; Stefano Onorati: pianoforte, tastiera ed elettronica; Stefano: batteria ed elettronica)
Locorotondo (BA), Auditorium Comunale
Antiphonae 2008
28.11.2008


(pubblicato sul sito www.levignepiene.com)

sabato 25 ottobre 2008

Michael Rosen, l'intimo coinvolgimento

Dunque, il cuore di Antiphonae batte ancora. E’ la notizia, anche per quest’anno. Perché ogni anno occorre combattere. E subire la tirannia dell’incertezza. E, soprattutto, ogni anno occorre ripetersi. Perché è lo sviluppo delle situazioni ad esigerlo. E perché il dovere di cronaca lo impone. La rassegna, allora, sopravvive anche all’ennesima ingiuria delle ristrettezze economiche. E conferma la sede di Locorotondo: malgrado i segnali di scollamento del più recente passato. Sopravvive: senza rilanciare, ovviamente. Ma sostenendo ugualmente il peso di cinque appuntamenti: gli stessi, numericamente parlando, dell’edizione precedente. E questo è, sinceramente, un dato da accogliere con soddisfazione.
Antiphonae, anzi, festeggia. I suoi primi dieci anni di storia, per esempio. E non è avvenimento scontato, a queste latitudini: dove, talvolta, è facile partire. Ma non stabilizzarsi. Perché l’entusiasmo, prima o dopo, si scontra con la realtà. Che è sempre un po’ antipatica. Festeggia, ripartendo con un quartetto, quello pilotato da Michael Rosen, newyorkese affezionatosi all’Italia e sassofonista di estrazione jazzistica, ma molto spesso incamminatosi sulla via del pop e prestato alle esigenze cantautorali di Bennato, di Concato o di Mina. Ma anche compagno di avventura di Rossana Casale o Amii Stewart, giusto per aggiungere un paio di nomi largamente conosciuti. Il primo live del duemilaotto è la lettura di Unquiete Silences, la produzione discografica più recente del quarantacinquenne artista statunitense, affidata anche alla tecnica e al drumming purissimo di un batterista di culto quale Fabrizio Sferra, all’esperienza di Ares Tavolazzi (al contrabbasso) e al pianismo pulito di Paolo Birro. E, contemporaneamente, è anche la rilettura di Elusive Creatures, l’album firmato precedentemente da Rosen.
Unquiete Silences, diciamolo sùbito, è una raccolta di ottimi spartiti. Cioè di composizioni convincenti, di armonie equilibrate, ma anche ricercate e raffinate. Ovvero, una pagina di jazz denso, arricchito dalla qualità dei singoli musicisti, ma anche dal mestiere di ciascuno. Malgrado qualche veniale incidente di percorso, giustificato dal ridotto numero di incontri consumati della formazione. Che, in pratica, ha registrato in studio senza poi ritrovarsi a sufficienza sul palco, prima della trasferta a Locorotondo. Problemi di amalgama a parte, però, il concerto tiene e gli assenti si perdono qualcosa. Brani come “Un Film Italiano” (l’unico titolo che rifugge l’inglese in oltre venti anni di residenza al di qua delle Alpi, fa sapere Rosen) o come “Rita, My Dear” (un omaggio alla pianista romana Rita Marcotulli, una degli ospiti dei prossimi appuntamenti di Antiphonae) o come “Unquiete Silences” (che dà, oltre tutto, il nome all’intero disco e che vuole ricordare le vittime di tutte le guerre) offrono momenti ricchi di tonalità e di calore. E di intimo coinvolgimento, aggiungeremmo. Pienamente captato, in platea.
Del resto, i primi dieci anni di Antiphonae (rassegna che – da sempre - si nutre di progetti, ma anche di avventure artistiche ed umane, come scrive nella brochure di sala Caterina Mutinati, presidente dell’omonima associazione martinese) andavano pure salutati con un progetto ben scritto e accattivante. In attesa di quanto potremo ascoltare a novembre (sono previste le esibizioni del quintetto del chitarrista materano Dino Plasmati, nobilitato dalla presenza di Nicola Stilo, e del trio capitanato da Marco Tamburini) e a dicembre (prima arriva il quartetto di Stefania Tallini, Marco Renzi, Nicola Angelucci e Gabriele Mirabassi; poi chiude la kermesse il bandoneonista Daniele Di Bonaventura, accompagnato dal Vertere String Quartet). E in attesa, soprattutto, di segnali che incoraggino ulteriormente l’impegno del gruppo di gestione della rassegna. Cioè, di presenze più copiose nell’Auditorium Comunale e, in particolare, di un’attenzione mediatica tuttora insufficiente. Della quale, sinceramente, fatichiamo a comprendere le motivazioni. Niente, cioè, sembra essere cambiato, negli ultimi dodici mesi. Tanto che anche la delusione passa via. Senza lasciare neppure la traccia, ormai.

Michael Rosen Quartet (Michael Rosen: sax tenore e sax soprano; Paolo Birro: pianoforte; Ares Tavolazzi: contrabbasso; Fabrizio Sferra: batteria) in “Unquiet Silences”
Locorotondo (BA), Auditorium Comunale
Antiphonae Jazz 2008

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

domenica 19 ottobre 2008

Una mattina con Marley. Guardando l'Africa

Punto primo: ormai quasi ovunque – e da tempo – pubblico e privato propongono, la domenica, matinée musicali: in ambito classico e lirico, ma non solo. E i riscontri sono assai più che incoraggianti. La formula piace e la gente risponde. E, se poi le note confluiscono nell’aperitivo, meglio ancora. E, allora, perché non provarci anche in queste contrade? L’Associazione Carlo Orff si accolla l’idea e presenta Cantieri Aperti, rassegna di sei appuntamenti senza una precisa collocazione stilistica (si passa dal reggae riveduto e corretto alla classica, passando per il jazz e per il gospel) equamente divisi tra il restaurato Teatro Margherita di Putignano (di sera) e la Biblioteca Comunale, sempre a Putignano (le domeniche mattina, appunto). Il progetto del violoncellista Vito Amatulli, cioè l’anima organizzatrice, e dell’amministrazione comunale copre così uno spazio temporale largamente inutilizzato e garantisce visibilità nuova a due location interessanti. Offrendo spazio, peraltro, ad artisti di sicuro affidamento e di prospettive larghe come il violinista polacco Robert Kowalski, il pianista argentino José Gallardo, la violoncellista croata Jelena Ocic, il trombettista romagnolo Marco Tamburini, il Vertere String Quartet, il violinista nocese Giuseppe Amatulli, il pianista Massimiliano Conte e il Wake Up Chorus : ovvero, i prossimi protagonisti, da qui a dicembre, del percorso musicale.
Punto secondo: si può proporre il ritmo, la sfrontatezza e l’indole ribelle del reggae in uno spazio discreto come un auditorium? Senza strumenti elettrici e sound system e con un impianto di amplificazione essenziale? Anzi: con una voce (plastica e, a momenti, commossa) e un contrabbasso, supportati da poche percussioni, peraltro inattese, perché fuori programma? Sì, si può. E il prodotto è assolutamente sorprendente. Per la leggerezza con cui si ramifica, sin dai primi accordi del live. Esattamente quello che accade nella prima delle tre matinée di Cantieri Aperti, dove si dividono il palco la vocalist Connie Valentini e Camillo Pace: che, già da un po’, lavorano sul tributo a Bob Marley, un progetto arroccatosi sull’intuizione di avvicinare il jazz (quello unversalmente più conosciuto) alle sonorità africane e al sound inconfondibile del rasta giamaicano e, in seguito, sviluppatosi anche per sorreggere un futuro progetto umanitario in Africa. Terra, detto per inciso, alla quale il contrabbassista martinese è culturalmente assai legato, anche per avervi preparato una tesi di laurea in Etnomusicologia.
«Intanto – assicura Connie Valentini – arriverà presto un disco, ormai in via definizione. Con l’aiuto del quale prevediamo di poter costruire qualcosa di utile, laggiù. Ma, al di là di questo, l’esperienza in duo è ormai collaudata, datata. Sicuramente, la proposta è particolare e può apparire persino avventurosa. Diciamo pure che, all’inizio, abbiamo immaginato di suonare esclusivamente per noi, come si fa su una spiaggia, magari tra le palme. Poi, abbiamo pensato di esportare il messaggio di una personalità forte come Bob Marley, un uomo che ha inseguito l’utopia con coerenza». Non attendetevi, però, l’atmosfera tipica di quelle feste-concerto. Né il mare di gente sul prato, tra rum e marijuana. Connie Valentini e Camillo Pace, tuttavia, garantiscono un concerto non convenzionale, dai toni morbidi e addirittura confidenziali, che vive di energia propria e per niente devitalizzato dall’assenza diella strumentazione musicale più cara al reggae. Cioè, sessanta minuti credibili, lievi. E niente affatto rigidi o stantii, come potremmo essere facilmente orientati a pensare. Anche quando fluiscono le tonalità di “No Woman, No Cry”. E pure quando sgorga la più delicata “Il Volo dell’Angelo”, brano originale e cantato in italiano: una finestra sul mondo di Bob Marley e sulla Giamaica. E un ponte verso l’Africa.

Connie Valentini (voce) & Camillo Pace (contrabbasso). Guest Nico Vignola (percussioni)
Putignano (BA), Biblioteca Comunale
Cantieri Aperti

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venerdì 3 ottobre 2008

Navigando sull'Adriatico

Navigando sull’Adriatico. Sulle onde di un mare che aggrega. Attingendo da ogni sponda, passando per ogni porto, sfondando l’orizzonte. Cavalcando ritmi popolari e balcanismi, cercando nel passato e allargando il presente. Bandadriatica è l’equipaggio di una nave immaginaria, che freme di partire e che freme di arrivare. E’ un equipaggio che si emoziona, perché partire è un’emozione, perché il viaggio è l’avventura, e ogni avventura è una storia che insegue particolari nuovi, dettagli sconosciuti. E solo chi parte può capire.
Bandadriatica è un progetto che non si ferma, che si evolve. Ogni volta che si parte. E l’Adriatico è la sua prateria, la sua ispirazione e il suo fine. Claudio Prima è il capitano istrionico di una nave che salpa da Brindisi, porta d’Oriente che trascina l’arcaica cultura salentina e i suoi sapori, le sue tradizioni. Che lasciano la terraferma e sconfinano. Perché Bandadriatica è la musica della tradizione che va ad incontrare altre strade. Una tradizione che arriva dal mare e che, per il mare, emigra ancora. E, per mare, la pizzica si balcanizza, si contamina, si spezia. In Montenegro o in Albania, a Dubrovnik come a Valona, abbraccerà ritmi irregolari, danze rom e altro ancora. Le note confluiranno in un unico spazio, senza confini. E potrà anche capitare di imbattersi in brani bulgari tradotti nel dialetto del Salento.
L’ottetto punta sul ritmo, sui fiati. Quelli di Emanuele Coluccia, sassofonista che, solitamente, orbita attorno al jazz, del trombettista Andrea Perrone, di Gaetano Carrozzo, trombonista ercolano, e di Vincenzo Grasso, al sassofono e al clarinetto. Punta sulla tradizione e sull’innovazione. Che è un po’ l’idea fissa di Claudio Prima, voce ufficiale della formazione e organettista temprato da differenti esperienze (Manigold, Tabulé, Radicanto, Adria). La solida batteria di Ovidio Venturoso, le incursioni armoniche di Redi Hasa, violoncellista albanese e salentino d’adozione, e il basso di Giuseppe Spedicato amalgamano e completano un tessuto sonoro sempre aggressivo, frizzante. Quando la navigazione si fa più difficile e sorge la necessità di una guida, però, soccorre la voce di Maria Mazzotta, tra le più intense e affinate del panorama popolare di Terra d’Otranto. Voce terragna e plastica, duttile e avvolgente. Nulla è scontato, neppure il repertorio. Che reinterpreta, mettendoci del suo. E, allora, arriva pure la produzione originale, consacrata nell’album d’esordio, Contagio, che possiede già un suo tragitto, che ha già polarizzato un consenso abbastanza largo. Un consenso dignificato anche dalla notte di Galatina, consumata a fine agosto, nel concerto di piazza San Pietro che preannunciava l’altra notte imminente, quella della Taranta di Melpignano. E che si riserva, peraltro, anche un sèguito: in primavera, uscirà il nuovo lavoro discografico, supportato da un dvd realizzato in occasione della tournée realizzata recentemente proprio attraverso i luoghi dell’Adriatico, in compagnia della Koçani Orchestar, di Naat Velov e di altri musicisti arrivati dalle due sponde dell’Adriatico.
Bandadriatica, in definitiva, è una banda dei giorni nostri. Che attinge anche dal patrimonio storico e culturale delle bande che si esibivano – e ancora si esibiscono – nelle casse armoniche, nei giorni di festa. Una banda che ama parlare di musica, ma anche della gente. Anzi, di quelle genti che, come recita un vero e proprio manifesto programmatico dell’ensemble, «per secoli lontane, si sono incontrate raramente per voglia, più spesso per necessità. E le musiche, figlie illegittime della stessa tradizione, hanno percorso sempre strade diverse». Quelle genti attorno alle quali si è edificata la nostra storia e si è modellata la nostra cultura. Quelle genti attraverso le quali Bandadriatica si insinua, cercando di catturare segreti e buone idee.

Bandadriatica (Claudio Prima: voce e organetto; Redi Hasa: violoncello; Giuseppe Spedicato: basso; Emanuele Coluccia: sassofoni; Vincenzo Grasso: sassofono e clarinetto; Andrea Perrone: tromba; Gaetano Carrozzo: trombone; Ovidio Venturoso: batteria). Guest Maria Mazzotta (voce)

Villa Castelli (BR), piazza Municipio

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martedì 23 settembre 2008

Spaghetti in jazz

Il workshop ("La Scena Musicale Americana") e, a seguire, il concerto. Targato Mousiké, centro di attività e di formazione musicale che, ormai da tempo, opera a Martina, promuovendo incontri di perfezionamento e, collateralmente, note e spartiti di artisti di pregio. Come quelle di Sergio Bellotti, batterista barese emigrato da tredici anni per insegnare a Boston, costa atlantica degli Stati Uniti, al Berklee College of Music, istituzione che non necessita di troppe presentazioni. A Martina, dove - fa sapere Ferdinando Carella, una delle anime di Mousiké - Bellotti dovrà tornare ancora per preparare nuovi seminari, finalizzati ad aiutare (con un periodo di preparazione trimestrale) quanti vorranno partecipare ai selezionatissimi corsi della stessa Berklee. E dove, sul palco dell'Auditorium comunale (struttura accogliente, ma forse ingiustamente snobbata), ha interagito con il bassista salernitano Tino D'Agostino, il sassofonista (pugliese, ma ormai abituato ai circuiti nordamericani) Rocco Ventrella e il tastierista Steve Hunt, ospite qualificato e dal pedigrée interessante.
Spajazzy è un quartetto dal sound robusto. Ma, soprattutto, è un progetto sviluppatosi nel tempo e datato millenovecentonovantotto: che prova a fondere le sonorità più melodiche, proprie del patrimonio musicale italiano, con i ritmi afroamericani del jazz. Il prodotto offerto, perciò, è sufficientemente latino, spesso abbastanza caldo, dunque dotato di una varietà di colori. Merito, soprattutto, della più che discreta quantità di assoli delegati ai sassofoni di Ventrella o al basso di D'Agostino, che poi è il co-fondatore del gruppo. Oppure agli effetti della tastiera di Hunt, vecchio collaboratore di Billy Cobham (ma non solo di Cobham). Il live, ben strutturato, è comunque anche solido: e la batteria di Bellotti, più concreta che fantasiosa, contribuisce ad arricchire la sensazione. Spaghetti in jazz, dunque. E così sia.
«Sono tornato nella mia terra e qualcosa mi fa pensare che ci tornerò spesso. Il discorso con Mousiké si arricchirà di nuovi incontri e, magari, potrò esibirmi anche più spesso. E, per questo, sono orgoglioso. La mia esperienza nordamericana, però, mi ha consentito di apprendere un linguaggio sonoro diverso, che tuttavia non ha cancellato il legame con la tradizione musicale del mio Paese. Il progetto che portiamo avanti ci ha permeso di pubblicare, qualche anno fa, un primo lavoro discografico, al quale partecipò anche Mike Stern. Adesso, invece, sta per essere pubblicato un secondo disco, Al Dente. Sì, Al Dente. Così, proprio per sottolineare la profonda italianità che ci spinge a confrontarci e a motivarci. Quest'album uscirà a Natale, giorno più o giorno meno. Ma è già strato registrato: e, in sala d'incisione, con noi, c'era Steve Hunt, docente come me alla Berklee. La nostra proposta è la rivisitazione delle melodie di alcuni classici italiani. Parlo di Alleria, di Pino Daniele. Oppure di Estate, di Bruno Martino, che in America ci chiedono di eseguire molto spesso. A dimostrazione che la nostra produzione nazionale è sempre gradita».
All'Auditorium, tuttavia, la formazione sorvola anche un paio di brani tratti dal repertorio di Rocco Ventrella, barese che a, Los Angeles, si è ultimamente affinato. Anzi, irrobustito. Così come non mancano gli standard di sempre: St. Thomas di Sonny Rollins, che chiude il live, è un esempio. «Puoi suonare questo o quel pezzo. Con un arrangiamento, oppure con un altro. Non cambia nulla: la qualità di fondo resta». E resta anche il sapore. Degli spaghetti in jazz.

Spajazzy (Sergio Bellotti: voce e batteria; Tino D'Agostino: basso; Rocco Ventrella: sax soprano e sax contralto; Steve Hunt: tastiere ed effetti)
Martina Franca (TA), Auditorium Comunale

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giovedì 11 settembre 2008

Mirko Signorile, il pianismo creativo

Mirko Signorile è il pianismo creativo. Il pianismo che è difficile non apprezzare. E non perché possegga un approccio alla musica semplicistico o un’indole commerciale che, in quanto tale, riesca ad accontentare una larghissima fetta di pubblico. No, Signorile sa essere impegnato e fruibile. Ispirato e, al contempo, morbido. Tecnico, ma attraente. Per gli amanti del jazz e per quelli che, propriamente, non lo sono. Forse perché, dal jazz, quel ragazzo dai modi informali, eppure garbati, sa trarre le coordinate che lo aiutano ad espatriare oltre confine: dove può toccare la musica contemporanea o, comunque, definire il suo stile.
Mirko Signorile suona spesso (in trio o in quartetto, allargandosi da una formazione all’altra) e, spesso, compone. E, talvolta, rischia l’esibizione di piano solo. Da dove, sicuramente, esce il meglio di sé. Cioè, il suo taglio, le sue letture, la sua visione musicale. La sua fertilità compositiva, le sue intuizioni. Se vivesse altrove, probabilmente, godrebbe di una popolarità e di una visibilità ancora superiore. In ogni angolo della penisola. E, magari, firmerebbe diverse tournée: che, pure, non gli sono mancate, in passato: come dimostra l’ancora recente trasferta in Giappone, con il suo Synerjazz Trio. Se operasse ad altre latitudini, potrebbe approfittare di un blasone indistruttibile: che meriterebbe ampiamente. Signorile, però, è pugliese. Ed in Puglia, felicemente, suona e crea. E, in questa terra, non sempre il talento viene valorizzato come deve. Al di là della verità che il pianista modugnese una sua collocazione – ben salda e ormai datata – ce l’ha. Così come dispone di un peso specifico unanimemente riconosciuto: in virtù di una lucidità interpretativa acclarata, di una vivacità inossidabile e di una militanza puntuale nelle migliori kermesse musicali di Puglia e dintorni.
Non a caso, Signorile è uno dei protagonisti di Pianoforte Songbook – Pianisti Pugliesi in Concerto, una vera e propria anteprima del Talos Festival di Ruvo, una delle rassegne più antiche, sofferte, avversate e discusse di queste contrade, affidata quest’anno alla direzione artistica di Paolo Lepore, ormai universalmente abbinato alla Jazz Studio Orchestra, di cui cura il coordinamento e la direzione da anni già lunghi, ma personaggio temprato da altre (e numerose) avventure. Talos Festival che, in fondo al periodo di lungo regno di Pino Minafra, ha conosciuto troppe traversie e sopportato anche l’antipatico fermo biologico dello scorso anno. Ritrovando, però, la forza per riemergere con un cartellone che omaggia (e, con la presenza di Lepore, non potrebbe essere altrimenti) le big band, come quella del Parco della Musica di Maurizio Giammarco, la Civica di Milano e la Lydian Sound affidata alla supervisione di Riccardo Brazzale.
Ma dicevamo di Mirko e della sua abilità di reggere senza esitazioni anche le situazioni di solo piano: là dove esprime appieno la propria espressività, giocando sul filo della tensione somatica (diremmo pure fisica, nell’accezione più pura del termine), che è poi uno dei suoi marchi distintivi. Ingobbito sullo strumento, sembra pedinare ogni nota, riuscendo a spremere da ognuna di esse vitalità e sentimento, pienezza e armonia. Il repertorio è una fusione di brani inseriti in The Magic Circle, album confezionato con il Synerjazz Trio, e di composizioni recentissime e ancora inedite. «Sono tornato al Talos Festival – sottolinea lui stesso – dopo quattro anni. Nella prima occasione, presentai il mio primo disco prodotto. Questa volta, invece, propongo il mio prossimo lavoro discografico, in uscita nel prossimo febbraio per la Universal Music». Lavoro dal sapore fortemente contemporaneo che si chiama Clessidra e che assicura composizioni (qualche titolo: “Un Passo Dopo l’Altro”, “La Gatta Pensierosa”, “Mondo Notturno”, “Piccoli Labirinti”, “Clessidra”) lievi e dense, accattivanti. Qua e là, poi, c’è il tempo di tornare a suonare Sting, oppure la colonna sonora di un film diretto da Pietro Marcello, Il passaggio della Linea. Per non dimenticarsi del passato. E per dire tutto quello che il ragazzo si sente di dare. Che è ancora molto, fidatevi.

Mirko Signorile (pianoforte)
Ruvo di Puglia (BA), Chiostro del Convento dei Domenicani
Pianoforte Songbook – Pianisti Pugliesi in Concerto
Anteprima Talos Festival 2008

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

domenica 7 settembre 2008

Le sei proposte di Jazzset

Il jazz, ad Acquaviva, torna in piazza. In Piazza dei Martiri, che è una location stimolante e accogliente. Questa volta Jazzset, dopo qualche anno di esilio (al'interno del chiostro di Palazzo Comunale o al chiuso di un auditorium) si snoda tra la Cattedrale e il passeggio serale di un settembre ancora caldo. Richiamando, peraltro, un'affluenza apprezzabile che possiede i numeri per soddisfare: particolare che è difficile dribblare, quando poi occorre sommare i dettagli per capire la convenienza di un investimento. Di denaro (in parte pubblico) e di tempo. Sì, Jazzset torna in piazza e crediamo che sia assai meglio così: soprattutto se la gente non esagera con le cattive abitudini e assiste abbastanza compostamente: e, vi assicuriamo, non accade spesso. Anzi, non accade quasi mai. La rassegna, dunque, riesce: perchè si fabbrica l'atmosfera giusta. Ma anche perchè il menu vanta proposte differenti e artisti di aree geografiche diverse. L'edizione duemilaotto, al limite di un'estate ancora una volta sufficientemente generosa con gli appassionati di Puglia, offre sempre note fresche e godibili, concerti agili. Tre date, dal cinque al sette di settembre, e due situazioni dal vivo per giorno: la kermesse voluta e guidata da Giuseppe Netti lascia incrociare nomi noti del nostro jazz (la Marcotulli, Lussu e Bearzatti, per esempio), esponenti della scena musicale pugliese (Michele Giuliani, ma anche i contrabbassisti Vendola e Gargano) e giovani rivelazioni internazionali (il francese Nicolas Folmer), dribblando i soliti ostacoli economici con molta buona volontà, immutata passione e con la protezione di sponsor Il jazz, ad Acquaviva, torna in piazza. In Piazza dei Martiri, che è una location stimolante e accogliente. Questa volta Jazzset, dopo qualche anno di esilio (al'interno del chiostro di Palazzo Comunale o al chiuso di un auditorium) si snoda tra la Cattedrale e il passeggio serale di un settembre ancora caldo. Richiamando, peraltro, un'affluenza apprezzabile che possiede i numeri per soddisfare: particolare che è difficile dribblare, quando poi occorre sommare i dettagli per capire la convenienza di un investimento. Di denaro (in parte pubblico) e di tempo. Sì, Jazzset torna in piazza e crediamo che sia assai meglio così: soprattutto se la gente non esagera con le cattive abitudini e assiste abbastanza compostamente: e, vi assicuriamo, non accade spesso. Anzi, non accade quasi mai. La rassegna, dunque, riesce: perchè si fabbrica l'atmosfera giusta. Ma anche perchè il menu vanta proposte differenti e artisti di aree geografiche diverse. L'edizione duemilaotto, al limite di un'estate ancora una volta sufficientemente generosa con gli appassionati di Puglia, offre sempre note fresche e godibili, concerti agili. Tre date, dal cinque al sette di settembre, e due situazioni dal vivo per giorno: la kermesse voluta e guidata da Giuseppe Netti lascia incrociare nomi noti del nostro jazz (la Marcotulli, Lussu e Bearzatti, per esempio), esponenti della scena musicale pugliese (Michele Giuliani, ma anche i contrabbassisti Vendola e Gargano) e giovani rivelazioni internazionali (il francese Nicolas Folmer), dribblando i soliti ostacoli economici con molta buona volontà, immutata passione e con la protezione di sponsor privati, dell'Ente regionale, della Provincia di Bari e della locale amministrazione comunale.
Il primo dei sei appuntamenti complessivi è consegnato all'esperienza compositiva di Rita Marcotulli, pianista navigata ma sempre artisticamente attraente: per quella capacità di improvvisazione che si mistura alla facilità di esecuzione, all'ottima gestione del palcoscenico e alla tecnica compiuta. A seguire, l'etnojazz di Michele Giuliani e del suo gruppo (i fratelli Dabiré, alla voce e alle percussioni, e il già citato Vendola) assicura un'ora di note lievi e fluide, intrise di ironia e percorse dall'amabile voce di Gabin, vocalist del Burkina Faso che inietta nel live un contributo corposo di anarchica giovialità. Ventiquattr'ore più tardi, invece, tocca al percussionista Michele Rabbia e alla chitarra di Roberto Cecchetto, immersi tra suoni liberi, un po' di effetti e sperimentazione: cioè in una di quelle operazioni assai comuni, di questi tempi, e che sicuramente possono lasciare perplessi i puristi, ma che nulla tolgono alla qualità interpretativa dei protagonisti. Decisamente più tradizionale, piuttosto, è il successivo intervento del trio di Pietro Lussu, tra composizioni originali e qualche riproposizione (di un paio di brani firmati Timmonts, tra gli altri). Qui il jazz è composto, pulito, elegante. E il tessuto melodico è ampiamente salvaguardato. La terza ed ultima serata, infine, riserva un quartetto ben assortito dove si impone la tromba del rampante Nicolas Folmer, trentunenne dalle già solide collaborazioni che coordina un tributo a Michel Legrande, uno delle migliori firme delle colonne sonore legate al cinema francese. Sùbito dopo, il palco è di Francesco Bearzatti e del suo gruppo: il risultato è una suite di un'ora e nove brani che trae ispirazione e nutrimento dalla vita di Tina Modotti, la Tinissima che recitò anche ad Hollywood, fotografa eccellente e dalla personalità ribelle. Un'ora in cui le irruzioni di Giovanni Falzone riescono ad irrobustire un live già di per sé denso e, a tratti, vibrante. Poi, cala la notte di Acquaviva. Il club dei più appassionati, però, fatica a sciogliersi. L'atmosfera è ancora salda. Un motivo in più per riprovarci, l'anno prossimo.

Rita Marcotulli (pianoforte)

Michele Giuliani Quartet (Michele Giuliani: pianoforte; Gabin Dabiré: voce; Giorgio Vendola: contrabbasso; Paul Dabiré: percussioni)

Roberto Cecchetto (chitarra) & Michele Rabbia (percussioni ed effetti)

Pietro Lussu (pianoforte), Pietro Ciancaglini (contrabbasso) & Andrea Nunzi (batteria)

Nicolas Folmer Quartet (Nicolas Folmer: tromba; Alfio Origlio: pianoforte; Mauro Gargano: contrabbasso; Benjamin Henocq: batteria)

Francesco Bearzatti Quartet (Francesco Bearzatti: sassofono e clarinetto; Giovanni Falzone: tromba ed effetti; Danilo Gallo: contrabbasso e chitarra; Zeno De Rossi: batteria)

Acquaviva delle Fonti (BA), piazza dei Martiri del 1799

Jazzset 2008

dal 5 al 7 settembre 2008

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

venerdì 8 agosto 2008

Ligiana, una scelta di vita

Esile, esilissima. E molto brasiliana. Ligiana non arriva dalla Rio delle cartoline, né dalla São Paulo dei grattacieli e del traffico affogato. E neppure dalla Bahia del Pelourinho e di tutti i santi, o dal nordest del sertão che brucia. Ligiana è una vocalist giovane che scende da dove non ce l’aspettiamo, dalla Brasília fredda e capitale, dalla roça isolata. «Ma Brasília è una città che offre più di quanto pensiate, in Europa. Certo, non è Rio. Ma possiede un suo fermento, un proprio fervore culturale. E poi lì si cucina tanta musica», dice. Ed è vero. Soprattutto, di questi tempi. In cui emerge, anche in Italia, il carisma del mandolino di Hamilton de Holanda. «Hamilton – aggiunge Luigiana – è di Brasília, come me. Siamo praticamente coetanei. Anzi, siamo fratelli. E abbiamo studiato assieme, nella stessa facoltà universitaria. Dirò di più: proprio Hamilton mi ha trascinato nella musica popular brasileira. Sapete, io ho vissuto in Olanda. E cantavo: musica barocca, per la precisione. Ritenevo di avere la voce giusta per seguirne i percorsi. E, invece, lentamente, Hamilton mi ha convinta. Diceva che dovevo applicarmi nella MPB. Alla fine, ha avuto ragione. Ed eccomi qua. Eccomi a riproporre gli spartiti dei nostri maestri, ma anche delle composizioni originali».
Ligiana passa per due piazze pugliesi: prima Ceglie (largo Ognissati, appuntamento sponsorizzato dall’amministrazione comunale e coordinato da Antonio Esperti, musicista mesagnese sempre più assorbito dall’organizzazione di live di nicchia) e poi Saturo, marina di Leporano, dove qualche secolo fa sbarcarono gli spartani. E poi riparte: per Ascoli e, dunque, per la Francia. «Dove vivo da tre anni. Anche lì mi ha dirottata Hamilton, che l’aveva conosciuta prima di me. Aveva numerosi contatti, che mi ha affettuosamente girato. Ormai, in Francia, mi sono ambientata. Ho la possibilità di esprimermi, di cantare. Di confrontarmi. E di incidere. Il mio ultimo lavoro discografico si chiama “De Amor e Mar”, è stato appena confezionato. E poi, in Francia, coltivo tante amicizie. Anche quella di Nico Morelli, un pianista che ha saputo fondere i ritmi della pizzica con le sonorità del jazz. E’ delle voistre parti (di Crispiano, ndi), lo conoscete molto meglio di me. Con lui ci ritroviamo spesso, in un club. E ci scambiamo impressioni, sensazioni».
A Ceglie, Luigiana Costa Araújo conduce una formazione raccolta ed essenziale, ma acusticamente intrigante. Hatyla Gabriel Garcia suona il cavaquinho, chitarrino squillante che la cultura brasiliana ha adottato da quella portoghese. Boris Giraud è un chitarrista francese di estrema pulizia. E Wander Silva De Oliveira è un percussionista carioca che, con pochi strumenti, riesce a regalare una bella varietà di colori. L’interpretazione sobria, ma rotonda, vaga dallo choro al samba de roda, dal samba canção al baião. La voce è fluttuante e sa avvolgere parole e ritmi. Piace soprattutto, però, la scelta del repertorio: niente affatto banale. Anche quando vengono scomodate le cover di Toquinho e Maria Creuza, per azzardare due esempi. Alle quali Ligiana si accosta con l’umiltà tipica degli artisti brasiliani. Che è poi la chiave neppure tanto segreta del saper vivere. La simpatia naturale di questa ragazza brasiliense, poi, è assolutamente autentica, non preconfezionata. E spiega, meglio di qualsiasi altra parola, la magia della musica che, sempre più massicciamente, parte da oltre oceano. Regalando nomi illustri e volti meno noti: che, tuttavia, non deludono la platea che cerca talento e originalità. «Il Brasile – detta Ligiana – è un contenitore immenso. Basta cercare. A proposito, tra un po’, rientrerò: è parecchio che manco dal mio Paese e avverto una certa esigenza di riabbracciarlo. Ma in Italia tornerò assai presto. Magari per lanciare ufficialmente il mio album. Ma vi ho detto che ho vissuto per più di un anno anche qui? Prima alla Spezia, poi a Cremona. Studiavo canto barocco, appunto». E sì, poi arrivarono Hamilton De Holanda, un consiglio insistente, un argomento valido, qualche buon indirizzo e la scelta di vita. Una buona scelta, ci sembra.

Ligiana Costa Araújo (voce), Hatyla Gabriel Garcia (cavaquinho), Boris Giraud (chitarra) & Wander Silva De Oliveira (percussioni)
Ceglie Messapica (BR), largo Ognissanti

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

giovedì 7 agosto 2008

Il menestrello brusco

Tonino Zurlo è un menestrello un po’ naif e anche un po’ irrequieto. Ma è pure uomo di principi saldi. Quasi d’altri tempi. Come quelli che racconta. O come quelli che vorrebbe continuare a raccontare. Ed è un’anima profondamente popolare. Dagli istinti spesso eccessivi. Dalle forme talvolta sgraziate. E dalla sostanza impastata di ironia e amarezza. Parla, parla tanto. E, certe volte, straparla. Utilizzando il dialetto, il suo dialetto. Come una lama, come una spada. Donchisciottescamente. Dunque, generosamente. Non è propriamente un cantante. E, fondamentalmente, neppure un musicista: nell’accezione più usata del termine, almeno. Forse, più che altro, è un musico. Uno di quei musici persi nei meandri del tempo, della storia. Che è la nostra storia. Tonino Zurlo, piuttosto, è un cantastorie. Un cantastorie che naviga nel mare di una contemporaneità radicata nella memoria. E ancorata a certi retaggi di ieri. Con un occhio guarda al passato. E, con l’altro, al presente. Senza perdersi. E lasciandoli incrociare. Estraerndone la polpa. E centrifugandola nel caleidoscopio del suo mondo colorito e terragno. Temprato da quella cultura contadina che ha edificato la terra e le genti di Puglia.
Tonino Zurlo riporta la tradizione e poi la modella. Con quel suo vocabolario brusco e poco protocollare. Trovandosi esattamente al centro della storia della nostra canzone popolare, ma anche oltre. Con trasporto. E anche con rabbia. Perché la rabbia è l’espressione di un disagio. E il disagio, da sempre, è una forma assai popolare del vivere quotidiano. Con trasporto, rabbia e teatralità. Parla e urla, Zurlo. La sua Puglia, il suo sud, la propria idiosincrasia nei confronti di un potere che poi così astratto non è. Parla, urla e ci crede. Ci crede ancora. Pittorescamente. E le sue favole planano sul pubblico beffarde. Caoticamente, come il personaggio impone. O, forse, pretende. Rischiando spesso di parlarsi un po’ addosso. Ma la sua verve copiosa è assalutamente genuina e non c’è frode intellettuale. Anzi, nella piazza di Polignano, in occasione del live che è parte integrante dell’omaggio della locale amministrazione comunale al cinquantenario della creazione di “Volare”, il brano più conosciuto del repertorio di Mimmo Modugno e anche lo spartito italiano più famoso nel mondo, il menestrello ostunese appare persino più asciutto del solito. E meno ripetitivo. Potere, chissà, della plateagremita. Dell’appuntamento impegnativo. O di quel nome, Domenico Modugno, così ingombrante. Un nome che tutti gli artisti intervenuti nella rassegna ricordano puntualmente.
Anche Tonino ripercorre le note di Modugno (e come si fa, del resto, a sviare?) e qualche refrain puntella il suo repertorio. Prima che, sul palco, nella seconda parte della serata, salgano i quattro componenti dei Motacuntu, ensemble di chiara estrazione popolare che interviene, lo accompagna, lo surroga e si diverte. Sì, l’appuntamento è particolare e Tonino annusa la sua specificità, decodificandola e adeguandosi. Per quanto possibile, ovvio: alla fine, l’indole esplosiva sgomita e si impone in un concerto dai toni informali, dove si fondono antichi lavori e qualche testimonianza di «Nuzzole e Parole», la sua ultima incisione discografica, abbastanza recente. E dove il sud è palestra, epicentro, orgoglio, ferita, pretesto, tratto d’unione indelebile con l’opera di Modugno o con la produzione di Matteo Salvatore, al quale Tonino dedica un momento intenso. Dove il sud è partenza ed arrivo di un percorso e di un impegno ormai quarantennale. Dove voce e chitarra sanno penetrare con il sentimento: parole testuali di un menestrello che, della musica, non ha fatto professione, né fonte di reddito. Preferendo trarne emozioni. Profondamente popolari: come i cantastorie di una volta. Con tutti gli eccessi di un’arte assorbita per strada. Dalla gente, per la gente.

Tonino Zurlo (voce e chitarra) & i Motacuntu
Polignano a Mare (BA), piazza San Benedetto
Volare a Polignano a Mare

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

domenica 27 luglio 2008

La world music multietnica di Sepe

Evidentemente, il movimento che gravita attorno alla canzone popolare fatica sempre più ad accontentarsi dell’antico processo di autocombustione. E sente la necessità crescente di sollecitazioni sempre più marcate. Occorre altro, cioè: l’interazione con un ventaglio ampio di culture e di soluzioni musicali, il contagio con uomini e spartiti che testimoniano esperienze differenti, ma contingenti. In una sola parola, stimoli. Stimoli nuovi, ovvio. Per questo, sembra logico parlare di tradinnovazione e, soprattutto, di mescolanza. Talvolta fascinosa, talvolta ardita. E, talvolta, un po’ sbracata. Ma la musica, si dice, deve andare. E deve entrare nella gente. Perché, poi, è la gente che la consuma. Di fatto, però, la canzone popolare si trasforma. E si sfigura, molto spesso. L’esibizione dal vivo di Daniele Sepe, nome storico dell’universo popolare in Italia, irrobustisce il concetto. Segnando una tappa in più del percorso artistico di un musicista che non ha mai lesinato approcci con realtà più o meno distanti da quella in cui ha cominciato a misurarsi trent’anni fa.
Anzi: il concerto ercolano del sassofonista campano (inserito in due distinte ma, anche in questo caso, convergenti manifestazioni: l’Adriatic International Festival, voluto dall’amministrazione provinciale di Brindisi, e la Notte Bianca, organizzata dal comune di Erchie) diventa dichiaratamente l’occasione di un incontro (o di un incrocio) di esperienze. Meglio: di una commistione di tonalità e di idee, centrifugate secondo i gusti correnti, dove i confini sonori non coincidono con quelli geografici e con quelle nuove barriere che la politica sembra voler riproporre. In piazza, Sepe condivide il palco con la Brigada Internazionale, ensemble di tredici elementi che rappresentano Paesi differenti (anche e soprattutto non comunitari: Brasile, Cuba, Argentina, Senegal, Romania, Tunisia, Bosnia, Svezia e, ovviamente, Italia), ed aree sociali e musicali di diversa estrazione. Il progetto, neanche un po’ velatamente, prova a rafforzare la speranza del dialogo interculturale e interraziale, sul quale, di questi tempi, continuano a piovere molti dubbi e troppe domande. E, parallelamente, trasportando se stesso verso una semplice e pura world music, che di popolare possiede davvero assai poco. Molto ritmo, tanta energia, fiati, voci, basso, chitarra, tastiere e una buona razione di batteria e percussioni: la frittura mista spazia immediatamente, senza regole. Scavalcando ogni recinto. Sfiorando persino la disco music, bagnandosi sostanzialmente di funky, di pop e anche di rock e svelando quasi sempre la propria anima (e la propria vocazione) commerciale.
«Voglio che questa sera vi divertiate», comunica Sepe prima di cominciare. E così sia. L’approccio è un po’ congestionato di elettronica e di timbri balcanici. Repentinamente, poi, si emigra in Sud America. E non difetta la riproposta di ritmi realmente popolari come il baião (“Asa Branca” di Luís Gonzaga, peraltro, è rivisitata con impeto rockettaro). Quindi, si rientra in Europa, prima di riattraversare l’Oceano. Sepe dirige con discrezione, ritagliandosi qualche assolo di buon pregio, ma lasciando fare. E strafare. La Brigada ricorda (e, forse, rincorre) l’Orchestra di Piazza Vittorio, la prima formazione multietnica assemblata in Italia, ripercorrendone le finalità e certe argomentazioni di fondo. Il paragone, tuttavia, regge per poco: perché, probabilmente, l’ensemble diretto da Mario Tronco sembra più rigoroso. O se preferite, meno anarchico. Nella gran quantità di note, però, qua e là emerge qualche fraseggio interessante. O la voce decisa e carica di Doris Lavín, vocalist cubana. O, ancora, la chitarra matura e il sorriso divertito di Adnan Hozic, bosniaco di Sarajevo emigrato da anni in Salento, che i più attenti ricorderanno come uno dei principali protagonisti del gruppo Opa Cupa, gestito da Cesare Dell’Anna. E, non ultime, le incursioni frequenti del batterista brasiliano Robertinho Bastos. Il pubblico, intanto, si riscalda e balla: dunque, apprezza. E’ fatta la volontà di Sepe. Ed è gratificata l’iniziativa della Notte Bianca. Così come è appagato lo sforzo organizzativo dell’Adriatic International Festival, che ha convogliato in diverse location della provincia (Selva di Fasano, San Pancrazio, Villa Castelli, Mesagne e, appunto, Erchie) proposte musicali suggestive e originali come il trio del pianista Maurice El Medioni, la voce rom di Esma Redzepova, il cantautorato a stelle e strisce di Elliot Murphy e il rockabilly delle periferie belgradesi dei Kal. E che non si dica, allora, che l’estate pugliese non racconta storie interessanti. Girando, si trova. Più o meno puntualmente.

Daniele Sepe (sassofono) & Brigada Internazionale
Erchie (BR), piazza Umberto I
Adriatic International Festival

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

venerdì 25 luglio 2008

Teresa Salgueiro, una pagina nuova

Da Lisbona alla Francia di Edith Piaf. Dal fado di Amália Rodrigues al Brasile e all’Argentina. Da Alfama all’Angola e a Capo Verde. Dal Tago all’Italia di Lucio Dalla. Dal Portogallo al Messico di Jiménez. Il mondo di Teresa Salgueiro si allarga. E sconfigge le distanze oceaniche. Non ci sono frontiere, ma solo orizzonti. E non c’è più la sua musica. Quella che l’ha proiettata, dieci anni fa, sui palchi europei. Dunque, quella che che l’ha accompagnata in un’ascesa agile, prepotente. Non c’è più la nuova canzone lusitana, accudita dalla tradizione e rivisitata dai Madredeus: che l’hanno saputa rimodellare e ridistribuire dal 1994 in poi, aggrappandosi saldamente a «Lisbon Story», la fortunatissima pellicola firmata da Wim Wenders. E non ci sono più neppure i Madredeus. Adesso (per adesso, almeno), cè la musica del mondo. C’è la musica di sempre. E, con Teresa, c’è un nuovo gruppo, sintetizzato in un quintetto d’archi affiancato da piano e percussioni.
Forse è una svolta, forse è un capriccio passeggero. Probabilmente, svicola la voglia di misurarsi. Con se stesessa e con la musica. Il mondo di Teresa Salgueiro, ora, è un repertorio che non concede troppo all’originalità (diciamo pure già largamente adoperato e facilmente apprezzabile dal grande pubblico), ma che si rivaluta con la grazia e la naturalezza, con lo charme e con la semplicità, con l’intensità e il sorriso. E, ovviamente, con la felicità di espressione. Del resto, lo spessore di Teresa è immutato. E la sua maturità artistica è assolutamente inattaccabile. E poi Teresa è bella, come sempre. Forse, anche più di prima. Ed è elegante, come sempre. Anzi, più di un tempo. Ed è raffinata, come e più che in passato. Raffinata, ma non sofisticata.. Non è un personaggio artefatto, cioè. E, magari, questo può bastare. Il resto è voce: solare, limpida, acuta, senza tempo. Che argina quella punta di delusione che avrà aggredito quanti avrebbero voluto riascoltare “Ainda”, “Céu da Mouraria” oppure “Haja O Que Houver”. E che, invece, hanno incrociato “La Vie en Rose”, “Avec le Temp”, “Caruso”, “Paloma Negra”, la piazzollana “Vuelvo al Sur”, “Leãozinho” (produzione di Caetano Veloso) e la bossanoviana “Se Todos Fossem Iguais a Você”, della “dupla” Jobim-De Moraes. Che la Salgueiro, sia detto per inciso, interpreta con regole fonetiche rigidamente brasiliane: non male, per una lisbonese. Accanto, peraltro, scivolano spartiti di gran pregio come “Estranha Forma de Vida”, vecchio successo della Rodrigues, la “Cantiga da Seifa”, antico canto popolare della Beira Alta, regione portoghese del centro nord, “Nom de Rua” oppure “La Serena”, una testimonianza del canzoniere iberico sefardita.
Il progetto (impresso, per la cronaca, anche in un disco, datato duemilasette) omaggia diverse culture artistiche e, soprattutto, cinque lingue: portoghese a parte, lo spagnolo, l’italiano, il francese e l’inglese. Il viaggio chilometrico, tuttavia, non è caotico e neppure superficiale. Curare il dettaglio è sempre operazione sana e redditizia: e Teresa e il Lusitania Ensemble spigolano tra i particolari. La qualità, si sa, sopravvive all’idea. E si esalta con gli arrangiamenti sobri, in linea con la figura di riferimento. L’accompagnamento, giudiziosamente, non è ingombrante. Il centro del palco è la voce di Teresa Salgueiro. Punto e basta. Ma non sia detto che alla piccola orchestra non venga tributato il giusto spazio: come tre pezzi interamente strumentali (uno, ad esempio, è “Casa da Mariquinha”) suggeriscono. L’atmosfera, infine, è quella più indicata per una piazza signorile come quella del Plebiscito, a Putignano, contenitore sfruttato nel miglior modo possibile (prima del concerto, eravamo sinceramente diffidenti della scelta: ci siamo ricreduti). Attorno, intanto, fluttua la voce del Portogallo di oggi e di domani, che è pure una voce della Lusitania che è stata. E, sembra di capire, anche la voce di qualche altro angolo di mondo. L’abbiamo riascoltata volentieri, Teresa. E non ci ha tradito.

Teresa Salgueiro (voce) & Lusitania Ensemble (Jorge Vergoso Gonçalves: violino; Antônio Figuereido: violino; Vensislav Grigorov: viola; Luís Claude: violoncello; Duncal Fox: contrabbasso e piano; Ruca Do Bordão: percussioni)

Putignano (BA), piazza Plebiscito
Primitivo 2008 – La Provincia dei Suoni

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martedì 15 luglio 2008

Cinquant'anni di bossa

«Pietre Che Cantano», la rassegna più longeva e più nobile dell'estate cistranese, sembra essersi affezionata al Brasile e al suo ventaglio di soluzioni musicali. Tanto da dedicare al Paese sudamericano l'intero cartellone, per il secondo anno di sèguito. Anzi: se vogliamo, "Brazillusion '08" è l'ideale continuazione (o evoluzione) della programmazione offerta dodici mesi prima. Anche se i contenuti e, soprattutto, gli artisti chiamati a impalcare questa edizione del festival possiedono - senza dubbio alcuno - maggiore appeal e uno spessore sicuramente superiore a quello di quanti sono intervenuti nella kermesse precedente. Giusto per chiarire.
«Pietre Che Cantano» e il Brasile: oltre tutto, il feeling è saldato dal patrocinio dell'ambasciata oroverde (operazione interessante) e dalla mediapartnership assicurata da Musibrasil, il portale italiano di cultura brasiliana. Segnali inequivocabili di crescita, dunque. Valorizzati dalla prima puntata del percorso (che si chiude il sedici agosto), affidata al piano (e al gruppo) di un trentenne carioca di Parigi, svezzato sugli spartiti di Bach e cresciuto nell'atmosfera calda degli afrosamba e nel culto del jazz, sotto la guida autorevole di un maestro di chitarra e di note come Baden Powell. Philippe Baden Powell (che, del maestro, ha ereditato il cognome e persino il nome) è figlio di un artista e di una terra dai quali non si è allontanato troppo, malgrado la residenza europea. E, per questo, ha preparato un repertorio di "brasilian standards" per celebrare degnamente i cinquant'anni di militanza della bossa nova nel panorama musicale (sì, sono già cinquanta, non sembra neppure vero), ovvero il leit motiv dell'intera rassegna curata anche quest'anno da Francesco Pinto. I suoi alleati, sul palco, parlano portoghese (al basso c'è il brasiliano Natalino Neto) e francese (Damien Fleau è il sax soprano, Mathieu Gramoli è il batterista e, a metà concerto o poco prima, si aggiunge la voce di Chloé Cailleton). Ma il linguaggio musicale non si esaurisce alla bossa: innanzi tutto perchè il contributo dell'improvvisazione è di chiaro stampo jazzistico, ma anche perchè l'offerta ammara pure sullo choro di Pixinguinha, sulle sonorità djavaniane della MPB, sulla produzione colta di Egberto Gismonti ("Palhaço") oppure su quella di Moacyr Santos. Chiaro, però, che - tra una divagazione e l'altra - Philippe punti decisamente sugli afrosamba così cari al padre e allo stesso Vinícius de Moraes ("Berimbau", "Canto de Ossanha", "Canto de Xangô").
L'ora e mezza di concerto che sgorga, così, si rivela sufficientemente varia, mai ingessata, sciolta. Il live è sempre pulito, carrozzato di una propria identità: merito, evidentemente, degli arrangiamenti convincenti, intelligenti, a tratti persino ispirati. Tecnicamente, la prestazione si mantiene sempre nei binari dell'eleganza e questo appare un pregio. Pur senza esplodere, sia detto: perchè, forse, l'ultima parte dell'esibizione avrebbe meritato scelte di repertorio più robuste: particolare, tuttavia, che non sottrae troppo alla valutazione complessiva. Nella piazza vecchia di Cisternino, attraversata dai rintocchi dell'orologio, il Brasile - cioè - passa e si ferma ugualmente. E la prevedibilità di un progetto nato per riabbracciare cinquant'anni di storia va accettata. Volentieri. Le buone interpretazioni esigono rispetto e vanno sempre premiate. Con un applauso sincero.

Philippe Baden Powell (pianoforte), Chloé Cailleton (voce), Natalino Neto (basso), Damien Fleau: sax soprano) & Mathieu Gramoli (batteria)
Cisternino (BR), piazza Vittorio Emanuele
Pietre Che Cantano 2008

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domenica 13 luglio 2008

Il segreto dei Folkabbestia

La solita storia. Di quasi lucida follia, di allegra gioventù stagionata, di mordente ironia, di becera ispirazione, di gaia circumnavigazione della musica, di misturazione spensierata, di arrangiamenti effervescenti. La solita storia dei Folkabbestia, un gruppo emergente che, nel tempo, è emerso. E che galleggia senza affanni, ovunque si trovi. Per la felicità dei fans che, attorno al palco, cantano, ballano, saltano. Senza sosta. E che ripetono versi e citazioni: quelle più graffianti e quelle simil-demenziali. Che pure possiedono la loro anima, la loro profondità, il loro senso. La solita storia. La storia di una realtà musicale profondamente pugliese: nella carta d’identità e nell’animo. La storia di un gruppo ormai (o da tempo?) di culto. Non solo dalla parti del quartiere Libertà, nella Bari in cui la band è nata e si è consolidata. Ma anche nel profondo Salento, turisticamente sempre più maturo. Davanti alla spiaggia di Lido San Giovanni, dove Gallipoli finisce e dove c’è un parco (Parco Gondar) che ospita una delle tappe del tour di presentazione dell’ultimo disco della colorita brigata. Disco che si chiama «Il segreto della Felicità» e che circola dal trenta maggio ultimo scorso. Tra cantautorato e pop, tra rock e folk. Tra sberleffi e pensieri preoccupati. E chissà cos’altro. Con la leggerezza di sempre, ci mancherebbe.
Diciamo, allora, che la storia dei Folkabbestia continua. Continua sicura. Perché continua a non prendersi troppo sul serio, forse. Oppure, perché la miscela è quella giusta: note di impatto immediato, nessuno schema predefinito, tanto ritmo e una buona dose di coscienza critica. Quella che ci spinge a incazzarci ancora, ma senza farcelo pesare troppo. Intanto, perché le note sfrecciano. E poi perché i Folkabbestia non offrono la sensazione di voler dimostrare nulla. Né inventare niente. Rimanendo, per questo, prigionieri solo del proprio temperamento e del loro istinto di menstrelli un poì bislacchi, di cantastorie dei giorni nostri ancora capaci di distribuire tra le righe qualche mesaggio. Guadagnando, dunque, in salute. E, anzi, ricevendo copioso riscontro. Praticamente in ogni situazione dal vivo. Come, appunto, quella di Gallipoli, cominciata mezz’ora dopo la mezzanotte. Tardi, molto tardi. Ma ancora presto per il popolo che, di notte, vuole vivere intensamente.
«Non su un’isola deserta. Il segreto della felicità è tra di voi», chiosa Lorenzo Mannarini, il capobanda. Può darsi. Poi sfilano le nuove composizioni, che seguono – due anni dopo – «Breve Saggio sulla Canzone Italiana», un album di cover, e «Perche», lavoro finalizzato nel 2005. Nel sestetto pesa l’assenza di Fabio Losito, motore dinamico della formazione e violinista frenetico. Con i due componenti storici (Francesco Fiore al basso e Nicola Di Liso alla batteria) ci sono però la fisarmonica del cegliese Pietro Santoro, la chitarra elettrica di Simone Martorana e la tromba di Giorgio Distante, nomade cistranese che spazia senza pentimenti dalla popolare (con il nuovo Canzoniere Grecanico Salentino, ad esempio) al jazz, dalla world music all’elettronica. Lo spirito, tuttavia, è quello di sempre. Quello della performance lombarda entrata nel guinness dei primati (trenta ore sul palco a suonare lo stesso pezzo, “Styla Lollomanna”, senza interruzioni: roba di qualche tempo addietro) o di qualsiasi altra esibizione live: dove, peraltro, non possono difettare passaggi storici del percorso musicale dei Folkabbestia quali “Il Sabato del Villaggio”, “Andersen”, “Breve Saggio Filosofico”, “Tammurriata a Mare Nero”, “Fuga in Fa” e “Potere alla Poesia”. E dove è impossibile rinunciare alle note (di nuovo attuali?) di “Alla Manifestazione” e di “Rovo d’Amore” («sull’amore bisogna dire la verità, come nel telegiornale»), al blues pugliese di “Cicce Paule ‘U Capone”, alla pizzicca rockettara di “Risveglio dall’Incanto”, oppure a “Il Sogno di Mady”, “Le Vie del Folk”, “Una Serenata Sotto la Luna”, alla gucciniana “L’Avvelenata” e, ovviamente, alla richiestissima (e acclamatissima) “U Frikkettone”. Un po’ un inno, un po’ il marchio di fabbrica. Cioè il passato, il presente e il futuro dei Folkabbestia: un po’ strafottenti, un po’ rustici, un po’ brillanti. Ma sempre molto veraci.

Folkabbestia (Lorenzo Mannarini: voce e chitarra; Simone Mmartorana: chitarra elettrica; Pietro Santoro: fisarmonica; Francesco Fiore: basso; Giorgio Distante: tromba; Nicola Di Liso: batteria)
Gallipoli (LE), Parco Gondar

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sabato 5 luglio 2008

Le Americhe di Bari

Il vento caldo che bussa dal mare. La piazza gravida di voci incontrollate, biciclette e intemperanze urbane. Il palco incombente, ingombrante. I chioschi generosi della birra preferita dal popolo barese: quello che partecipa alle situazioni live e quello che vi struscia accanto. Tutto fa estate. E tutto fa jazz. E’ l’atmosfera caleidoscopica di “Jazz in Bari” edizione duemilaotto, un concentrato (ci esponiamo subito: artisticamente riuscito, perché frutto legittimo di scelte intelligenti, ispirate) di proposte e personaggi che ruotano attorno ad un’idea. L’idea di Roberto Ottaviano, coordinatore e responsabile musicale della kermesse più titolata tra quelle curate dall’associazione interculturale Abusuan. L’idea di associare, in un’unica soluzione, artisti abituati a governare platee internazionali e musicisti locali. Vicendevolmente attratti dal confronto e dalla necessità di esprimere la propria progettualità, come direbbe chi ama parlare bene, ma anche dalla solidità del cartellone. Perché è la programmazione, ricordiamolo ancora, che produce qualità. Ed è la qualità che richiama la nobiltà.
Progettualità, peraltro, senza limitazioni per l’estro e la sensibilità di ciascuno, senza vincoli di commistione artistica e anche di sperimentazione. Come piace ai musicofili di ultima generazione. Tutti religiosamente allineati, però, al concetto di buona musica. E, nell’occasione, aggrappati ad un filo conduttore che prevede ramificazioni infinite: l’America. Anzi, le Americhe. Tutte le Americhe: quella dell’estremo nord e quella del meridione, quella latina e quella di cultura anglosassone. «Looking for Americas», come sottolinea orgogliosamente Ottaviano, è cioè un profilo itinerante di una rassegna (la quarta del cammino) dichiaratamente impegnata a «contemplare diversi stilli musicali, capaci al contempo di mantenere saldo il legame con la tradizione, provando tuttavia a elaborare la creatività in tempo reale». E che, dal primo al quattro luglio, ha distribuito tra piazza Mercantile (sede principale) e la Terrazza del Fortino di Sant’Antonio (sede sfortunata) tre momenti dal vivo differenti, ogni giorno. In attesa dell’ultimo appuntamento (l’unico a pagamento), quello del sedici del mese, all’Arena della Vittoria, location prescelta per le acrobazie vocali del newyorkese Bobby McFerrin.
Tanta musica, dunque. Ma anche un assortimento oculato dei concerti, volutamente indirizzati a premiare una varietà sufficientemente corposa di orientamenti sonori. Come testimoniano, ad esempio, l’esplosività molto blues e il vivace impatto sonoro degli Hazmat Modine (due armoniche, una voce ribelle, una tuba, una chitarra e un basso rockettari, una batteria che spinge e sfonda, due fiati), oppure le fantasie free dell’Italian Instabile Orchestra, generata esattamente diciotto anni addietro dal Noci Jazz Festival e tornata a riunirsi per rileggere alcuni classici, ma anche per ricordare Mario Schiano, effettivo dell’ensemble recentemente scomparso («e questa – assicura Ottaviano – è un’operazione eroica, perché è eroico raccogliere musicisti tradizionalmente attratti dalla rilettura critica che, tuttavia, mantengono un rapporto intenso con l’eredità afroamericana: e, forse, è un motivo per il quale, dalle nostre parti, si esibiscono solo saltuariamente»). Orientamenti sonori, altrimenti, molto vicini al pensiero musicale di Django Reinhardt (è il caso del live del trio Nicolescu-Escoudé-Marcoz, animato da un tessuto armonico raffinato e sostanzioso, come dal rigore della tecnica interpretativa), oppure all’anarchia delle note sposata dalla vibrante e ambiziosa Cosmic Band di Gianluca Putrella. Oppure, ancora, pronti ad esplorare un pianismo raffinato, dove vivacità e improvvisazione sono ingredienti irrinunciabili, come racconta il trio formato da Kenny Barron, dal contrabbassista Hiroshi Kitagawa e dal batterista Francisco Mela (a proposito: meraviglioso per pulizia, vitalità e quantità di sensazioni regalate senza picchiare sui piatti e sui tamburi). E, attorno, ecco anche le percussioni canadesi di Merlin Ettore e Joannie Label; l’incontro tra i sassofoni del torinese Emanuele Cisi e un trio profondamente pugliese (Maurizio Quintavalle al contrabbasso, Mirko Signorile al piano, Mimmo Campanale alla batteria) per la presentazione di «It’s Time to Make a Change», lavoro discografico di imminente commercializzazione; la performance (tecnicamente ineccepibile, ma forse un po’ fredda: è un’opinione) del Jed Levy Quartet, che presenta un repertorio originale ispirato alle sensazioni e alle memorie tratte da un percorso consumato in varie città d’Italia, e infine l’omaggio a Don Cherry realizzato dalla band di Karl Berger (al piano e al vibrafono), dove brilla la voce delicata di Ingrid Sertso.
«Looking For Americas», allora, è un po’ la riscoperta delle Americhe, inquadrata da diverse direzioni musicali. Le Americhe guardate con gli occhi di è convinto che il già ascoltato può rigenerarsi, ridistribuirsi, destrutturarsi e ricomporsi, con venature armoniche insospettate o insospettabili. Con sapori persino speziati. Con umori (e umoralità?) diverse. Le Americhe solcate da linee immaginarie, le Americhe di suoni e di storie: che, fortunatamente per noi, posso gravitare su una piazza, nel mezzo di un’estate calda, di un caldo nitidamente pugliese. Tra una birra e il vociare sgraziato dei giovanissimi della città vecchia, irrefrenabili e irrefrenati. Oppure al Fortino, nel punto più alto delle vecchie mura di Bari, dove lo spazio dell’after hour scompare quasi all’improvviso e dove il ciclo dei live affidati al trio di Guido Di Leone viene privato del suo orario ufficiale di avvio (la mezz’ora alla mezzanotte), anticipato (alle ventidue e quindici, come qualsiasi altro concerto in qualsiasi città, esattamente contemporaneo ai live programmati in piazza Mercantile) e, perciò, delegittimato. Non da chi l’after hour l’ha ideato, ma da chi ha affiancato la manifestazione con il proprio patrocinio e il proprio contributo economico, cioè l’amministrazione comunale. E non per scarsa sensibilità, ma per ragioni di queta sopravvivenza: con i residenti e con le forze dell’ordine. Polizia municipale compresa: che, si dice, avrebbe multato “Bari in Jazz” per l’attardarsi delle note, già nella prima serata. Colpendo, dunque, la stessa autorità comunale, a cui fa capo. Quell’autorità comunale titolare della co-produzione della quattrogiorni (il cui programma era noto da diverse settimane) e che, pertanto, avrebbe dovuto garantirne l’iter burocratico. In una città che, come puntualizza il direttore artistico della rassegna, «non solo ospita, ma produce jazz». Cose mai viste. E mai sentite.

Bari in Jazz 2008
Bari, piazza Mercantile e Terrazza del Fortino di Sant’Antonio
dal 01.07.08 al 04.07.08

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venerdì 13 giugno 2008

Religione del canto e del controcanto

Terragne, ancestrali, senza tempo. Le voci delle Faraualla si modellano nella tradizione, si aggrappano alla storia popolare. Con fantasia e mistero, colore e teatralità, forza verace e ironia. Armonia, impeto e passione, energia e vitalità: i giochi e le acrobazie sonore del gruppo vocale più originale di Puglia diventano religione del canto e del controcanto, tra fuoco sacro e rito pagano. Ed è piacevole ritrovarle. Sempre fresche, vivide, profonde. Sono tornate, le Faraualla: il quarto disco di un impegno ormai datato si chiama «Sospiro», album appena licenziato dall'etiche Falmay: occasione, dunque, propizia per presentare (ufficialmente) le tracce che lo compongono al Café del Mar di San Giorgio, a Bari, in un live che è parte integrante della rassegna estiva pensata da Guido Di Leone. Sono tornate, le Faraualla: con una raccolta di brani propri della tradizione pugliese , opportunamente rielaborati e arricchiti dalla consueta efficacia scenica e dall'esuberanza interpretativa delle quattro vocalist (Gabriella Schiavone, Teresa Vallarella, Paola Arnesano e Loredana Perrini), ma pure dal ricco arredamento di suoni e dal saporito e quasi tribale accompagnamento di due percussionisti dalla rendita garantita come Pippo "Ark" D'Ambrosio e Cesare Pastanella. «Sospiro», è ovvio, è la colonna portante del live, che però si apre anche a qualche brano tra i più graditi del recente passato. Ed il live procede con impatto immediato, sfrontato. Primordiale per scelta, variegato per contenuti e, soprattutto, tonalità. Le voci si sovrappongono e si sfidano tra una filastrocca ("Ci Lu Pariscisti") e un inno all'amore ("Chi t'è Mu"), una versione riarrangiata di "Popov", brano del '67, e un pezzo a cappella ("Il Sogno di Frida"). Senza mai tradire la naturalezza del progetto di partenza dell'ensemble, nè la sua essenzialità di fondo. Voci, batteria e percussioni riempiono lo spazio come e più di qualsiasi altro strumento messo assieme. La performance sa distribuirsi con equilibrio. E sa planare lieve anche sulla disattenzione e la maleducazione del pubblico. Quella che, come sottolinea il direttore artistico della programmazione musicale, fa pentire gli organizzatori di impegnarsi e gli artisti di misurarsi sul palco. Ma anche questa è la Puglia, una terra di fascino immenso dove si offrono situazioni dal vivo con regolarità copiosa, sconosciuta in altre realtà: anche le più accreditate, socialmente e turisticamente. E l'offerta, evidentemente, talvolta è inutile. E il dato confonde, scoraggia. O, almeno, lascia pensare. Forse perchè non meritiamo poi così tanto. Niente di più dei dj set. E solo quelli.

Faraualla (Gabriella Schiavone: voce e percussioni; Teresa Vallarella: voce, percussione e tamburo a cornica; Paola Arnesano: voce e percussioni; Loredana Perrini: voce e percussioni), Pippo "Ark" D'Ambrosio (batteria e percussioni) & Cesare Pastanella (percussioni)

Bari, Café del Mar

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domenica 8 giugno 2008

Le note di Lacy su Fasano Jazz

Cronologicamente, Fasano Jazz è il contenitore estivo di tradizione ormai ramificata che parte (e si esaurisce) per primo, a queste latitudini. Il suo momento è giugno: e l’undicesima edizione sa concentrare in meno di una settimana quattro live, per l’occasione dirottati dal centro storico cittadino al chiuso (e anche al riparo, considerate le condizioni climatiche) del Cineteatro Kennedy e dello storico (e recentemente ristrutturato) Teatro Sociale. Quattro situazioni dal vivo che, in larga parte, rafforzano la propensione ad affacciarsi oltre lo steccato del jazz, inteso nell’accezione più stretta del termine (sul palco, si avvicendano prima Bill Brudford e Michel Borstlap, poi Brian Auger e gli Oblivion Express, infine la band di Allan Holddsworth: le sonorità sono dichiaratamente rockeggianti), lasciando però l’ultima data ad un quintetto dalle solide radici pugliesi. Che, assolvendo il desiderio antico dell’Ufficio Cultura del Comune di Fasano, responsabile del progetto e del cartellone (lo spazio destinato agli artisti di casa nostra non deve mancare mai), riavvicina il pubblico a spartiti di respiro più marcatamente jazzistico.
L’ultimo appuntamento, peraltro, sposa con convinzione l’idea magna dell’improvvisazione e, perché no, il gusto della ricerca, che potremmo sintetizzare in un vocabolo vago e anche abusato: sperimentazione. Diciamolo subito: la performance della formazione diretta da Gianna Montecalvo, vocalist barese che non ama apparire troppo spesso dietro al microfono (ma che, quando appare, lascia un’impronta), non è particolarmente ostica per le orecchie meno navigate, ma presuppone indiscutibilmente un interesse deciso per le tonalità e le architetture sonore meno convenzionali. Quelle che nascondono, per intenderci, un lavoro profondo e anche coraggioso, dove occorre liberare estro e fantasia. Ovvero, il lavoro quotidiano di gente come il pianista monopolitano Gianni Lenoci, che proprio dell’improvvisazione e della sperimentazione si nutre stabilmente, o del sassofonista pugliese più amato oltre i confini regionali (Roberto Ottaviano), o del batterista Marcello Magliocchi, tra i più innovativi della sua categoria. O dello stesso Giorgio Vendola, contrabbassista ancora giovane, ma già unanimemente apprezzato. Quello del quintetto, oltre tutto, non è un progetto qualsiasi, ma un atto di amore verso l’opera e la figura di Steve Lacy. E anche un atto di fede. Perché Lacy non era (e, ancora oggi, non è) un autore convenzionale, facilmente leggibile. Né troppo inseguito dagli interpreti italiani. Anche se sufficientemente appetibile per tributargli un’ora e mezza dai timbri sempre decisi, dai toni densi e pastosi, sempre vivi. E, talvolta, persino serrati.
“Steve’s Mirror", in realtà, è un’idea datata un paio di anni e già discograficamente affrontata, grazie al supporto dell’etichetta Blue Note. Dove le trame musicali sono affrontate con personalità. In cui voce e strumenti si inseguono e procedono assieme, compensandosi, completandosi e sostenendosi tra scat e assoli, accarezzando il passato e il tragitto artistico di ciascun singolo. «Quando, ad esempio, eseguiamo “Steve’s Mirror”, che poi è una composizione di Gianni Lenoci, avvertiamo la presenza di Lacy», confida Gianna Montecalvo. «E Lacy – aggiunge Roberto Ottaviano – rappresenta la nostra crescita musicale. Anche se noi tutti cerchiamo di non azzardare una contaminazione che possa nuocere alla sua produzione. Personalmente, ricordo che Lacy arrivò in Puglia, per la prima volta, trent’anni fa. Prima a Bari, alle Cantine del Cinestudio, e poi proprio a Fasano, alla Casina Municipale. E proprio lì io e Marcello Magliocchi approfittammo dell’occasione di poter suonare con lui. Io e Magliocchi che, tra parentesi, nel 1976, avemmo la possibilità di esibirci in questo stesso teatro, che non presentava come si presenta oggi. E questo significa che, evidentemente, il tempo passa».

Gianna Montecalvo (voce), Gianni Lenoci (pianoforte), Roberto Ottaviano (sax soprano), Giorgio vendola (contrabbasso) & Marcello Magliocchi (batteria) in "Steve's Mirror"

Fasano (BR), Teatro Sociale

Fasano Jazz 2008

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sabato 26 aprile 2008

Il Brasile di Barbara Casini

Immaginate il Brasile, quegli otto milioni e mezzo di chilometri quadrati di terra, di conflitti sociali, di passioni smisurate e anche di amore per la musica. Che può chiamarsi samba o forró, xote o maxixe, baião o frevo, pagode o MPB, cioè tutto quello che non è compreso nelle altre dizioni. Immaginate l’orgoglio della gente di quel posto per la propria identità culturale che pure l’appiattimento globale cerca di insidiare: riuscendoci abbastanza. E immaginate la quantità di note esportate o riproposte per esclusivo uso interno. Che, da sole, bastano e avanzano. Immaginate, poi, la storia della Musica Popular Brasileira. I suoi volti, la sua tradizione. E i suoi miti. Pensate, infine, a quanto possa essere difficile, per chi non è brasiliano, entrare nel meccanismo nazionale e, anzi, insediarvisi con naturalezza. Malgrado proprio gli artisti brasiliani, da sempre, siano quelli geneticamente meglio disposti a confrontarsi oltre confine, oppure entro i propri, con espressioni di altre culture e diverse latitudini. Traducendo, immaginate quanto possa essere improbabile proporre musica brasiliana in Brasile arrivando – magari – dall’Europa. Esprimendosi, ovviamente, in portoghese. Eppure, ultimamente, è accaduto. Con ottimi risultati, ci dicono le cronache. Barbara Casini, psicologa mancata e vocalist fiorentina di solido retroterra jazzistico (la collaborazione con Nicola Stilo, ad esempio, è antica; quella con Enrico Rava si rivelò preziosa e formativa; quella con Bollani è ancora attuale; quella con Bosso è il presente e il futuro assai prossimo) ama il Brasile. E non da pochi mesi. Anzi, il legame è sufficientemente datato: diciamo trent’anni, o poco meno. E pure saldo. Tanto da essersi sensibilmente avvicinata prima agli autori più prestigiosi della MPB (Buarque, Veloso, Lobo, Jobim: quattro nomi che, ovviamente, ne nascondono altri) e, sùbito dopo, all’idioma lusobrasiliano. Giostrando tra vinili e vocabolario, tra grammatica e viaggi al di là dell’oceano. Inventandosi, nel tempo, una decina di dischi, tra cui un tributo dedicato a Caetano Veloso («Uma Voz Para Caetano», Philology, 2003), un altro al lavoro raffinato di Chico Buarque de Hollanda, uno all’universo della musica del nordest («Nordestina») e un omaggio sonoro ad Elis Regina («Uragano Elis», Via Veneto Jazz, 2004), la voce più amata del Brasile, prematuramente scomparsa nel 1982. Elis, cioè la «voce per la quale continuo a scrivere canzoni»: parole di Milton Nascimento, non di un artista qualunque. Fatiche discografiche ampiamente pubblicizzate in Italia e, quindi, coraggiosamente presentate (è storia degli ultimi tempi) anche in Brasile. Dove l’accoglienza (al “Tom Jazz” di São Paulo e al “Mistura Fina” di Rio) si è scoperta vivace. Suffragata, cioè, da partecipazione (del pubblico) e apprezzamento (della critica). Piovuti prima di concedersi una divagazione sulla musica panamericana di radice popolare (progetto intrapreso con Javier Giotto e Natalio Luís Mangalavite) e una parentesi su quella francese: la riscoperta dell’opera di Charles Trenet è condivisa con Fabrizio Bosso, Ares Tavolazzi e Pietro Lussu. Ecco Barbara Casini. Ecco la sua passione, la sua musica. Riproposte dal vivo al Petra Live Club di Ceglie Messapica. Dove l’artista fiorentina, con la chitarra e con la voce, attraversa qualche punto essenziale del percorso artistico di Caetano Veloso (“Saudosismo”, “Para Ninguém” e “Os Passistas”), Gilberto Gil (“Eu Vim da Bahia” e “Febril”), Tom Jobim (“Outra Vez”, “Aguas de Marco”), Vinícius De Moraes (Eu Sei Que Vou Te Amar”), Ary Barroso (“A Baixa do Sapateiro”), Edu Lobo (“Ponteio”) e del cià citato Buarque ( “O Meu Guri”, “O Funcionário a Dançarina”, “Tatuagem”, “O Meu Amor”, “O Futebol” e “Vai Trabalhar, Vagabundo”). Ritagliandosi, tuttavia, un momento di sola voce surdo per la nordestina “Marambaia” e un angolo di musica italiana (ci piace sottolineare la versione di “Estate”, che segue “Angelo”, incisa nel duemila con Rava e Bollani, e l’inedita “Per Cena”, una produzione propria). «Una scaletta – rivela – partorita senza un preciso filo conduttore, ma seguendo l’istinto del momento, cercando di raggruppare i brani per autore». Senza mai rinunciare, aggiungiamo, alla cura del particolare. E attigendo compiutamente dal bagaglio dell’eleganza. Provando a creare un’atmosfera intima, quasi confidenziale: se non altro, con metà della platea, quella più attenta ed educata. Ma il malessere (per chi si esibisce e per chi vuole ascoltare) è ormai antico. E non sappiamo quanto risolvibile. Particolarmente indisponente in una location come quella cegliese: ovvero un club aperto esclusivamente in occasione dei live. E, dunque, espressamente pensato per la fruizione musicale.

Barbara Casini (voce e chitarra)

Ceglie Messapica (BR), Petra Live Club

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sabato 19 aprile 2008

Quarant'anni di musica. Senza sentirli

Patty Pravo accompagna i suoi primi sessant’anni con grazia e mestiere. Con la sua eleganza mai inamidata. Con un look giovane e ancora aggressivo. Con una voce sempre sensuale. E con quell’inflessione un po’ nordica e algida. Snodata, più che vagamente rockettara, esuberante quando serve. Cioè quando va shakerato il rapporto (abbastanza confidenziale) con il suo pubblico. Con il quale sa creare complicità. Nicoletta Strambelli da Venezia è giovanile e ancora visibilmente virtuosa. Perché si concede alla gente, con grinta e una buona dose di passione. Che la platea capta e gradisce. Le parole, magari, sono di pura circostanza, propedeutiche allo sviluppo del concerto, leggere e un po’ frivole: ma, sul palco, le note e i testi partono, procedono ed arrivano. Senza intralci. Non solo approccio e atteggiamento, però: a sessant’anni (appena) compiuti, Patty Pravo è un’artista che possiede ancora qualcosa da dire e molto da offrire. Per quella sua carica positiva, per quell’abilità di resistere a quarant’anni di musica, sempre guidata sul filo del buon gusto. E, comunque, sempre viva. Il live presentato al “Nuovo” di Martina, peraltro, ribadisce i concetti, preoccupandosi poi di inseguire i dettagli della carriera della ragazza del Piper. Le canzoni che ne hanno, nel tempo, segnato il percorso artistico ci sono tutte, nessuna esclusa: a cominciare da “Pensiero Stupendo”, un tributo personale di Ivano Fossati e Oscar Prudente, “Pazza Idea”, pietra miliare della produzione italiana degli anni settanta, e “La Bambola”. Ma ci sono anche “Ragazzo Triste”, che è poi il primo singolo registrato, nel 1966, le più recenti “Les Etrangers”, “Bisanzio”, tratta dall’album «Oltre l’Eden», e “Tristezza Moderna”. E poi, ancora, “E Dimmi Che Non Vuoi Morire” di Vasco Rossi, oppure “Se Perdo Te”, affianco alle quali si affacciano la versione di un’altra produzione di Fossati come “Angelus” e la battistiana “Io Ti Venderei”, ritoccata nel ritmo e negli arrangiamenti.A sessant’anni, intanto, Patty Pravo può permettersi pure l’ironia («con la scusa del compleanno, mi hanno fatto diventare santa», confida) e molti slanci, anche squisitamente fisici. Puntualmente assecondati dagli uomini della sua band, che persegue tonalità sempre robuste: Gabriele Bolognesi (ai sassofoni, al flauto e alle percussioni) e Alberto Clementi (alle chitarre) su tutti. Con i quali cooperano il batterista Massimiliano Agati, il chitarrista Edoardo Massimi, Giovanni Boscariol (piano e tastiere) e Adriano Logiudice (basso e contrabbasso). Slanci che non mancano di solleticare il giudizio della gente, sotto il palco: «Afrodisiaca», grida qualcuno. «E’ meraviglioso», ribatte lei, effervescente nello spolverino giallo e nei pantaloni di pelle, neri. O nella tunica bianca, con cui affronta il bis, composizione dal sapore di fiaba. Perché, di una fiaba, talvolta c’è bisogno. Così come necessita, sottolinea, «di tirare un po’ su le maniche». Frase aperta a troppe sfumature, che plana alla fine della serata, dai toni persino familiari. Serata di vecchi successi, di desideri incrollabili, di energia e sinergia, tra amici antichi. Il modo migliore di festeggiare sessant’anni. Quaranta dei quali spesi attorno alla musica.

Patty Pravo (voce), Gabriele Bolognesi (sassofoni, flauto e percussioni) , Alberto Clementi (chitarre), Edoardo Massimi (chitarre), Giovanni Boscariol (piano e tastiere), Adriano Logiudice (basso e contrabbasso) & Massimiliano Agati (batteria)
Martina Franca (TA), Cineteatro “Nuovo”

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martedì 15 aprile 2008

Dischi - Songs (Vincenzo Mastropirro Ensemble)

«Per quanto mi riguarda, ritengo faro ispiratore di questo progetto l’indimenticabile Fabrizio De Andrè, a cui è espressamente dedicato il lavoro. “Songs”, infatti, è la sintesi tra la poesia di Vittorino Curci e la mia musica colta-popolare-improvvisata, dove ho cercato di trovare il giusto equilibrio formale tra il testo e la musica. Il mio auspicio è quello di aver composto un lavoro che possa aver incontratio, almeno in parte, la sensibilità poetico.-musicale del grande Fabrizio De Andrè». Note di copertina come un manifesto programmatico. Dietro le quali si condensano un’intuizione, un percorso. Tra le quali si snodano esperienze, orientamenti, alleanze artistiche, complicità sonore. Sotto le quali cova il fuoco sacro della sinergia che abbatte la barriera dei vincoli musicali. Attorno alle quali danzano le parole del poeta, gli spartiti più classici, gli arrangiamenti più avanzati, la voce del contralto, il tessuto armonico del quintetto d’archi, le acrobazie dei fiati, la radice popolare della fisarmonica e l’arte dell’incontro. Tra un’orchestra e gli ospiti da accogliere, tra un solido bagaglio culturale e la contaminazione. Il progetto, appunto, si chiama “Songs”. “Canzoni”: così, semplicemente. Il suo regista è Vincenzo Mastropirro, flautista ruvese che circumnaviga la musica, senza stopparsi di fronte alla sua provenienza, né al suo indirizzo. Cioè autore di ciascuna composizione (sono dieci) del disco commercializzato alla fine dello scorso anno dall’etichetta Terre Sonore, nonchè direttore del Mastropirro Ermitage Ensemble, gruppo che fonde la chitarra di Antonino Maddonni, il piano di Antonio Piccialli, il basso elettrico di Paolo Montaruli, la batteria e le percussioni di Tonino Dambrosio, la viola di Flavio Maddonni e quella di Francesco Capuano, i violini di Giuseppe Amatulli e Rita Iacobelli e il violoncello di Elia Ranieri. La voce, invece, è Patrizia Nasini, artista particolarmente vicina a Giovanna Marini, di estrazione popolare (qualcuno ricorderà che debutta con il Canzoniere Internazionale, a metà degli anni settanta). E, poi, ci sono le liriche di Vittorino Curci da Noci, un amabile incrocio tra un poeta, un sassofonista e un politico fuori dagli schemi e dagli schieramenti, uomo di garbo e di sensibilità che riesce a coniugare il gusto per i versi (le sue pubblicazioni sono sufficientemente frequenti) e l’attività di assessore regionale alla Cultura. Curci, peraltro, è uno dei musicisti al sèguito dell’Ermitage Ensemble. Che si arricchisce della presenza di Gianni Coscia (alla fisarmonica) e di Roberto Ottaviano (al sax soprano: e il suo contributo si sente, per intero).L’articolazione – spesso complessa - della struttura musicale dell’album (registrato dal vivo, in un’esibizione consumatasi al “Curci” di Barletta, sette anni addietro) lo rende sempre solido, robusto, originale. Talvolta vibrante: è il caso di “Amore, Non Bevo Più i Veleni”, una delle tracce più sapide. “Songs”, intanto, vive sull’onda delle emozioni, sul filo degli assoli, ma si appoggia sulla cooperazione, sulla varietà dei toni. E, perché no, sulle evoluzioni delle immagini, ricche e insistenti. E, qualche volta, felicemente barocche. Non è un lavoro unicamente colto, però: perché la matrice popolare resta sempre presente, viva. Senza, tuttavia, mai impossessarsi né degli spartiti, né degli esecutori. E non è, probabilmente, neppure un disco di impatto immediato, per chi non è abituato alla mescita di sonorità e di situazioni: nonostante possieda una sua leggerezza sostanziale. Cioè, non pesa all’ascolto. Lasciandosi inseguire. E apprezzare.

Songs (Terre Sommerse, 2007)
Patrizia Nasini (voce), Gianni Coscia (fisarmonica), Roberto Ottaviano (sax soprano), Vittorino Curci (sax alto) & il Mastropirro Ermitage Ensemble diretto da Vincenzo Mastropirro

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domenica 30 marzo 2008

Dischi - Cantinaria (Cantinaria)

Certe volte, basta la comunicazione. Un contatto, un semplice contatto. Sufficiente per scoprire che ampliare un progetto più o meno intimamente segreto si può. Un progetto quasi inconfessabile, soltanto accarezzato dalle intenzioni. Sufficiente per armarsi e partire. In questo caso, per incidere un disco. «La Sana Records di Milano, un’associazione-etichetta impegnata da anni sul territorio nazionale nella promozione e nella sensibilizzazione di progetti emergenti nati attorno alla cultura popolare, mi contattò per una co-produzione: cioè quello che, per tanto tempo, ho cercato. A volte, invano. La proposta, peraltro, si è rivelata interessante, credo per entrambe le parti: e così è iniziato questo rapporto di collaborazione che, intanto, è un’esperienza da poter raccontare». Davide Berardi, musicista crispianese e leader indiscusso dei Cantinaria, ripercorre la gestazione dell’omonimo disco prodotto con Gianfranco Berardi e distributo da Venus, commercializzato dall’inizio di quest’anno e ampiamente divulgato dal circuito di Radio Popolare. «Le dieci tracce – continua - raccontano questi anni di crescita, di lavoro, di qualche sacrificio e, soprattutto, di vita. Dieci tracce per partire verso una nuova avventura. L’idea del disco è nata proprio dopo quel contatto stabilito con la Sama Records, mentre il gruppo di lavoro era in studio di registrazione per partorire un demo».Dieci tracce che, private di un intermezzo ironico non musicato (il “Saluto del Sindaco Ricky Mandorla”), diventano nove: tutte musicalmente ben strutturate, fresche, vivaci. Pitturate dal dialetto che si stempara nell’idioma nazionale e puntellate da testi (originali, come gli spartiti, del resto) che accerchiano temi semplici e comuni. «Mi è piaciuto parlare, innanzi tutto, di amore e di unità, ma anche di queegli aspetti quotidiani che non sempre si sviluppano come dovrebbero. “Semb Povr”, invece, è un omaggio a Matteo Salvatore». «Cantinaria», però, non è cantautorato nell’accezione classica del termine: è, piuttosto, musica popolare trasferita ai giorni nostri, trasportata da una dimensione (quella tradizionale, più ruspante) a un’altra (quella più complessa di questi anni ardui). Consapevole del mutamento delle situazioni, della mentalità, dei punti di riferimento sociali. Ma misurata con toni anche goliardici: perchè, appunto, sempre di musica popolare si tratta. «Del resto – puntaualizza Davide Berardi - è durissimo creare uno stile proprio. Perciò, nel frattempo, mi sono ispirato al cantautorato italiano, ma anche ai cantastorie pugliesi e alla tradizione popolare campana e garganica. Attingendo idealmente a Modugno, De Andrè, Sacco e Salvatore». Il progetto, dicevamo, non fiorisce all’improvviso. «Il cd, infatti, porta il nome di quello che era il nostro gruppo, alle origini. Parlo del 2002: fu allora che cominciai con i miei amici a suonare in una cantina. E, comunque, il termine è da intendersi in un duplice significato: “della cantina” e “dalla cantina”. Nel primo caso, è qualcosa che riguarda il genere; nel secondo traspare l’intenzione di ricordare da dove siamo partiti. Il sottoscritto, il batterista Cisky Chiarelli, il pianista Lorenzo Semeraro, il bassista Dany Colucci e il violinista Mimmo Quaranta. In corso di incisione dell’album, tuttavia, hanno offerto il proprio apporto anche Antonello D’Urso alla chitarra, Giancarlo Pagliara e Vito Santoro alla fisarmonica, Antonio Vinci al basso e Tanya Pugliese, che ha prestato la voce. Così come non vanno dimenticate le incursioni umoristiche di Gaetano Colella. Al di là di tutto, però, nel corso di questi anni, grazie a questa esperienza, ognuno di noi ha potuto capire la propria strada, i propri interessi, il proprio stile».

Cantinaria (Sama Records, 2008)
Davide Berardi (voce) & Cantinaria (Tanya Pugliese: voce; Lorenzo Semeraro: piano; Dany Colucci: basso; Antonio Vinci: basso; Mimmo Quaranta: violino; Antonello D’Urso: chitarra; Giancarlo Pagliara: fisarmonica; Vito Santoro: fisarmonica, Antonio Vinci basso; Cisky Chiarelli: batteria)

(pubblicato sul sito www.levignepiene.com)

giovedì 13 marzo 2008

Paola Arnesano canta Peggy

L'eleganza, il garbo e l'arte di Peggy Lee. In un disco. E' il tributo personale di Paola Arnesano a una delle voci più belle, intense e raffinate del panorama jazzistico del secolo appena fuggito. A una protagonista assoluta. A un'artista completa. E' una testimonianza che, materialmente, ancora non c'è: ma che è già stata incisa nello studio di registrazione e che verrà partorita dalla YVP, l'etichetta tedesca che, con la vocalist barese, ha consolidato nel tempo un rapporto di stima, fiducia e collaborazione proficua. In attesa del disco, però, Paola Arnesano presenta il progetto a Gioia del Colle, tra le mura della rassegna «Enarmonie», curata dall'associazione "La Fenice". Consegnandoci un live ben strutturato di un'ora e tre quarti, condotto con l'abituale personalità al fianco di un quartetto di esperienza collaudata (Guido Di Leone alla chitarra, l'olandese Barend Middelhoff al sassofono, Maurizio Quintavalle al contrabbasso, il torinese Alessandro Minetto alla batteria). Malgrado l'evidente zoppia maturata a seguito di un banale incidente domestico. Che, tuttavia, non può scalfire né l'idea (la passione di Paola per Norma Deloris Egstom detta Peggy Lee è datata, oltre che assolutamente sincera), né l'esibizione: fresca, agile, efficace, per niente didascalica. Convinta e convincente. Dove l'Arnesano attraversa per intero l'opera della cantante e della compositrice statunitense, ma anche del personaggio Peggy Lee, manager di se stessa, attenta (anzi, maniacale) nella cura del particolare, nella rincorsa alla consacrazione, nei gesti quotidiani del palcoscenico, nel perfezionamento delle movenze, della postura, della mimica. Regalandoci un concerto vivo, ricco di modulazioni della voce, di intuizioni felici. «Peggy Lee, sin da sùbito, è stata una delle interpreti che più hanno influenzato la mia vocazione musicale. Lo swing di questa donna bionda e bianca che la colloca a stretto contatto con le voci nere che hanno costruito la storia del jazz mi ha contagiato immediatamente. Il mio omaggio è sentito e doveroso. Il disco, invece, non tarderà ad essere definito». Paola Arnesano canta e rivela tutta la sua versatilità, firmando gli arrangiamenti di ogni singolo brano. Poi, il quartetto di Guido Di Leone (dal vivo, tuttavia, appare il pugliesissimo Quintavalle in luogo del contrabbassista ufficiale, Paolo Benedettini) cuce la trama, offre la sponda. Confermando le belle parole scritte, lette e ascoltate dopo la pubblicazione del primo lavoro discografico («Walking in Ahead»), al quale - proprio di questi tempi - si è aggiunto «Blue Night», secondo album uscito per l'etichetta Philology Jazz e in fase di promozione e commercializzazione. A proposito: «Blue Night» è una raccolta di nove tracce, tratte in parte dal bagaglio musicale di Wes Montgomery ("Double Deal"), Gershwin ("Fascinating Rhythm"), Karl Suessdorf ("Moonlight in Vermont"), María Grever ("Wht a Difference a Day Made") e del brasiliano Ary Barroso (la leggendaria "Bahia"), ma anche frutto della produzione personale dello stesso Guido Di Leone (la bellissima "Blue Night", "Mad Blues", "L'Ultimo Valzer" e "Another's Wonderful"). L'omaggio a Peggy Lee, peraltro, si ritaglia una finestra: tra il pubblico del Teatro Rossini c'è anche Michele Hendricks, voce black d'impatto e suggestione, ospite del quartetto per un paio di appuntamenti pugliesi. La figlia di Jon Hendricks (proprio lui, il custode del "vocalese" e vincitore di sette Grammy Award), invitata sul palco, si alza e offre momenti di scat pulitissimo e improvvisazione espressiva, duettando con Paola Arnesano. Ottima proposta. Nel segno dell'eleganza, del garbo. Nel segno dell'arte di Peggy Lee.

Paola Arnesano (voce), Guido Di Leone (chitarra), Barend Middelhoff (sassofono), Maurizio Quintavalle (contrabbasso) & Alssandro Minetto (batteria)
Gioia del Colle (BA), Teatro Rossini
Enarmonie

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

martedì 26 febbraio 2008

Dischi - Do It! (Berardi Jazz Connection)

Il progetto prosegue, si amplia. La Berardi Connection riabbraccia il sentiero discografico. La seconda pietra miliare del suo percorso è «Do It!», album licenziato dall’etichetta romana Antibes nello scorso dicembre. E, se la prima produzione («The Way I Like») del duo tarantino (Ettore Carucci al pianoforte, alla tastiera e al fender rhodes e Francesco Lomagistro alla batteria) si avvaleva dell’amichevole presenza di diversi artisti pugliesi (da Guido Di Leone ad Andrea Sabatino, da Paola Arnesano a Marco Bardoscia, da Giuseppe Bassi a Cristian Lisi), puntando sulla commistione delle atmosfere jazzistiche con quelle più latine, la seconda esperienza si affida all’apporto, in sala di registrazione, del bassista Aldo Vigorito, dei sassofonisti Max Ionata e Vincenzo Presta, del chitarrista barese Alberto Parmegiani, del percussionista Cesare Pastanella e della vocalist statunitense Wendy Lewis (eccola, da Chicago, in una rivisitazione di “Change”, dei Tears for Fears). Ma anche della confermata tromba di Sabatino e dell’interpretazione vocale della già citrata Paola Arnesano, protagonista di due delle dodici tracce complessive ("O Prazer de Ser" e "Lies" sono, peraltro, due brani di sua composizione). Dilatando, oltre tutto, il proprio orizzonte.«La caratteristica di “Do It!” – spiega Francesco Lomagistro – è, infatti, quella libertà di espressione e quell’assenza di ogni tipo di preclusione stilistica, nel rispetto dello stile che caratterizza il sound dei Berardi Jazz Connection». Un sound metropolitano sempre fresco, che non dimentica di voltarsi indietro, ma che guarda dichiaratamente avanti. Senza inventare nulla, ci mancherebbe, ma distribuendo momenti di buona musica (anzi, di buon nu jazz, oggi si dice così) e dettagli di groove pulsante. E, allora, si può transitare dal ritmo frizzante – un po’ latin, un po’ swing – di “Last Night a Cat Stopped Me”, scritta dal batterista jonico, che apre l’album, a quello più moderno di “F.D.P.” e alle sonorità più intime di “Le Sere” e “The Renegade”. “Play Kid”, poi, è una produzione personale di Ettore Carucci, mentre Lomagistro firma anche “Friendly” e “To Brian”, un omaggio a Brian Blade, esponente del nuovo batterismo jazz internazionale. “Relax”, invece, è una composizione del salentino Vincenzo Presta (che si occupa anche degli arrangiamenti dei fiati) e, infine, “The Jody Grind” è una cover tratta dal repertorio di Horace Silver.

Do It! (Antibemusic, 2007)
Berardi Jazz Connection

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)