martedì 17 marzo 2009

Non solo tango

Il nome della formazione (Tangaria) non inganni. Non c’è solo tango, dietro le note del quartetto di Richard Galliano, il francese di sangue italiano che – già da qualche tempo – si trascina il peso dell’eredità artistica di Astor Piazzolla. O che, se non altro, si lascia inseguire dall’ombra del mito del maestro di Baires: malgrado si schermisca, preferendo rifuggiarsi nella più comoda ansa della modestia. No, non c’è solo tango: certo, il tango appare, allieta e poi svicola veloce. Aprendo spazio, invece, a molta produzione propria, a qualche sprazzo di jazz e anche a una veloce conversione sull’altra faccia del Sudamerica: il Brasile di Asa Branca e di Luís Gonzaga, ad esempio. Tangaria è una formazione che riunisce individualità ed esperienze diverse, convogliate nell’unica direzione dell’eleganza interpretativa e saldamente ancorate allo charme e alle virtù del suo leader. E il tango è solo una della sue anime. Anche se, ad un certo momento, dalla platea del Teatro Orfeo di Taranto, il pubblico chiede (ed ottiene, per qualche secondo: Galliano è un professionista cortese, dentro e fuori dal palco) l’esecuzione della popolarissima Cumparsita, dichiaratamente avulsa dal contesto del repertorio e dalle linee del progetto. Ma tant’è.
Richard Galliano, Sebastian Surel (violino), Philippe Aerts (contrabbasso) e Rafael Mejías (percussioni) , ovvero la line-up su cui punta l’ennesimo appuntamento del cartellone approntato dagli Amici della Musica di Terra Jonica, confezionano un live leggero e sinuoso, rotondo e – non sembri una contraddizione – anche essenziale. Malgrado emergano alcuni inconvenienti (il contrabbasso, talvolta, non segue l’accordeon) e nonostante Galliano non si sforzi per mascherare i disagi impartiti dall’acustica. «Abbiamo viaggiato tanto, negli ultimi giorni. Troppi aerei: e, per chi deve esibirsi su un palco, non è il massimo. Poi, questa di Taranto è stata una serata difficile, proprio dal punto di vista dell’acustica. Del resto, le vibrazioni sono fondamentali, come l’interazione con il pubblico. Ma, alla fine, i problemi si superano ugualmente: conta l’universalità del linguaggio, no? E poi ogni concerto è diverso dall’altro. Per fortuna». Sicuro, maestro. Come è vero che conta la progettualità. «Chiaro. La progettualità deve combinare ed amalgamare i protagonisti. Prendete il nostro caso: il contrabbassista arriva dal jazz, il violinista si poggia su solide basi classiche, il percussionista è un venezuelano naturalmente forgiato dai colori e dagli umori della musica della propria terra. Ogni artista di questa formazione, dunque, ha portato qualcosa di sé: e il risultato è una sonorità che varca il confine degli stili. E, comunque, la vità è una collezione di progetti. E io, noi, di progetti ne abbiamo ancora tanti, davanti.».
Non solo tango, dicevamo. Anzi, molto altro: al di là del tango. Ma il tango è arte ed è anche magia. Galliano, senza accompagnamento, dedica alla gente il brano che non può (e che non deve) mancare. Quello che la gente si aspetta, Libertango. E Libertango significa Piazzolla. Maestro, non possiamo deviare. Ci tocca parlarne. E sappiamo anche che è consapevole di doverne necessariamente parlare. «Io erede di Piazzolla? Queste sono cose da giornalisti. Guardi, Piazzolla è, in realtà, il punto di riferimento per chi, come me e come tanti altri, coltiva la passione per la fisarmonica. Siamo tutti eredi di Piazzolla, questa è la verità. Ovvio, per me Piazzolla è stata la guida. Ed è stato un amico, innanzi tutto. Gli devo molto. E molti gli devono qualcosa». Anche noi, intanto, dobbiamo qualcosa a Richard Galliano: per un’ora e venti minuti di musica impregnata di buone idee e di garbo. E non solo di tango, transitato lieve. Senza scalfire, però, le emozioni. Quelle hanno diritto di cittadinanza, sempre e comunque. Al di là della magia del tango: Piazzolla capirebbe.

Tangaria Quartet (Richard Galliano: accordeon e accordina; Sebastian Surel: violino; Philippe Aerts: contrabbasso; Rafael Mejías: percussioni)
Taranto, Teatro Orfeo
65ma Stagione Concertistica dell’Associazione “Amici della Musica Arcangelo Speranza”

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

mercoledì 11 marzo 2009

Fiorella non tradisce mai

Intendiamoci: Il Movimento del Dare non è, complessivamente (e, ribadiamo, complessivamente) il disco più profondo di Fiorella Mannoia. E neppure il meglio riuscito. O il più originale. Ed è anche il meno intellettuale, nell’accezione più ampia del termine. Malgrado almeno un paio di tracce di sicuro livello. Probabilmente, l’ultimo album, sul mercato discografico dal novembre dell’anno trascorso, non occuperà un posto nella storia della cantante romana. Né nell’ideale raccolta preferita dei suoi sostenitori più affezionati. Magari perché non è poi così scontato confermare puntualmente lo spessore qualitativo della produzione. O forse perché, dentro Il Movimento del Dare c’è abbastanza (o molto) pop: che segna una soluzione di continuità dall’impronta cantautoriale degli album precedenti. Attorno ai quali, appunto, si forgia la storia della Mannoia.
Però, Fiorella è ancora Fiorella. E la sua musica, al di là delle modalità, è sempre impregnata di qualità: interpretativa, quando non anche compositiva. E poi Fiorella non tradisce mai: perché tutto, dal suo microfono, prima o poi finisce per convincere. Sarà per la sua grazia naturale. O per la passione dell’impegno: professionale e sociale. O per l’intensità di quello che canta. O che racconta. Per l’arte di comunicare. E per la semplicità con cui cuce il rapporto: con la platea, con la musica, con le storie di vita quotidiana. Tranquilli: non è un passato (prossimo e remoto) baciato dal successo e il fascino intatto di quest’eterna ragazza a condizionare il pensiero. E non è vero neppure che Fiorella Mannoia debba necessariamente godere di immunità illimitata. Quello che interpreta, però, si valuta puntualmente. Anzi, si ipervaluta. E quel che potrebbe diventare, diventa. Sempre. Fiorella è come un fiume, che lava tutti i dubbi, se i dubbi affiorano.
Il Movimento del Dare, però, è un disco che si fa notare. Dicevamo della svolta in chiave pop. Ma c’è pure dell’altro: innanzi tutto, firma il ritorno di Fiorella all’esecuzione di tracce (dieci, per la precisione) inedite. Dopo sette anni, consumati a riproporre vecchie situazioni dal vivo oppure, come accaduto più recentemente, belle pagine di musica sudamericana, opportunamente tradotte e riarrangiate. Di più: l’ultima fatica discografica consegna una Mannoia che offre la voce a testi di autori mai interpretati, sin qui. Come Ligabue, che in tempi non troppo lontani aveva dedicato il proprio tempo ad un cantautore di culto e di lunga militanza qual è Guccini. Oppure come Bungaro e Tiziano Ferro. Riproponendo, nel contempo, spartiti di vecchi amici come Ivano Fossati e Pino Daniele: diventando un trait-d’union tra ciò che è stato, quel che è e ciò che, un giorno, potrà essere.
L’album , allora, merita un tour: che pasa anche dal Teatro Nuovo di Martina. Dove lei – ci mancherebbe – non evita di accedere corposamente al suo repertorio più celebrato, destinandogli – anzi – un taglio alto. In vestito bianco, a coda, apre con la realistica Io Posso Dire la Mia Sugli Uomini, di Ligabue, che poi è il motivo che inaugura il nuovo disco. Sùbito dopo, però, è il tempo di Mimosa, di Nicolò Fabi («Non la cantavo da un po’ di anni», dice), di Sally, della delicata e fossatiana C’è Tempo, di Come Si Cambia e di E Penso a Te, omaggio vibrante a Lucio Battisti («Ho deciso di mettere a dura prova le emozioni», fa sapere). E’ scalza, Fiorella: alla maniera di Cesária Evora. O, se volete, di Maria Bethania. Fino a Che Non Finisce, di Bungaro, Il Movimento del Dare (di Franco Battiato e Mario Sgalambro) e Il Sogno di Alì, di Piero Fabrizi, arrivano appena più tardi, a chiusura della prima parte del concerto, in cui arrangiamenti ed atmosfera sono assolutamente curati, sobri, eleganti. E in cui emerge ostinata la forza di porsi ancora delle domande: «Mi chiedo se questo è il progresso e se questo è il mondo che volevamo, dove il silenzio e l’indifferenza uccidono due volte».
La seconda parte è più informale. Fiorella passa dal bianco al nero, dai pieni nudi agli stivali scamosciati. L’approccio di Oh Che Sarà è esclusivamente vocale. Poi, un vecchio rap impegnato di Jovanotti (Occhio Non Vede, Cuore Non Duole) chiede un’introduzione accorata («Viviamo in una bolla di rassegnazione e la sensazione è che i giochi siano già stati fatti, e la politica c’entra relativamente. C’è un disegno che ci vuole rassegnati: ma chi è questo nemico planetario, chi c’è dietro questa crisi globale, chi la manovra, chi ci guadagna?». La Bella Strada di Fossati e Il Re di Chi Ama Troppo di Ferro riconducono al disco da presentare; Giovanna D’Arco di De Gregori, Il Cielo d’Irlanda, I Treni a Vapore e Il Tempo Non Torna Più sono tributi al passato. Fiorella non dimentica nappure De Andrè, a dieci anni dalla scomparsa dell’auore genovese. E, infine, chiude «con quella che è la Canzone», cioè Quello Che le Donne Non Dicono, incalzata da una Buontempo in versione latin e da Clandestino di Manu Chao, interpretata anche in platea, a contatto con il pubblico. La Mannoia è tornata. Con un disco nuovo e l’intensità dei giorni più belli. Fiorella è ancora e sempre Fiorella. E non tradisce mai.

Fiorella Mannoia (voce e percussioni), con Fabrizio Leo (chitarre), Roberto Gallinelli (basso), Luca Scarpa (pianoforte), Bruno Giordano (tastiere e sassofoni), Marco Brioschi (tromba e flicorno), Lele Melotti (batteria) e Carlo Di Francesco (percussioni)
Martina Franca (TA), Cineteatro Nuovo

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

mercoledì 4 marzo 2009

Una di quelle strane occasioni

La musica senza recinti è una miscela senza schemi. E quello che esce è una situazione di frontiera: tra gli stili, i patrimoni musicali di ciascuno e la fantasia che li sorregge. Che può adombrare i puristi dei generi, oppure solleticare il pubblico. Forse solo perché il già sentito e il già visto sono negli archivi mnemonici: e l’aria nuova stimola sempre. Oppure perché la commistione, se suffragata da un progetto fondato e convincente nella sostanza, sa inevitabilmente regalare qualche emozione. Questa volta interagiscono la tradizione delle bande dell’area balcanica (ormai largamente gradita, nelle platee del Paese: e le esperienze recenti di Goran Bregovic e della sua originalissima formazione incoraggiano le proposte), il flusso delle tonalità di matrice popolare e, ovviamente, l’inventiva personale, cioè le intuizioni di interpreti ormai abituati al palco e alle evoluzioni sonore. Per i quali, oltre tutto, parla saggiamente il curriculum. O, se preferite, le storie pregresse. Questa volta viaggiano assieme la Koçani Orkestar, ensemble macedone che calca i palcoscenici italiani con regolarità da qualche tempo, il trombettista Paolo Fresu (musicista di culto che può permettersi di esplorare nuovi spazi e allacciare nuove alleanze e che, soprattutto, non fallisce mai un progetto) e Antonello Salis, animo libero che recentemen te abbiamo ascoltato a Latiano, da solo, e nella circostanza debilitato da un malanno muscolare. Quindi, privato di parecchia verve, ma non per questo meno incisivo. Tutti assieme, appassionatamente, all’Orfeo di Taranto, in uno degli appuntamenti firmati dall’Associazione Amici della Musica “Arcangelo Speranza”, alla sua sessantacinquesima rassegna.
L’evoluzione dell’esibizione sembra non possedere regole, né conoscere barriere. Il tessuto sonoro fluttua tra l’etnico e il jazz, tra il popolare e la musica contemporanea dettata dal pianoforte di Salis, i cui arrangiamenti curano atmosfere più dettagliate. Fresu è un incursore spigliato che s’insinuia nell’improvvisazione globale. E gli undici elementi della Koçani Orkestar (molto maturati, con il tempo) si agitano versatili tra melodie della tradizione balcanica e composizioni più occidentali (apprezzabilissima, tra le altre, la versione de «Il Bombarolo», uno degli spartiti del De Andrè più impegnato, agli inizio degli anni settanta). «Non solo – aggiunge Paolo Fresu -. Personalmente, mi sono accorto delle affinità che collegano certe tematiche dell’est alla musica popolare della mia regione, la Sardegna. E, allora, ci siamo divertiti a scoprire come due mondi apparentemente così diversi siano in realtà molto più prossimi di quanto si possa supporre. Proprio perché è la musica ad avvicinarli. Per esempio, in questa breve viaggio attrraverso l’Italia, maturato a Milano, Bologna e Taranto, abbiamo riproposto un antico ballo sardo, opportunamente riarrangiato. Divagando anche oltre». Per quasi due ore, frizzanti e toniche. «E malgrado l’insolita tranquillità di Antonello. Mai visto, così – spiega Fresu - . Conseguenza di un colpo duro avvertito ventiquattr’ore prima. Problemi di stagione, càpitano». Anche per questo, dopo il concerto, insolita deviazione per l’albergo. E neppure un calice di rosso robusto, per sigillare la serata. E una di quelle strane occasioni. «E sì, cose che càpitano». Ma che non intaccano l’atmosfera di festa, proseguita per un quarto d’ora abbondante, a live già ufficialmente concluso. In mezzo alla gente, dove la Koçani ha sfilato, suonando ancora. Per ringraziare. E per recuperare gli ultimi applausi. Ampiamente guadagnati.

Paolo Fresu (tromba e flicorno), Antonello Salis (pianoforte) & Koçani Orkestar (Ajnur Azizov: voce; Suad Asanov: basso tuba; Redzai Durmisev: tuba baritono; Sukri Zejnelov: tuba baritono; Nijazi Alimov: tuba baritono; Dzeladin Demirov: clarinetto; Durak Demirov: sassofono; Turan Gaberov: tromba; Sukri Kadriev: tromba; Vinko Stefanov: fisarmonica; Saban Jasarov: tapan)
Taranto, Teatro Orfeo
65ma Stagione Concertistica dell’Associazione Amici della Musica “Arcangelo Speranza”

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)