domenica 27 luglio 2008

La world music multietnica di Sepe

Evidentemente, il movimento che gravita attorno alla canzone popolare fatica sempre più ad accontentarsi dell’antico processo di autocombustione. E sente la necessità crescente di sollecitazioni sempre più marcate. Occorre altro, cioè: l’interazione con un ventaglio ampio di culture e di soluzioni musicali, il contagio con uomini e spartiti che testimoniano esperienze differenti, ma contingenti. In una sola parola, stimoli. Stimoli nuovi, ovvio. Per questo, sembra logico parlare di tradinnovazione e, soprattutto, di mescolanza. Talvolta fascinosa, talvolta ardita. E, talvolta, un po’ sbracata. Ma la musica, si dice, deve andare. E deve entrare nella gente. Perché, poi, è la gente che la consuma. Di fatto, però, la canzone popolare si trasforma. E si sfigura, molto spesso. L’esibizione dal vivo di Daniele Sepe, nome storico dell’universo popolare in Italia, irrobustisce il concetto. Segnando una tappa in più del percorso artistico di un musicista che non ha mai lesinato approcci con realtà più o meno distanti da quella in cui ha cominciato a misurarsi trent’anni fa.
Anzi: il concerto ercolano del sassofonista campano (inserito in due distinte ma, anche in questo caso, convergenti manifestazioni: l’Adriatic International Festival, voluto dall’amministrazione provinciale di Brindisi, e la Notte Bianca, organizzata dal comune di Erchie) diventa dichiaratamente l’occasione di un incontro (o di un incrocio) di esperienze. Meglio: di una commistione di tonalità e di idee, centrifugate secondo i gusti correnti, dove i confini sonori non coincidono con quelli geografici e con quelle nuove barriere che la politica sembra voler riproporre. In piazza, Sepe condivide il palco con la Brigada Internazionale, ensemble di tredici elementi che rappresentano Paesi differenti (anche e soprattutto non comunitari: Brasile, Cuba, Argentina, Senegal, Romania, Tunisia, Bosnia, Svezia e, ovviamente, Italia), ed aree sociali e musicali di diversa estrazione. Il progetto, neanche un po’ velatamente, prova a rafforzare la speranza del dialogo interculturale e interraziale, sul quale, di questi tempi, continuano a piovere molti dubbi e troppe domande. E, parallelamente, trasportando se stesso verso una semplice e pura world music, che di popolare possiede davvero assai poco. Molto ritmo, tanta energia, fiati, voci, basso, chitarra, tastiere e una buona razione di batteria e percussioni: la frittura mista spazia immediatamente, senza regole. Scavalcando ogni recinto. Sfiorando persino la disco music, bagnandosi sostanzialmente di funky, di pop e anche di rock e svelando quasi sempre la propria anima (e la propria vocazione) commerciale.
«Voglio che questa sera vi divertiate», comunica Sepe prima di cominciare. E così sia. L’approccio è un po’ congestionato di elettronica e di timbri balcanici. Repentinamente, poi, si emigra in Sud America. E non difetta la riproposta di ritmi realmente popolari come il baião (“Asa Branca” di Luís Gonzaga, peraltro, è rivisitata con impeto rockettaro). Quindi, si rientra in Europa, prima di riattraversare l’Oceano. Sepe dirige con discrezione, ritagliandosi qualche assolo di buon pregio, ma lasciando fare. E strafare. La Brigada ricorda (e, forse, rincorre) l’Orchestra di Piazza Vittorio, la prima formazione multietnica assemblata in Italia, ripercorrendone le finalità e certe argomentazioni di fondo. Il paragone, tuttavia, regge per poco: perché, probabilmente, l’ensemble diretto da Mario Tronco sembra più rigoroso. O se preferite, meno anarchico. Nella gran quantità di note, però, qua e là emerge qualche fraseggio interessante. O la voce decisa e carica di Doris Lavín, vocalist cubana. O, ancora, la chitarra matura e il sorriso divertito di Adnan Hozic, bosniaco di Sarajevo emigrato da anni in Salento, che i più attenti ricorderanno come uno dei principali protagonisti del gruppo Opa Cupa, gestito da Cesare Dell’Anna. E, non ultime, le incursioni frequenti del batterista brasiliano Robertinho Bastos. Il pubblico, intanto, si riscalda e balla: dunque, apprezza. E’ fatta la volontà di Sepe. Ed è gratificata l’iniziativa della Notte Bianca. Così come è appagato lo sforzo organizzativo dell’Adriatic International Festival, che ha convogliato in diverse location della provincia (Selva di Fasano, San Pancrazio, Villa Castelli, Mesagne e, appunto, Erchie) proposte musicali suggestive e originali come il trio del pianista Maurice El Medioni, la voce rom di Esma Redzepova, il cantautorato a stelle e strisce di Elliot Murphy e il rockabilly delle periferie belgradesi dei Kal. E che non si dica, allora, che l’estate pugliese non racconta storie interessanti. Girando, si trova. Più o meno puntualmente.

Daniele Sepe (sassofono) & Brigada Internazionale
Erchie (BR), piazza Umberto I
Adriatic International Festival

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

venerdì 25 luglio 2008

Teresa Salgueiro, una pagina nuova

Da Lisbona alla Francia di Edith Piaf. Dal fado di Amália Rodrigues al Brasile e all’Argentina. Da Alfama all’Angola e a Capo Verde. Dal Tago all’Italia di Lucio Dalla. Dal Portogallo al Messico di Jiménez. Il mondo di Teresa Salgueiro si allarga. E sconfigge le distanze oceaniche. Non ci sono frontiere, ma solo orizzonti. E non c’è più la sua musica. Quella che l’ha proiettata, dieci anni fa, sui palchi europei. Dunque, quella che che l’ha accompagnata in un’ascesa agile, prepotente. Non c’è più la nuova canzone lusitana, accudita dalla tradizione e rivisitata dai Madredeus: che l’hanno saputa rimodellare e ridistribuire dal 1994 in poi, aggrappandosi saldamente a «Lisbon Story», la fortunatissima pellicola firmata da Wim Wenders. E non ci sono più neppure i Madredeus. Adesso (per adesso, almeno), cè la musica del mondo. C’è la musica di sempre. E, con Teresa, c’è un nuovo gruppo, sintetizzato in un quintetto d’archi affiancato da piano e percussioni.
Forse è una svolta, forse è un capriccio passeggero. Probabilmente, svicola la voglia di misurarsi. Con se stesessa e con la musica. Il mondo di Teresa Salgueiro, ora, è un repertorio che non concede troppo all’originalità (diciamo pure già largamente adoperato e facilmente apprezzabile dal grande pubblico), ma che si rivaluta con la grazia e la naturalezza, con lo charme e con la semplicità, con l’intensità e il sorriso. E, ovviamente, con la felicità di espressione. Del resto, lo spessore di Teresa è immutato. E la sua maturità artistica è assolutamente inattaccabile. E poi Teresa è bella, come sempre. Forse, anche più di prima. Ed è elegante, come sempre. Anzi, più di un tempo. Ed è raffinata, come e più che in passato. Raffinata, ma non sofisticata.. Non è un personaggio artefatto, cioè. E, magari, questo può bastare. Il resto è voce: solare, limpida, acuta, senza tempo. Che argina quella punta di delusione che avrà aggredito quanti avrebbero voluto riascoltare “Ainda”, “Céu da Mouraria” oppure “Haja O Que Houver”. E che, invece, hanno incrociato “La Vie en Rose”, “Avec le Temp”, “Caruso”, “Paloma Negra”, la piazzollana “Vuelvo al Sur”, “Leãozinho” (produzione di Caetano Veloso) e la bossanoviana “Se Todos Fossem Iguais a Você”, della “dupla” Jobim-De Moraes. Che la Salgueiro, sia detto per inciso, interpreta con regole fonetiche rigidamente brasiliane: non male, per una lisbonese. Accanto, peraltro, scivolano spartiti di gran pregio come “Estranha Forma de Vida”, vecchio successo della Rodrigues, la “Cantiga da Seifa”, antico canto popolare della Beira Alta, regione portoghese del centro nord, “Nom de Rua” oppure “La Serena”, una testimonianza del canzoniere iberico sefardita.
Il progetto (impresso, per la cronaca, anche in un disco, datato duemilasette) omaggia diverse culture artistiche e, soprattutto, cinque lingue: portoghese a parte, lo spagnolo, l’italiano, il francese e l’inglese. Il viaggio chilometrico, tuttavia, non è caotico e neppure superficiale. Curare il dettaglio è sempre operazione sana e redditizia: e Teresa e il Lusitania Ensemble spigolano tra i particolari. La qualità, si sa, sopravvive all’idea. E si esalta con gli arrangiamenti sobri, in linea con la figura di riferimento. L’accompagnamento, giudiziosamente, non è ingombrante. Il centro del palco è la voce di Teresa Salgueiro. Punto e basta. Ma non sia detto che alla piccola orchestra non venga tributato il giusto spazio: come tre pezzi interamente strumentali (uno, ad esempio, è “Casa da Mariquinha”) suggeriscono. L’atmosfera, infine, è quella più indicata per una piazza signorile come quella del Plebiscito, a Putignano, contenitore sfruttato nel miglior modo possibile (prima del concerto, eravamo sinceramente diffidenti della scelta: ci siamo ricreduti). Attorno, intanto, fluttua la voce del Portogallo di oggi e di domani, che è pure una voce della Lusitania che è stata. E, sembra di capire, anche la voce di qualche altro angolo di mondo. L’abbiamo riascoltata volentieri, Teresa. E non ci ha tradito.

Teresa Salgueiro (voce) & Lusitania Ensemble (Jorge Vergoso Gonçalves: violino; Antônio Figuereido: violino; Vensislav Grigorov: viola; Luís Claude: violoncello; Duncal Fox: contrabbasso e piano; Ruca Do Bordão: percussioni)

Putignano (BA), piazza Plebiscito
Primitivo 2008 – La Provincia dei Suoni

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

martedì 15 luglio 2008

Cinquant'anni di bossa

«Pietre Che Cantano», la rassegna più longeva e più nobile dell'estate cistranese, sembra essersi affezionata al Brasile e al suo ventaglio di soluzioni musicali. Tanto da dedicare al Paese sudamericano l'intero cartellone, per il secondo anno di sèguito. Anzi: se vogliamo, "Brazillusion '08" è l'ideale continuazione (o evoluzione) della programmazione offerta dodici mesi prima. Anche se i contenuti e, soprattutto, gli artisti chiamati a impalcare questa edizione del festival possiedono - senza dubbio alcuno - maggiore appeal e uno spessore sicuramente superiore a quello di quanti sono intervenuti nella kermesse precedente. Giusto per chiarire.
«Pietre Che Cantano» e il Brasile: oltre tutto, il feeling è saldato dal patrocinio dell'ambasciata oroverde (operazione interessante) e dalla mediapartnership assicurata da Musibrasil, il portale italiano di cultura brasiliana. Segnali inequivocabili di crescita, dunque. Valorizzati dalla prima puntata del percorso (che si chiude il sedici agosto), affidata al piano (e al gruppo) di un trentenne carioca di Parigi, svezzato sugli spartiti di Bach e cresciuto nell'atmosfera calda degli afrosamba e nel culto del jazz, sotto la guida autorevole di un maestro di chitarra e di note come Baden Powell. Philippe Baden Powell (che, del maestro, ha ereditato il cognome e persino il nome) è figlio di un artista e di una terra dai quali non si è allontanato troppo, malgrado la residenza europea. E, per questo, ha preparato un repertorio di "brasilian standards" per celebrare degnamente i cinquant'anni di militanza della bossa nova nel panorama musicale (sì, sono già cinquanta, non sembra neppure vero), ovvero il leit motiv dell'intera rassegna curata anche quest'anno da Francesco Pinto. I suoi alleati, sul palco, parlano portoghese (al basso c'è il brasiliano Natalino Neto) e francese (Damien Fleau è il sax soprano, Mathieu Gramoli è il batterista e, a metà concerto o poco prima, si aggiunge la voce di Chloé Cailleton). Ma il linguaggio musicale non si esaurisce alla bossa: innanzi tutto perchè il contributo dell'improvvisazione è di chiaro stampo jazzistico, ma anche perchè l'offerta ammara pure sullo choro di Pixinguinha, sulle sonorità djavaniane della MPB, sulla produzione colta di Egberto Gismonti ("Palhaço") oppure su quella di Moacyr Santos. Chiaro, però, che - tra una divagazione e l'altra - Philippe punti decisamente sugli afrosamba così cari al padre e allo stesso Vinícius de Moraes ("Berimbau", "Canto de Ossanha", "Canto de Xangô").
L'ora e mezza di concerto che sgorga, così, si rivela sufficientemente varia, mai ingessata, sciolta. Il live è sempre pulito, carrozzato di una propria identità: merito, evidentemente, degli arrangiamenti convincenti, intelligenti, a tratti persino ispirati. Tecnicamente, la prestazione si mantiene sempre nei binari dell'eleganza e questo appare un pregio. Pur senza esplodere, sia detto: perchè, forse, l'ultima parte dell'esibizione avrebbe meritato scelte di repertorio più robuste: particolare, tuttavia, che non sottrae troppo alla valutazione complessiva. Nella piazza vecchia di Cisternino, attraversata dai rintocchi dell'orologio, il Brasile - cioè - passa e si ferma ugualmente. E la prevedibilità di un progetto nato per riabbracciare cinquant'anni di storia va accettata. Volentieri. Le buone interpretazioni esigono rispetto e vanno sempre premiate. Con un applauso sincero.

Philippe Baden Powell (pianoforte), Chloé Cailleton (voce), Natalino Neto (basso), Damien Fleau: sax soprano) & Mathieu Gramoli (batteria)
Cisternino (BR), piazza Vittorio Emanuele
Pietre Che Cantano 2008

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

domenica 13 luglio 2008

Il segreto dei Folkabbestia

La solita storia. Di quasi lucida follia, di allegra gioventù stagionata, di mordente ironia, di becera ispirazione, di gaia circumnavigazione della musica, di misturazione spensierata, di arrangiamenti effervescenti. La solita storia dei Folkabbestia, un gruppo emergente che, nel tempo, è emerso. E che galleggia senza affanni, ovunque si trovi. Per la felicità dei fans che, attorno al palco, cantano, ballano, saltano. Senza sosta. E che ripetono versi e citazioni: quelle più graffianti e quelle simil-demenziali. Che pure possiedono la loro anima, la loro profondità, il loro senso. La solita storia. La storia di una realtà musicale profondamente pugliese: nella carta d’identità e nell’animo. La storia di un gruppo ormai (o da tempo?) di culto. Non solo dalla parti del quartiere Libertà, nella Bari in cui la band è nata e si è consolidata. Ma anche nel profondo Salento, turisticamente sempre più maturo. Davanti alla spiaggia di Lido San Giovanni, dove Gallipoli finisce e dove c’è un parco (Parco Gondar) che ospita una delle tappe del tour di presentazione dell’ultimo disco della colorita brigata. Disco che si chiama «Il segreto della Felicità» e che circola dal trenta maggio ultimo scorso. Tra cantautorato e pop, tra rock e folk. Tra sberleffi e pensieri preoccupati. E chissà cos’altro. Con la leggerezza di sempre, ci mancherebbe.
Diciamo, allora, che la storia dei Folkabbestia continua. Continua sicura. Perché continua a non prendersi troppo sul serio, forse. Oppure, perché la miscela è quella giusta: note di impatto immediato, nessuno schema predefinito, tanto ritmo e una buona dose di coscienza critica. Quella che ci spinge a incazzarci ancora, ma senza farcelo pesare troppo. Intanto, perché le note sfrecciano. E poi perché i Folkabbestia non offrono la sensazione di voler dimostrare nulla. Né inventare niente. Rimanendo, per questo, prigionieri solo del proprio temperamento e del loro istinto di menstrelli un poì bislacchi, di cantastorie dei giorni nostri ancora capaci di distribuire tra le righe qualche mesaggio. Guadagnando, dunque, in salute. E, anzi, ricevendo copioso riscontro. Praticamente in ogni situazione dal vivo. Come, appunto, quella di Gallipoli, cominciata mezz’ora dopo la mezzanotte. Tardi, molto tardi. Ma ancora presto per il popolo che, di notte, vuole vivere intensamente.
«Non su un’isola deserta. Il segreto della felicità è tra di voi», chiosa Lorenzo Mannarini, il capobanda. Può darsi. Poi sfilano le nuove composizioni, che seguono – due anni dopo – «Breve Saggio sulla Canzone Italiana», un album di cover, e «Perche», lavoro finalizzato nel 2005. Nel sestetto pesa l’assenza di Fabio Losito, motore dinamico della formazione e violinista frenetico. Con i due componenti storici (Francesco Fiore al basso e Nicola Di Liso alla batteria) ci sono però la fisarmonica del cegliese Pietro Santoro, la chitarra elettrica di Simone Martorana e la tromba di Giorgio Distante, nomade cistranese che spazia senza pentimenti dalla popolare (con il nuovo Canzoniere Grecanico Salentino, ad esempio) al jazz, dalla world music all’elettronica. Lo spirito, tuttavia, è quello di sempre. Quello della performance lombarda entrata nel guinness dei primati (trenta ore sul palco a suonare lo stesso pezzo, “Styla Lollomanna”, senza interruzioni: roba di qualche tempo addietro) o di qualsiasi altra esibizione live: dove, peraltro, non possono difettare passaggi storici del percorso musicale dei Folkabbestia quali “Il Sabato del Villaggio”, “Andersen”, “Breve Saggio Filosofico”, “Tammurriata a Mare Nero”, “Fuga in Fa” e “Potere alla Poesia”. E dove è impossibile rinunciare alle note (di nuovo attuali?) di “Alla Manifestazione” e di “Rovo d’Amore” («sull’amore bisogna dire la verità, come nel telegiornale»), al blues pugliese di “Cicce Paule ‘U Capone”, alla pizzicca rockettara di “Risveglio dall’Incanto”, oppure a “Il Sogno di Mady”, “Le Vie del Folk”, “Una Serenata Sotto la Luna”, alla gucciniana “L’Avvelenata” e, ovviamente, alla richiestissima (e acclamatissima) “U Frikkettone”. Un po’ un inno, un po’ il marchio di fabbrica. Cioè il passato, il presente e il futuro dei Folkabbestia: un po’ strafottenti, un po’ rustici, un po’ brillanti. Ma sempre molto veraci.

Folkabbestia (Lorenzo Mannarini: voce e chitarra; Simone Mmartorana: chitarra elettrica; Pietro Santoro: fisarmonica; Francesco Fiore: basso; Giorgio Distante: tromba; Nicola Di Liso: batteria)
Gallipoli (LE), Parco Gondar

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

sabato 5 luglio 2008

Le Americhe di Bari

Il vento caldo che bussa dal mare. La piazza gravida di voci incontrollate, biciclette e intemperanze urbane. Il palco incombente, ingombrante. I chioschi generosi della birra preferita dal popolo barese: quello che partecipa alle situazioni live e quello che vi struscia accanto. Tutto fa estate. E tutto fa jazz. E’ l’atmosfera caleidoscopica di “Jazz in Bari” edizione duemilaotto, un concentrato (ci esponiamo subito: artisticamente riuscito, perché frutto legittimo di scelte intelligenti, ispirate) di proposte e personaggi che ruotano attorno ad un’idea. L’idea di Roberto Ottaviano, coordinatore e responsabile musicale della kermesse più titolata tra quelle curate dall’associazione interculturale Abusuan. L’idea di associare, in un’unica soluzione, artisti abituati a governare platee internazionali e musicisti locali. Vicendevolmente attratti dal confronto e dalla necessità di esprimere la propria progettualità, come direbbe chi ama parlare bene, ma anche dalla solidità del cartellone. Perché è la programmazione, ricordiamolo ancora, che produce qualità. Ed è la qualità che richiama la nobiltà.
Progettualità, peraltro, senza limitazioni per l’estro e la sensibilità di ciascuno, senza vincoli di commistione artistica e anche di sperimentazione. Come piace ai musicofili di ultima generazione. Tutti religiosamente allineati, però, al concetto di buona musica. E, nell’occasione, aggrappati ad un filo conduttore che prevede ramificazioni infinite: l’America. Anzi, le Americhe. Tutte le Americhe: quella dell’estremo nord e quella del meridione, quella latina e quella di cultura anglosassone. «Looking for Americas», come sottolinea orgogliosamente Ottaviano, è cioè un profilo itinerante di una rassegna (la quarta del cammino) dichiaratamente impegnata a «contemplare diversi stilli musicali, capaci al contempo di mantenere saldo il legame con la tradizione, provando tuttavia a elaborare la creatività in tempo reale». E che, dal primo al quattro luglio, ha distribuito tra piazza Mercantile (sede principale) e la Terrazza del Fortino di Sant’Antonio (sede sfortunata) tre momenti dal vivo differenti, ogni giorno. In attesa dell’ultimo appuntamento (l’unico a pagamento), quello del sedici del mese, all’Arena della Vittoria, location prescelta per le acrobazie vocali del newyorkese Bobby McFerrin.
Tanta musica, dunque. Ma anche un assortimento oculato dei concerti, volutamente indirizzati a premiare una varietà sufficientemente corposa di orientamenti sonori. Come testimoniano, ad esempio, l’esplosività molto blues e il vivace impatto sonoro degli Hazmat Modine (due armoniche, una voce ribelle, una tuba, una chitarra e un basso rockettari, una batteria che spinge e sfonda, due fiati), oppure le fantasie free dell’Italian Instabile Orchestra, generata esattamente diciotto anni addietro dal Noci Jazz Festival e tornata a riunirsi per rileggere alcuni classici, ma anche per ricordare Mario Schiano, effettivo dell’ensemble recentemente scomparso («e questa – assicura Ottaviano – è un’operazione eroica, perché è eroico raccogliere musicisti tradizionalmente attratti dalla rilettura critica che, tuttavia, mantengono un rapporto intenso con l’eredità afroamericana: e, forse, è un motivo per il quale, dalle nostre parti, si esibiscono solo saltuariamente»). Orientamenti sonori, altrimenti, molto vicini al pensiero musicale di Django Reinhardt (è il caso del live del trio Nicolescu-Escoudé-Marcoz, animato da un tessuto armonico raffinato e sostanzioso, come dal rigore della tecnica interpretativa), oppure all’anarchia delle note sposata dalla vibrante e ambiziosa Cosmic Band di Gianluca Putrella. Oppure, ancora, pronti ad esplorare un pianismo raffinato, dove vivacità e improvvisazione sono ingredienti irrinunciabili, come racconta il trio formato da Kenny Barron, dal contrabbassista Hiroshi Kitagawa e dal batterista Francisco Mela (a proposito: meraviglioso per pulizia, vitalità e quantità di sensazioni regalate senza picchiare sui piatti e sui tamburi). E, attorno, ecco anche le percussioni canadesi di Merlin Ettore e Joannie Label; l’incontro tra i sassofoni del torinese Emanuele Cisi e un trio profondamente pugliese (Maurizio Quintavalle al contrabbasso, Mirko Signorile al piano, Mimmo Campanale alla batteria) per la presentazione di «It’s Time to Make a Change», lavoro discografico di imminente commercializzazione; la performance (tecnicamente ineccepibile, ma forse un po’ fredda: è un’opinione) del Jed Levy Quartet, che presenta un repertorio originale ispirato alle sensazioni e alle memorie tratte da un percorso consumato in varie città d’Italia, e infine l’omaggio a Don Cherry realizzato dalla band di Karl Berger (al piano e al vibrafono), dove brilla la voce delicata di Ingrid Sertso.
«Looking For Americas», allora, è un po’ la riscoperta delle Americhe, inquadrata da diverse direzioni musicali. Le Americhe guardate con gli occhi di è convinto che il già ascoltato può rigenerarsi, ridistribuirsi, destrutturarsi e ricomporsi, con venature armoniche insospettate o insospettabili. Con sapori persino speziati. Con umori (e umoralità?) diverse. Le Americhe solcate da linee immaginarie, le Americhe di suoni e di storie: che, fortunatamente per noi, posso gravitare su una piazza, nel mezzo di un’estate calda, di un caldo nitidamente pugliese. Tra una birra e il vociare sgraziato dei giovanissimi della città vecchia, irrefrenabili e irrefrenati. Oppure al Fortino, nel punto più alto delle vecchie mura di Bari, dove lo spazio dell’after hour scompare quasi all’improvviso e dove il ciclo dei live affidati al trio di Guido Di Leone viene privato del suo orario ufficiale di avvio (la mezz’ora alla mezzanotte), anticipato (alle ventidue e quindici, come qualsiasi altro concerto in qualsiasi città, esattamente contemporaneo ai live programmati in piazza Mercantile) e, perciò, delegittimato. Non da chi l’after hour l’ha ideato, ma da chi ha affiancato la manifestazione con il proprio patrocinio e il proprio contributo economico, cioè l’amministrazione comunale. E non per scarsa sensibilità, ma per ragioni di queta sopravvivenza: con i residenti e con le forze dell’ordine. Polizia municipale compresa: che, si dice, avrebbe multato “Bari in Jazz” per l’attardarsi delle note, già nella prima serata. Colpendo, dunque, la stessa autorità comunale, a cui fa capo. Quell’autorità comunale titolare della co-produzione della quattrogiorni (il cui programma era noto da diverse settimane) e che, pertanto, avrebbe dovuto garantirne l’iter burocratico. In una città che, come puntualizza il direttore artistico della rassegna, «non solo ospita, ma produce jazz». Cose mai viste. E mai sentite.

Bari in Jazz 2008
Bari, piazza Mercantile e Terrazza del Fortino di Sant’Antonio
dal 01.07.08 al 04.07.08

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)