mercoledì 29 luglio 2009

Ricordi senza frontiere

Concierto Intimo. Concerto sulle tracce del Sudamerica. Il Sudamerica quasi arcaico. Ma anche il Sudamerica dei giorni appena passati: giorni di lotta dura e di sangue, soprattutto. Giorni vissuti intensamente, nel terrore e nella speranza. E, infine, nel Sudamerica di sempre: che ha rivendicato terra e libertà, oppure la semplice dignità nazionale. E che ancora rivendica: una visibilità vera, un posto al tavolo della concertazione globale. Concierto Intimo. Ma intimo perché? Perché, se poi gli spartiti dirottano verso il Messsico e verso Cuba, affettivimante vicini, ma geograficamente più distanti? E se poi la musica plana sulle coste dell’Europa? Concierto Intimo, allora, è davvero un modo per seminascondere la matrice di un’idea? Quella, cioè, di ripercorrere gli anni più avvelenati e il percorso più faticoso ed esaltante degli Inti Illimani, gruppo di culto di una generazione intera e simbolo tra i simboli di un’epoca? Sì, verrebbe da dire di sì. Perché, sul palco delle Cave di Fantiano, a Grottaglie, singolare teatro all’aperto recentemente recuperato (concerti o no, è consigliabile la visita) e scelto dalla locale amministrazione comunale per accogliere le tre date della rassegna Musica Mundi, con gli Acanto – formazione italianissima – ci sono il chitarrista cileno Raul Céspedes e, innanzi tutto, Max Berrú Carrión, uno dei fondatori di quella formazione ormai transitata nella leggenda della musica del secolo passato. Del resto, quelle prime quattro lettere di Intimo, coincidono perfettamente con le prime quattro di quella parola un po’ magica, Inti Illimani. Utili, chissà, a risvegliare gli animi di certi nostalgici che ancora possiedono la forza di muoversi, riunirsi ed ascoltare. E sperare, perché no. Adesso più di prima: proprio quando gli Inti Illimani – l’ensemble che continua a trascinarsi il nome del progetto originario e il senso della storia - hanno già inaugurato un percorso differente. O meglio: più vicino alle origini, ovvero alla musica popolare latinoamericana. Con una produzione nuova, sgravata da certe ombre di avant’ieri.
Intimo ed Inti Illimani: ecco, sembra tutto chiaro. Eppure, Concierto Intimo sembra solo gravitare attorno agli Inti Illimani e a quelle ombre di avant’ieri. E’ vero, c’è il pretesto: Max Berrú, appunto. E c’è anche un certo prurito, perché negarlo. Anche perché molta di quella gente seduta in platea non attende che certe quarantennali note. Quelle note di un’epoca. Di una generazione. Ma Concierto Intimo cerca di scavalcare la barriera. Di sganciarsi da quella palpabile sensazione di attesa. Da quel marchio di fabbrica che, consapevolmente oppure no, si è incollato addosso. Ecco perché l’approccio dell’esibizione circumnaviga i titoli delle canzoni più amate. E la scaletta viaggia, come si diceva, dal Messico di “Nuestro México Feverero ‘23”, un inno che celebra la vittora di Panza sulle forze statunitensi e una storia cancellata dalla storia, e di “La Petenera” ai ritmi caraibici come la sfruttatissima “Guantanamera”; dalle composizioni dell’indimenticabile Victor Jara al duplice ed apprezzabile omaggio (la felicissima versione di “Dolcenera” e “Andrea”) a Fabrizio De Andrè; dalla rivisitazione molto rispettosa di “Pe’ Dispietto”, della Nuova Compagnia di Canto Popolare, alla riscoperta di motivi colombiani e peruviani. Lasciando, peraltro, lo spazio per un brano originale, “Apeninas” di Giancarlo Odoardi, pluristrumentista di lunga navigazione, e per le intillimaniane “Rin del Angelito” (atto dovuto alle qualità compositive di Violeta Parra), “Simón Bolívar” e “Alturas”. Come a dire: ritroviamo lo spirito di quegli anni, di quel gruppo, di quegli Inti Illimani. Ma sappiamo fare anche altro. E cerchiamo di abbracciare la terra latinoamericana per intera. Anzi, il mondo. Intimo sì: ma il Concierto azzera le frontiere e respira profondamente.
«Vengo dal Cile e porto il saluto dei cileni e della democrazia, faticosamente riconquistata», dice Max Berrú. «Quella democrazia che si è allargata in tutto il continente». E’ l’unico tributo del leader al ricordo. Prima e dopo, solo note ricostruite con maniacale fedeltà (talvolta, sembra di riascoltare i vecchi vinili) e un’ambientazione curata nei particolari. Gli Acanto, i sei componenti della formazione che accompagna i guest Céspedes e Berrú, ruotano attorno agli strumenti e si esprimono in uno spagnolo convincente: merce rara, in tempi di globalizzazione spicciola e di superficialità sovrana. Alla fine, però, devono pur cedere alle pressioni del pubblico che aspetta e che ancora non si è completamente riscaldato. Dopo gli applausi di fine concerto, arrivano i bis, come un treno. Il treno del passato, mai dimenticato. “Fiesta de San Benito”, “Canción del Poder Popular” e “El Pueblo Unido Jamás Será Vencido”: sì, ci siamo. Siamo al punto in cui saremmo dovuti arrivare. In cui sapevamo di dover arrivare. Parte, timidamente, anche il pugno sinistro di Max Berrú e qualcuno chiede – inutilmente – gli accordi immortali di “Hasta Siempre, Comandante”. Sarà per un’altra volta, magari. L’atmosfera si è infervorata, proprio sui titoli di coda. Ma la gente defluisce contenta. Soddisfatta da due ore lontane dagli schemi. E appagata: in fondo, molti erano lì per un solo motivo.

Max Berrú Carrión (voce e congas), Raul Céspedes (chitarre) & Acanto (Riccardo Iacobone: voce e chitarra; Pietro D’Antonio: flauto, chitarre e voce; Giancarlo Odoardi: chitarra, fisarmonica e percussioni e voce; Normando Marcolongo: basso, contrabbasso e voce; Giuliano Angelozzi: flauti, chitarre, percussioni e voce; Luca Bellisario: batteria, percusioni e voce) in “Concierto INTImo”

Grottaglie (TA), Cave di Fantiano
Musica Mundi 2009

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

domenica 26 luglio 2009

Joana, fadista di impronta antica

Tra il concetto di contaminazione e l’allargamento della prospettiva della world music, che sviluppano gli orizzonti e confondono le tracce, Joana Amendoeira è il nuovo che avanza, ma senza scavalcare. Joana Amendoeira è giovane e già ben inserita nella realtà del suo paese, il Portogallo. Ma il suo fado è l’ideale continuazione di quel vecchio percorso tracciato da Amália Rodrigues (ma non solo da Amália Rodrigues, sia chiaro) e battuto da Maria da Fé, Beatriz Da Conceição, Anabela, Dulce Pontes o Margarida Bessa. Il fado di Joana Amendoeira, cioè, è il nuovo vecchio fado. Non quello che prova ad arruffianarsi la simpatia di un pubblico più eterogeneo e anche più giovane, dentro e soprattutto al di fuori dell’universo lusitano. Non proprio quello ipotizzato, ad inizio di carriera, dalla meravigliosa Teresa Salgueiro, con i Madredeus. Ma quello più vicino all’anima popolare di Alfama, il quartiere di Lisbona dove il fado è nato. E cresciuto. E dove ancora vive, seminascosto alle ondate di turisti. Oppure quello che resiste in certi angoli della Lapa.
Il fado di Joana è quello tradizionale. E’ quello classico. Quello speziato dagli aromi di una terra unica, affiscinante. E di una città, Lisbona, attorno alla quale il fado si tempera e prende sostanza. Una città che non è la sua: perché Joana arriva dall’interno, cioè da Santarém, caposaldo della Reconquista portoghese. Lisbona che, appunto, nel fado si muove con pieno diritto di cittadinanza, senza uscirne mai. Il fado di Joana è il rispetto pieno del passato. Anche se, delle fadiste di un tempo, non possiede la teatralità marcata. Questa ragazza (ventisette anni a settembre) possiede però molta naturalezza. Unita all’ammirazione sincera per la musica che interpreta: «Questa è un’espressione artistica fortemente portoghese. Il fado canta la vita e le storie della vita. E aiuta la gente a ricordare le storie della propria vita».
Non è alta, Joana. Ma occupa il palcoscenico ugualmente. I musicisti al seguito si armano della sobrietà che il fado pretende. Pedro Amendoeira, che della cantora è anche fratello, imbraccia la chitarra portoghese e firma pure un brano in scaletta: perché inseguire la tradizione non significa precludersi la possibilità di creare nuove composizioni. Pedro Pinhal è il padrone della chitarra acustica, Paulo Paz supporta con il basso acustico. Il primo passo è un ricordo doveroso di Amália Rodrigues: e, dunque, l’esecuzione di uno dei suoi successi, “Estranha Forma de Vida”. E un omaggio al passato sono anche “Madrugada de Alfama”, “Aquela Rua”, “Se Eu Adivinhasse o Que Senti”, “Naufrágio”, “Barco Negro”, “O Fado de Outrora”. “Sopra o Vento” è, invece, la musicalizzazione di una composizione di Fernando Pessoa, così come “Viana” è il tributo all’omonima città del Minho, nel nord del Portogallo. La produzione più recente si sintetizza in tre canzoni, una delle quali è la delicata “Lisboa, Amor e Saudade”, titolo un po’ scontato che perrò accorre a rinsaldare il rapporto con la tradizione. Tradizione a cui - va detto per inciso - l’Adriatic International Festival, contenitore intelligente di musiche attinte da diverse culture, del quale il live è parte integrante (anzi, è l’appuntamento che chiude il ciclo di quattro incontri, smistato in altrettante location della provincia di Brindisi), si ispira dichiaratamente. Come i precedenti incontri con la musica irlandese dei Kila (alla Selva di Fasano), la banda di cornamuse palestinesi Guirab (a Brindisi) e il klezmer degli Amsterdam (a Sandonaci) si sono permessi di sottolineare.
«Non parlo bene la vostra lingua»: Joana si schermisce. Ma il linguaggio del fado è assolutamente diretto. Universale, a dispetto del Paese da cui proviene: nostalgico, appartato e, da sempre, abbastanza impermeabile agli impulsi che arrivano dall’esterno. La voce di Santarém, anzi, si fa intendere. E, alla fine, sorprende la platea salutandola con un brano in più che discreto italiano, “Canzone Per Te” di Sergio Endrigo, che l’autore istriano condusse a Sanremo sul finire degli anni sessanta, al fianco di un brasiliano, il giovane Roberto Carlos. Tempi andati, certo. E che ritornano, magari solo per un attimo. Tra le contaminazioni che si incrociano, certe volte, può accadere.

Joana Amendoeira (voce), Pedro Pinhal (chitarra acustica), Pedro Amendoeira (chitarra portoghese), Paulo Paz (basso acustico)
Cisternino (BR), piazza Vittorio Emanuele
Adriatic International Festival 2009

(pubblicato sul sito www.levignepiene.com)

mercoledì 15 luglio 2009

L'anima latina di Mordente

Caetano Veloso, ormai, è un riferimento musicale un po’ abusato. Merito dell’avvenuta internazionalizzazione dell’artista e, soprattutto, di un linguaggio sonoro ampiamente digeribile: negli States e, ovviamente, anche in Europa. Perché la moda e la globalizzazione, da sempre, passano prima da quelle contrade e, succesivamente, da queste parti. Di più: le sonorità e, più in generale, il songbook di uno dei padri del Tropicalismo (con lui Gilberto Gil, Torquato Neto e qualcun altro) posono essere tranquillamente riconvertiti ad un pubblico eterogeneo. Senza avvertire imbarazzo o il pericolo di fallire l’approccio con la platea. E un interprete – un interprete brasiliano che vive in Italia – queste cose le sa. Le sa bene. Le composizioni del cantautore baiano, del resto, erano e rimangono assai stimolanti: anche e soprattutto per un artista sudamericano che si appropria del piacere di omaggiarne il percorso artistico.
Rosa Emília, pure lei baiana ma residente a Venezia, voce dal pedigrée già ben definito e assai apprezzata dagli appassionati del genere di casa nostra, sceglie così un itinerario sicuro, garantito all’origine. E, al secondo appuntamento di Jazz à la Cruz, intinge la propria esibizione in una quindicina di pezzi più o meno conosciuti al grande pubblico. Rivestendoli con versioni sufficientemente fedeli, eppure personalizzate. “O Samba e o Tango”, “Cajuína”, “Sampa”, “Qualquer Coisa”, “Trilhos Urbanos”, “Trem das Cores”, “Eclipse Oculto” e qualche altro titolo saccheggiano qua e là una carriera ormai quarantennale, senza seguire un disegno prestabilito. Né un percorso temporale. Rosa Emília canta quel che le va, puntando ai successi universalmente accreditati. E, generalmente, scegliendo testi gravidi di charme e, talvolta, socialmente robusti (come “Recado”, tratto dall’album Fine Estampa, rivisatazione velosiana di una composizione in lingua spagnola degli anni venti, o come “Haiti”).
«Caetano – spiega Rosa Emília – non ha mai nascosto di cogliere le sfumature culturali e sociali del proprio Paese, disegnandosi un percorso eclettico. Per questo è, in Brasile, tra gli autori più amati. Per questo mi piace riproporlo». In Puglia («qui sembra di essere più vicini alla mia terra: è una questione di colori, è una questione di luce. Sì, questa luce mi ricorda un po’ il Brasile», dice) si fa accompagnare da una formazione indigena (il batterista Accardi, padrone di casa; il contrabbassista Vendola, il chitarrista De Giosa e il pianista Andrioli, rientrato temporaneamente da Bruxelles) che, con ironia e persino un po’ di orgoglio, si è autoribattezzata Caetanear (testualmente, significa “caetanizzare”, termine storicizzato da “Siná”, fortunatissima composizione di Djavan, tradotta anche in inglese dai Manhattan Transfert negli anni ottanta). E, ovviamente, di fronte a quattro jazzisti, gli spartiti oroverde finiscono per impastarsi di jazz. Poco male. Anzi, bene. Del resto, Caetano è personaggio assai duttile, assai attratto dalla contaminazione. Come duttile è la voce di Rosa Emília, che sa enfatizzare i dettagli e giocare sugli accordi, dedicandosi un’interpretazione libera da ogni vincolo di imitazione. Anche quando chiude il concerto, prima del bis, abbandonandosi alle note di un’altra composizione di lingua spagnola, quella “Cucurucucu Paloma” recentemente impiegata (e, dunque rivalutata) da Almodóvar come colonna sonora di una sua pellicola.
A proposito di lingua spagnola. A proposito di donne. E a proposito di Jazz à la Cruz, la rassegna creata dall’Associazione “Mordente” che possiede una breve ramificazione, cioè Jazz à la Vedette (cambia la location e pure la città: da Polignano si passa temporaneamente a Giovinazzo). Appena tre giorni dopo scende in Terra di Bari Eva Cortés, honduregna di nascita, sivigliana di cuore e madrilena di residenza, punto di riferimento di un quartetto che si avvale del contributo del pianista Remi De Cormeille, del contrabbassista aragonese Tonio Miguel e del già citato Fabio Accardi. Esile, garbata e profondamente castigliana nella pronuncia, la ragazza ama la Francia e apre un paio di parentesi sulla canzone francese, ma fondamentalmente presenta il suo secondo lavoro discografico, “Como el Agua Entre los Dedos” (“Come l’Acqua tra le Dita”). Album, questo, dalle sonorità calde: che l’esibizione dal vivo, di gusto dichiaratamente jazzistico (la formazione, del resto, è diversa da quella che ha cooperato in sala d’incisione), tende peraltro a raffreddare. Al di là di tutto, sulla Terrazza della Vedetta, attico che sorveglia il porto, domina il centro storico e sembra quasi abbracciare il mare, Eva cavalca il pop, ma dimostra di conoscere i tempi e le abitudini del jazz, che poi è il suo campo d’azione. Puntando sapientemente sulla modulazione della voce, com’è giusto, e sulla simpatia naturale. E in attesa di lasciare il palcoscenico ad un'altra signora della canzone, l’italianissima Paola Arnesano, padrona del palcoscenico nell’ultima e imminente tappa del cartellone.

Rosa Emília (voce), Nico Andrioli (piano), Francesco De Giosa (chitarra), Giorgio Vendola (contrabbasso) & Fabio Accardi (batteria)
Casello Cavuzzi di Polignano a Mare (BA), Masseria Crocifisso
Jazz à la Cruz
11.07.2009

Eva Cortés (voce), Remi De Cormeille (piano), Tonio Miguel (contrabbasso) & Fabio Accardi (batteria)
Giovinazzo (BA), Terrazza della Vedetta
Jazz à la Vedetta
14.07.2009

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

sabato 11 luglio 2009

Dischi - Replay, il ritorno di Casarano & Locomotive

Spesso ritornano. Rafforzando o ampliando il proprio cammino artistico. Attualizzandolo, se è il caso. Ritornano in sala di incisione, che è poi la naturale trascrizione dell’impegno quotidiano, del disegno musicale cullato nel tempo e forgiato dagli incontri, dalle contaminazioni, dai confronti, dai festival e dalle trasferte europee. Che, ovviamente, non accolgono chiunque. Ma solo chi, oltre confine, possiede qualcosa da dire. O da offrire. Spesso ritornano. Molti, tanti. Ma non tutti. E un nuovo disco, allora, si collega al primo. Diventando la prosecuzione di un percorso. Ma non sempre, davanti al fonico e al mixer, in uno studio di registrazione, la line up torna intatta. Così com’era la volta precedente, cioè. «E, invece, questo è il nostro caso. In questo lavoro, il secondo a mio nome, ci siamo sempre noi. Noi, il gruppo storico: che resiste da sei anni. E che, tempo addietro, portò alla creazione di Legend», il disco di debutto. Con me, ci sono ancora Marco Bardoscia al contrabbasso, Alessandro Napolitano alla batteria, Ettore Carucci al piano. E, soprattutto, Paolo Fresu, un’icona del nostro jazz. Ma anche un amico e un guest di pregio. Che, ai Locomotive, si è evidentemente abituato. Tanto da bissare l’esperienza. Una persona, oltre tutto, che ammiro: per come vive il concetto di musica e per l’abilità di non ripetersi mai. Al di là di tutto, però, questo è un gruppo ormai collaudato. Anzi, un gruppo che si è solidificato. Dentro, c’è sintonia, complicità. E non ho problemi ad affermare che, adesso, suoniamo anche meglio, assieme».
Raffaele Casarano, ventott’anni ben spesi, da Sogliano Cavour, nel cuore del Salento, è un sassofonista ambizioso. Nel senso migliore del termine. Uno di quelli che cerca di valicare – se ce ne sono ancora – nuove frontiere. Che prova a ridiscutersi. Che allarga gli orizzonti, puntualmente. Che tenta di capire cos’altro si muove oltre la palestra delle proprie idee e della propria musica. Che si sforza di captare nuovi linguaggi musicali. Che viaggia attraverso le note e gli spartiti con l’entusiasmo dei primissimi giorni e con la la prospettiva di saperne di più. Raffaele è un sassofonista ambizioso che si sta ritagliando spazi sempre più larghi, nel territorio immenso del jazz italiano. Del jazz attento alla realtà che gli si struscia addosso. Un artista giovane, dalla mentalità aperta. Che guarda alla professione imponendosi degli obiettivi. E accarezzando una progettualità che scavalca la logica della semplice quotidianità. Il Locomotive Jazz Festival, ad esempio, è una sua intuizione. Da gestire e proteggere, nella sua città. Soprattutto adesso: «Anche quest’anno la rassegna si terrà, per il quarto anno consecutivo: malgrado i contributi siano stati letteralmente segati. Ma troveremo ugualmente il modo di esserci, nella prima settimana di agosto: costi quel che costi. Rimango fiducioso. E poi il cartellone è definito da tempo. Ci sono, tra gli altri, il gruppo di Mirko Signorile, l’Orchestra Jazz del Conservatorio di Lecce, la Banda Musicale di Berchidda, lo stesso Paolo Fresu, il Soweto Kinch Quintet, Achille Succi, Luca Aquino e la Locomotive Percussion Orchestra».
Il nuovo album, appena prodotto e commercializzato dalla Universal, si chiama invece Replay. Un manifesto programmatico, quasi. Dieci tracce, di cui sette originali. I tre standard sono “Skylark” (Carmichael-Mercer), “This is New” (Gershwin-Weill) e “Besame Mucho” di Consuelo Velázquez, che Raffaele Casarano ha tuttavia riarrangiato. Cinquantasette minuti complessivi, condivisi anche con Wiliam Greco (pianoforte), Alberto Parmegiani (chitarra), la giovanissima Carla Casarano (voce), il percussionista Alessandro Monteduro, le altre voci di Dario Muci e Maria Mazzotta e, infine, l’arpa della miggianese Angela Cosi, che assicurano incursioni qua e là. «E’ un lavoro corale – garantisce il leader del progetto -. Un lavoro che punta molto sui colori. E che ritengo, sotto diversi aspetti, più maturo e completo di Legend. Ci siamo impegnati molto, ma anche divertiti. E poi c’è sempre spazio per l’improvvisazione, lo stimolo migliore per qualsiasi jazzista».
Improvisazone, certo. E, qualcuno, suggerisce anche contaminazione. «In realtà – rivela Raffaele Casarano – c’è solo un pezzo, tra i dieci di Replay, che può lasciar pensare a qualcosa del genere. Mi riferisco a “Replay in Salento”, spartito al quale sono particolarmente legato. E’ un atto di affetto alla mia terra, il Salento, e alla radice fortemente tradizionale della sua musica. Diciamo pure che, in quegli otto minuti e quaranta secondi, confluiscono il jazz e la pizzica, che restano pur sempre due mondi differenti. Direi, anzi, paralleli. Perché, allora? E perché no? Alla base dell’uno e dell'altra c’è la passione. E poi c’è questa formazione: di estrazione jazzistica, ma che opera essenzialmente nel Salento e, più in generale, in Puglia. Non solo: questa traccia è introdotta dalle voci dei miei nonni, che rendono più personale la composizione».


Replay (Universal, 2009)

Raffaele Casarano (sassofoni ed elettronica), Ettore Carucci (piano e fender rhodes), Marco Bardoscia (contrabbasso ed elettronica), & Alessandro Napolitano (batteria). Guest Paolo Fresu (tromba ed elettronica), Wiliam Greco (pianoforte), Alberto Parmegiani (chitarra), Carla Casarano (voce), Dario Muci (voce), Maria Mazzotta (voce), Alessandro Monteduro (percussioni) e Angela Cosi (arpa)

(pubblicato dal sito www.legnepiene.com)

domenica 5 luglio 2009

La notte è veloce

La notte è lunga. Ma, talvolta, sa passare leggera, veloce. Soprattutto se la notte è bianca. Bianca di suoni, di gente, di reading e teatranti, di fervore. Che è poi il fervore dell’abbandonarsi al percorso delle postazioni. Il percorso che ogni Notte Bianca si impone o che ognuno si costruisce idealmente, seguendo il proprio istinto, i propri gusti. Oppure i sentieri del caso. Arriva gente, a Lecce. Tanta gente. Da tutto il Salento. Che si confonde con quella residente. Il centro storico pulsa. Più del solito. La Notte Bianca è una notte serena, strappata alle cattive evoluzioni atmosferiche. Una notte per ciascuna preferenza, come pretende la tradizione. Dal jazz alla pizzica, dai monologhi alla canzone d’autore, dal blues alle gallerie di pittura, dalla mostre fotografiche agli spazi per le selezioni dei dj. Una notte da passare assieme. Tra gli stand e le proposte di uno spettacolo autenticamente popolare. Una notte buona per zigzagare per i bar, dribblando i crocchi, incrociando le fantasie del barocco. Una notte per tutti. Una notte che, appunto, passa leggera. E veloce.
Impossibile godere di tutto. Spesso, si vive di ritagli, di assaggi, conquistati qua e là. Ma va bene ugualmente: questa gente curiosa che sciama vuole sapere di tutto e di tutti. Le situazioni musicali, peraltro, non si protaggono tanto. Quaranta minuti l’una. Quarantacinque, al massimo. La programmazione è complessivamente discreta. Nessun nome di prestigio (non si può, il budget a disposizione del comitato organizzatore è limitato: non ci meravigliamo, il duemilanove è anche questo, malgrado la rincorsa istituzionale all’ottimismo), ma tanti artisti chiamati ad esibirsi (meglio: a cooperare). Con una prerogativa: sono essenzialmente locali. Salentini. E, forse, è giusto così. Questa Notte Bianca è una notte salentina. Tipicamente salentina. Non mancano, però, delle felici intuizioni. Come quella di creare, dentro la Notte Bianca, una Notte Rosa. E sì, perché la location allestita davanti alla Chiesa Greca è espressamente dedicata all’universo femminile. Dove ci piace segnalare la performance della raffinata e niente affatto convenzionale Agnese Manganaro, accompagnata dalla chitarra di Marcello Zappatore. Agnese prova un paio di cover (una, ad esempio, è "Leãozinho", di Caetano Veloso), ma ci mette molto di suo, presentando a chi non lo conosce Mille Petali, il suo cd (vendutissimo ai piedi del palco) che parla di una quotidianità dolce e di sentimenti, senza essere però stucchevole o scontato. La vocalist è bella, intrisa del proprio fascino, ma è soprattutto elegante. La voce, spesso, è un filo sottile, ma che si insinua, che penetra. I testi sanno essere ricercati, pur possedendo una freschezza di fondo. L’accompagnamento di Zappatore, infine, non è invasivo, ma completa un live che la Manganaro interpreta in cinque lingue, giapponese compreso (del resto, Mille Petali circola anche sulle rive del Pacifico, oltre che in Italia).
Prima di Agnese Manganaro, invece, si presenta Eneri, cioè Irene Bello, giovane e sicura, pianista che ama anche la chitarra, autrice di versi di sufficiente profondità: la sua ricetta è un cantautorato giovane, ma ben strutturato, dalle tonalità cangianti. Dopo, invece, ecco il quartetto vocale Vuaolè (Irene Scardia, Carolina Bubbico, Antonella Mucelli, Grazia Sibilla), che comincia parafrasando il percorso artistico delle Faraualla, ma che poi devia decisamente sul terreno del pop internazionale. Voci agili, ben assortite. Come assortito (e, quindi, vasto) è il perimetro entro cui si allarga il repertorio: che, così, trascina tutti i benefici - e anche i limiti - del caso. E, infine, anche tanto temperamento interpretativo, contraddistinto da frequenti scambi di ruoli e postazioni che forse tolgono qualcosa, sotto il profilo puramente formale. Elementi, questi, che – tuttavia – creano audience. Overo, un dettaglio a cui una Notte Bianca deve decisamente puntare. E, sempre a proposito di voci al femminile, non merita di passare inosservata l’operazione di aggiornamento (negli arrangiamenti, evidentemente) della musica popolare salentina voluta dalla giovanissima Alessia Tondo, da Emanuela Gabrieli e da Carla Petrachi (accompagnate al basso da Marco Bardoscia). Triace è un progetto ormai avviato da un po’, ma la formazione invitata per l’occasione è, in realtà, la versione ridotta dell’originale. Opzione che, nello specifico, sottrae qualcosa.. Ma abbiamo già detto del clima di austerity piovuto pure sulla Notte Bianca leccese. Un ingranaggio che, comunque, gira ugualmente. Sino a tardi. Quando la gente che continua a sciamare non si arrende all’evidenza dell’alba. Indugiando per vicoli, piazze e corti. Lì, dove la kermesse si consuma sul tappeto di bottiglie vuote. La Notte è andata: bianca, chiassosa, veloce.

Notte Bianca 2009
Lecce, centro storico (varie location)

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)

venerdì 3 luglio 2009

Clessidra, il tempo di Mirko Signorile

L’avevamo lasciato a Ruvo, appena l’estate scorsa. E lo ritroviamo tra Polignano e Castellana, in una delle masserie più interessanti (architettonicamente, ma anche sotto il profilo della qualità dei lavori di conversione apportati) di quest’angolo di Terra di Bari. Mirko Signorile è ispirato come sempre. E, come sempre, sente fortemente la sua musica. Come sempre vive intensamente e intimamente il suo concerto, il suo progetto. Perché, tra gli ulivi delle campagne di Casello Cavuzzi, il pianista modugnese non riposa, ma si esibisce. Aprendo il cartellone dell’associazione culturale Mordente, appena generata dalla passione, dalla verve (e dall’ambizione imprenditoriale, oseremmo dire) di Fabio Accardi, batterista di questa Puglia che crede ancora nella musica e che, da Parigi, è tornato definitivamente. Per lavorarci e investire: professionalità e anche un po’ di denaro. Allestendo un gruppo di lavoro giovane, motivato e fresco: con il quale ha cominciato l’avventura. Avventura che, per il momento, si concentra in quattro avvenimenti live (tre alla Masseria del Crocifisso, appunto, e uno sulla Terrazza della Vedetta di Giovinazzo), tutti programmati per il mese di luglio. E che, più tardi, dovrebbe sfociare in altre iniziative musicali. Anche al di là della semplice organizzazione di rassegne.
Ma dicevamo di Mirko Signorile. Che nel vernissage di Mordente ha ripresentato il suo ultimo (e bellissimo: però, di questo, pochi nutrivano dei dubbi) cd, Clessidra: licenziato dalla Emarcy e parzialmente eseguito proprio a Ruvo, qualche mese addietro, ma questa volta pubblicizzato totalmente. E non da solo. Perché Jazz à la Cruz (è il titolo della rassegna) gli ha permesso di affiancargli la formazione che lo sostiene nelle tracce realizzate in studio. Quindi, traducendo, l’inseparabile Giorgio Vendola al contrabbasso, il percussionista coratino Cesare Pastanella e lo stesso Fabio Accardi alla batteria. Tre nomi che, da queste parti, non necessitano di troppe presentazioni e che, in chiusura di concerto, sono stati raggiunti sul palco da un altro amico antico come il sassofonista Gaetano Partipilo, guest per un paio di brani. «Il lavoro – sottilinea Signorile – è un racconto. Il racconto di una storia. La storia del tempo immobile. Oppure del tempo che continua a scorrere. Ed è un lavoro confezionato nel tempo. Diciamo in un arco di dieci anni. E sì, perché, ad esempio, una composizione che fa parte di Clessidra, cioè "Ortigia", nasce proprio allora. Ero ancora giovanissimo e mi ritrovai a Siracusa per il mio primo concerto al di fuori dei confini regionali. Ortigia è quella penisola che costituisce il centro storico del capoluogo siciliano. Ed è un luogo di grande bellezza, al quale ho voluto dedicare qualcosa di mio».
“Ortigia”, e poi “Monadi”, “Un passo Dopo l’Altro”, “Intorno a Noi”, “La Gatta Pensierosa”, “Mondo Notturno” e altre cinque passaggi dell’intera track list: La ricchezza compositiva e l’espressione convincente del mosaico musicale del disco, la versatilità del suo autore, la musicalità degli spartiti e la forza interiore di ogni passaggio riassumono il mondo di Mirko e si traducono in uno dei migliori prodotti discografici partoriti in Puglia negli ultimi anni. Un prodotto che entra ed esce dal jazz, abbracciando semplicemente il concetto di musica contemporanea. Clessidra si fa ascoltare. E, ascoltandolo più volte, cattura e si fa amare. Perché, al di là della tecnica e delle qualità fondamentali del musicista, pulsa il sentimento. E sgomita il rigore musicale elaborato e rielaborato in anni di palcoscenico, tra festival e vita di club. E di studio. Perché, conoscendo Signorile, Clessidra appare, sin da sùbito, non un disco come tanti. Ma il “suo” disco. «L’occasione ideale – aggiunge Fabio Acardi, che di Jazz à la Cruz, oltre che leader dell’organizzazione (è il presidente dell’associazione culturale Mordente) è anche direttore artistico – per cominciare bene questo percorso. Un percorso che prosegue l’undici di luglio con l’intervento della brasiliana Rosa Emília e del suo gruppo, sempre a Casello Cavuzzi, con il live dell’honduregna, ma spagnola di adozione, Eva Cortés (alla Vedetta di Giovinazzo, il 14 luglio, ndi) e con l’omaggio di paola Arnesano a Peggy Lee (ancora alla Masseria del Crocifisso, ma a fine mese, ndi). Ma Mordente, più avanti, vuole allargare i suoi confini. Rafforzare le propria fondamente, ramificarsi. E, perché no, diventare anche etichetta discografica. Le idee ci sono, ci stiamo lavorando». Non ci resta che attendere.

Mirko Signorile (pianoforte), Giorgio Vendola (contrabbasso), Fabio Accardi (batteria) & Cesare Pastanella (percussioni)
Casello Cavuzzi di Polignano a Mare (BA),
Masseria del Crocifisso
Jazz à la Cruz

(pubblicato dal sito www.levignepiene.com)