venerdì 25 giugno 2010

Bari in Jazz, musica che resiste


«Bari in Jazz è al sesto anno di vita. La speranza è che la prospettiva si allunghi: i tempi, lo sappiamo, sono difficili. Ma la musica resiste agli anni». Roberto Ottaviano è un direttore artistico attento, ispirato. E conosce i problemi del percorso. Oltre tutto, vive sulla pelle propria le incertezze dell’intero movimento musicale di questo Paese. E le disillusioni quotidiane. La rassegna, comunque, si è consegnata all’appuntamento. Puntuale. Nonostante i venti sfavorevoli. Malgrado le incrostazioni che stanno corrodendo l’ingranaggio culturale in Italia. E al di là degli incidenti di percorso: «Una manifestazione arrivata alla sesta edizione – aggiunge Ottaviano – dovrebbe aver guadagnato respiro e serenità. Ma la mancanza di coraggio e di sensibilità strategica di certe istituzioni lascia perplessi. E mi fermo qui». Il riferimento, implicito, è al taglio dei contributi comunali, proprio a ridosso del festival. Tuttavia, certe volte, la presenza conta più di qualsiasi altra cosa. E ci sentiamo sollevati, solo per questo. Ma anche per la qualità delle proposte dell’anno duemiladieci: alta, come sempre. Merito della commistione di professionalità e passione. E, certo, anche delle sinergie: tra il pubblico (la Regione, la Provincia di Bari e la già citata amministrazione comunale del capoluogo) e il privato (la Peroni, partner ormai irrinunciabile). E di un coordinamento puntiglioso (l’associazione Abusuan).
Quattro giorni densi di musica (dal ventidue al venticinque giugno), sedici differenti situazioni live, cinque location diverse (il Teatro Piccinni - preferito al fotofinish al cortile del Castello Svevo per questioni puramente climatiche - , piazza del Ferrarese, l’Auditorium della Vallisa e due chiese della città vecchia), quasi cento musicisti alternatisi sui palchi: sono numeri che rassicurano. Sulla continuità dell’impegno, sulla tenuta del progetto e sulle linee che lo disegnano. «Del resto – continua Ottaviano - abbiamo sempre creduto ad una fusione tra elemento spettacolare e apprendimento critico. Puntando su una scelta musicale forse anche imprevedibile, ma oculata. E toccando, per l’occasione, una tematica particolare, quale il rapporto tra il jazz e la comunicazione. Quindi, i media». Esperimento riuscito. Con l’ormai tradizionale mixaggio tra artisti di respiro internazionale (Mirolasv Vitous, Ivan Lins, Avishai Cohen, Francesco Bearzatti, ma anche Franco Ambrosetti, Frank Wilkins e Nicolas Folmer) ed espressioni significative del territorio (Vendola, D’Ambrosio, Accardi, Casarano, Abbracciante, Signorile, Tosques, Delre, Minafra, Albanese, Bagnato, Bardoscia, Prima, Mazzotta, Coluccia, lo stesso Hasa, albanese di origine ma salentino a pieno diritto, Conte, Partipilo e l’Improbabilband dell’ateneo barese).
Bari in Jazz parte dalla Chiesa di San Giacomo, con il contrabbasso, il basso e la loop station di Giorgio Vendola, sempre più convincente per maturità e musicalità. Un’ora scarsa di composizioni orginali (“La Salita“, “La Rosticceria dei Poeti“, “Io, Sacco e Vanzetti“, “Ninna Nanna“), di improvvisazione e riarrangiamento di temi altrui e due tranche di un lavoro approntato appositamente per il teatro (una rilettura del "Cyrano de Bergerac") da Michele Santeramo e dallo stesso contrabbassista terlizzese. Sùbito dopo, nella cornice del Piccinni, Ottaviano lascia per un po’ la direzione artistica della manifestazione e riabbraccia i sassofoni, incrociandosi con Piero Leveratto (contrabbasso), Salvatore Bonafede (al piano) e il batterista Marcello Pellitteri. In quaranta minuti passa un jazz agile, melodico, accattivante, moderno, ricco di sfumature e di contenuti. A seguire, il quintetto di Avishai Cohen, quarantenne israeliano che canta e si esibisce al contrabbasso, offre “Aurora“, un concerto speziato, caldo, dai tratti morbidi, che guarda apertamente all’area mediorientale e al mondo arabo. L’ultimo capitolo della prima giornata si consuma invece sotto la pioggia di piazza del Ferrarese, dove i Funk Off (marching band che arriva dalla Toscana, nove fiati e quattro percussionisti) propongono l’anarchia organizzata del loro sound, che attinge dal jazz, dal rock, dal blues, dal soul e, ovviamente, dal funky.
La seconda tappa, quella del ventitre giugno, si apre con la performance del barese Pippo “Ark“ D’Ambrosio. Le sue percussioni etniche cercano atmosfere, sfuggendo al pericolo di mettere assieme quanti più suoni possibili. Cioè: la varietà timbrica, invece della quantità. Al Piccinni, invece, si dividono il palco il variegato settetto (quanto di meglio possa offrire, oggi, il panorama musicale pugliese under quaranta) di Fabio Accardi, che presenta l’album Arcoiris, di cui abbiamo diffusamente parlato di recente, proprio su queste colonne, e il gruppo di Ivan Lins (ne abbiamo discusso a parte). Infine, in piazza del Ferrarese, spazio all’allegra e interminabile Improbabilband capitanata da Michele Marzella e ai suoi ospiti (Gabin Dabiré, frequentatore assiduo delle nostre estati, la danzatrice Ana Estrela e Virginia Pavone).
L’Auditorium della Vallisa, giovedì ventiquattro, ospita poi la voce di Beppe Delre e la fisarmonica di Vince Abbracciante. “Different Moods” è un puzzle della canzone italiana d’autore degli anni sessanta che ingloba testi di Tenco (“Averti tra le Braccia”), Lauzi (“Il Tuo Amore”), Piero Ciampi (“Fino all’Ultimo Minuto”), Endrigo (“Canzone per Te”), Modugno (“Che Me Ne Importa a Me”) e un paio di incursioni nel repertorio di Mina (“Noi Due” e “”L’Ultima Occasione”). Il lavoro, di prossima traduzione in disco (ad ottobre), che verrà presentato nell’imminente festival di Castelfidardo, ospita anche una composizione di Richard Galliano (“Viaggio”), alla quale Beppe Delre ha affiancato un proprio testo, e piace per la cura e l’originalità degli arrangiamenti. Quindi, si torna al Piccinni con l’equilibrata esibizione del trio composto da Vito Di Modugno, dal batterista napoletano Masimo Manzi e da un’altra certezza del jazz italiano, il chitarrista Pietro Condorelli (in scaletta le tracce più significative dei due ultimi album dell’hammondista barese, Organ Trio e Organ Groove). Tra un pezzo ed un altro, anche un tributo ai Weather Report, sùbito dopo omaggiati dal concerto del contrabbassista praghese Miroslav Vitous, che di quel gruppo ha fatto parte. Con lui, sul palco, nomi importanti come il trombettista Franco Ambrosetti, il sassofonista Robert Bonisolo e il batterista Fabrizio Sferra: il risultato è un concerto corposo e potente, libero e aggressivo, talvolta esplosivo, ovviamente forgiato dall’esigenza di misturare più esperienze artistiche e una pluralità di stili musicali. In piazza, infine, la Bandadriatica organizzata da Claudio Prima ripercorre i passi del recente cd “Maremoto”, ideato tra le onde dell’Adriatico (la batteria di Ovidio Venturoso batte, i fiati sparano e la gente balla sfrenata).
Sono, invece, tre fisarmonicisti (Livio Minafra, Giorgio Albanese e Walter Bagnato) a presentare alla Vallisa il progetto che apre l’ultima delle quattro giornate e che circumnaviga il tango, anche e soprattutto di Piazzolla. Le tre suite si soffermano su composizioni largamente conosciute (“Oblivion”, “Libertango”, “La Cumparsita”, “Vuelvo al Sur” e altre ancora), ma destrutturate e ricomposte con ironia, che poi è uno dei tratti caratteristici dei lavori firmati da Minafra. Uno abituato pure a giocare, con le note. Completamente differenti, piuttosto, sono le proposte degli Spajazzy (il batterista barese Sergio Bellotti, emigrato a Boston da quindici anni, si fa accompagnare dal bassista salernitano Tino D’Agostino e dall’espressivo Frank Wilkins, all’organo e alle tastiere, in un’esibizione che mette assieme standard nordamericani e jazz italiano) e del Tinissima Quartet di Francesco Bearzatti. L’intervento del sassofonista udinese (con lui Giovanni Falzone alla tromba, il pugliese Danilo Gallo al basso e Federico Scettri alla batteria) si riassume in dieci capitoli (di cui uno, l’ultimo, realizzato elettronicamente) ricchi di suoni, evocazioni, accelerazioni, provocazioni, slanci, riferimenti e visioni interamente dedicati alla figura di Malcom X. L’opera (multimediale, grazie alle illustrazioni di Francesco Chiacchio, che scorrono durante il concerto) è stata concepita appositamente per il Parco della Musica di Roma e presto diventerà un concept album. L’ultimo atto di Bari in Jazz, tuttavia, è affidato al combo di Nicola Conte, che ospita due voci (Alice Ricciardi e Walter Ricci), una presenza inattesa (Stefania Di Pierro) e, va sottolineato, anche un Partitipilo particolarmente carico. Quindi, dopo diciotto ore complessive di accordi, assoli e scale armoniche, il sipario cala. Bari in Jazz, giura Ottaviano, tornerà il prossimo anno. «Con tanta altra musica dal vivo che possa partorire cultura. Perché la cultura è una priorità, non un accessorio».


Bari in Jazz 2010

Giorgio Vendola (contrabbasso, basso acustico e loop station)
Bari, Chiesa di San Giacomo

Roberto Ottaviano (sax tenore e sax soprano), Salvatore Bonafede (pianoforte), Piero leveratto (contrabbasso) & Marcello Pelitteri (batteria)
Bari, Teatro Piccinni

Avishai Cohen (voce e contrabbasso), Karen Malka (voce), Shai Maestro (pianoforte), Amos Hoffman (oud e chitarra) & Itamar Doari (percussioni) in “Aurora”
Bari, Teatro Piccinni

Funk Off Marching Band
Bari, piazza del Ferrarese
22.06.2010


Pippo”Ark” D’Ambrosio (percussioni)
Bari, Chiesa di San Giacomo

Fabio Accardi (batteria), Raffaele Casarano (sax soprano e sax alto), Mirko Signorile (pianoforte), Marco Pacassoni (vibrafono), Antonio Tosques (chitarra), Marco Bardoscia (contrabbasso) & Vincenzo Abbracciante (fisarmonica) in “Arcoiris”
Bari, Teatro Piccinni

Ivan Lins Quintet (Ivan Lins: voce e tastiera; André Sarbib: pianoforte e tastiera; João Moreira: tromba; Alfonso Paes: chitarre; Chris Wells: batteria)
Bari, Teatro Piccinni

Improbabilband diretta da Michele Marzella. Guest Ana Estrela (danza), Virginia Pavone (voce) e Gabin dabiré (voce)
Bari, piazza del Ferrarese
23.06.2010


Giuseppe Delre (voce) & Vince Abbracciante (fisarmonica) in “Different Moods”
Bari, Auditorium Diocesano Vallisa

Vito Di Modugno Organ Trio (Vito Di Modugno: organo Hammond; Pietro Condorelli: chitarra; Massimo Manzi: batteria)
Bari, Teatro Piccinni

Miroslav Vitous (contrabbasso), Franco Ambrosetti (tromba e flicorno), Robert Bonisolo (sax tenore) & Fabrizio Sferra (batteria) in “Remembering Weather Report”
Bari, Teatro Piccinni

Bandadriatica (Claudio Prima: voce ed organetto; Maria Mazzotta: voce; Emanuele Coluccia: sax tenore e sax soprano; Vincenzo Grasso: clarinetto e sax tenore; Andrea Perrone: tromba e flicorno; Gaetano Carrozzo: trombone; Redi Hasa: violoncello; Giuseppe Spedicato: basso; Ovidio Venturoso: batteria)
Bari, piazza del Ferrarese
24.06.2010


Tristango (Livio Minafra: fisarmonica; Giorgio Albanese: fisarmonica; Walter Bagnato: fisarmonica)
Bari, Auditorium Diocesano Vallisa

Spajazzy (Frank Wilkins: organo e tastiera; Tino D’Agostino: basso elettrico; Sergio Bellotti: batteria)
Bari, Teatro Piccinni

Tinissima Quartet (Francesco Bearzatti: sax tenore e clarinetto; Giovanni Falzone: tromba ed effetti; Danilo Gallo: basso acustico; Federico Scettri: batteria) in “Malcom X Suite”
Bari, Teatro Piccinni

Nicola Conte Jazz Combo (Nicola Conte: chitarra; Alice Ricciardi: voce; Walter Ricci: voce; Nicolas Folmer: tromba; Gaetano Partipilo: sax alto e flauto; Pietro Lussu: pianoforte; Paolo Benedettini: contrabbasso; Andrea Nunzi: batteria). Guest Stefania Di Pierro (voce)
Bari, piazza del Ferrarese
25.06.2010

mercoledì 23 giugno 2010

Lins, funky targato Rio


Qualcosa di bossa: il suo profumo e certe sue atmosfere, almeno. Perché, ormai, la bossa è coltivata per davvero solo in Europa. In Italia, soprattutto. Ma in Brasile non più. O assai meno di quanto si creda. E qualcosa (anzi, molto) di funky: verso i cui sentieri Ivan Lins si è ormai abbandonato. Del resto, il compositore di Rio continua a scrivere canzoni. E a vendere. Tutto misturato da una sensibilità fortemente carioca. Anche perché le sue parole e il suo piano insistono spesso su un tema: la sua città, appunto. Tra bossa e funky, però, quella di Lins è essenzialmente musica da ascoltare. E di ottima qualità. E’ così da quarant’anni. L’artista sudamericano, peraltro, vanta estimatori un po’ ovunque, anche al di fuori del proprio Paese. E interpreti importanti che hanno prestato la loro voce a diverse versioni dei suoi brani (ricordate la celebre “The Island” di George Benson? Bene, l’ha scritta Ivan Lins, a quattro mani con Vítor Martins, il socio di una vita. E avete presenti nomi come Sara Vaughan e Quincy Jones? Ecco, hanno condiviso esperienze con lui).
Ha sessantacinque anni, ma non li dimostra. Ed è un personaggio squisito: di antica cortesia. Disponibilissimo: sempre e comunque. Con tutti. Dalla simpatia immediata. Questione di carattere. Brasiliano vero. E carioca anche nell’animo. In Brasile è una delle istituzioni musicali. Meno cerebrale di Chico Buarque, meno impegnato di Edu Lobo, meno terragno di Milton Nascimento, meno imprevedibile di Caetano Veloso. Ma fruibile a tutti. Per quei testi semplici, immediati. E per quelle tonalità chiare, dirette. Jobiniane, ha detto e scritto qualcuno: non a caso. Il maestro, peraltro, era e resta un suo punto di riferimento. Oltre le frasi di circostanza. Anche per questo, i suoi dischi sono tra i più commercializzati, al di là dell’oceano. Meglio di lui, probabilmente, solo Ivete Sangalo, regina delle axé, e pochissimi altri. Numeri imponenti. E non da oggi. Per capirci, può esibire qualche Latin Grammy Award. E una processione di singoli dal successo cristallino. Ascoltati almeno una volta, nella vita. Magari attraverso i Manhattan Transfert. O, appunto, Benson. Oppura Ella Fitzgerald. Ma anche Elis Regina.
Bari in Jazz 2010 l’ha riportato in Puglia. Un po’ di anni dopo. Alla fine degli anni novanta, sbarcò al Teatroteam, in compagnia di Toots Thielemans: con il quale ha elaborato idee per lungo tempo. Questa volta, al Teatro Piccinni, è arrivato accompagnato solo dal suo gruppo. Anzi, dalla sua gente, come dicono da quella parte del mondo: André Sarbin (alla tastiera e al pianoforte), Alfonso Paes (alle chitarre), João Moreira (alla tromba: interessanti le sue tonalità jazzistiche) e Chris Wells (è il batterista). Offrendo un ventaglio di proposte: antiche (“Vitoriosa”, “Madalena”, “Dinorah, Dinorah”, “Começar de Novo”, “Daquilo Que Eu Sei”, “Iluminados”) e più recenti (“Velas”, “Passarela no Ar”, “Nada Sem Voce”: quest’ultima scritta con Ivano Fossati e, ovviamente, tradotta in italiano). C’è, poi, anche un tributo a Jobim, ma è un inciso veloce, ma non formale. Per la tournée italiana (due tappe al sud: Nocera Inferiore e Bari, prima di spostarsi in Norvegia) sceglie un profilo casual, anche nel confezionamento del concerto. Parla poco (in inglese) e suda molto, litigando più volte con un pedale difettoso. Gli arrangiamenti, tutti curati, concedono una veste nuova pure ai pezzi più popolari. Che arrivano sostanzialmente nella parte finale del live, riscaldando l’ambiente. L’evento richiama anche diversi brasiliani di Puglia: e non potrebbe essere diversamente. Ma anche il pubblico di casa non difetta in conoscenza specifica: conseguenza della globalizzazione mediatica, ma anche di un’avvenuta crescita della mpb nell’immaginario collettivo degli italiani. Attraverso i canali della bossa, evidentemente. Che, dopo, ha saputo convogliare la gente verso altri autori. Più o meno tradizionali. Qualche anno fa non ci avremmo scommesso. Oggi ne prendiamo atto. Con soddisfazione.

Ivan Lins Quintet (Ivan Lins: voce e tastiera; André Sarbib: pianoforte e tastiera; João Moreira: tromba; Alfonso Paes: chitarre; Chris Wells: batteria)
Bari in Jazz 2010
Bari, Teatro Piccinni

lunedì 21 giugno 2010

La vita nuova di Vincenzo Deluci


Sei anni duri (e inattesi) non si cancellano. Né si dimenticano. Ma il tempo, talvolta, non passa invano. E, se non restituisce tutto, almeno sa alleviare la sofferenza pura, le difficoltà di ogni giorno, il buio di un tunnel. Premiando il coraggio di vivere. Il coraggio di sperare: malgrado tutto. E la voglia di tornare in trincea: con la musica, nella musica. Per la musica. La voglia di esserci. Di sentirsi parte del sistema. O, più semplicemente, parte della quotidianità. Propria e altrui. Quella quotidianità che ha scolpito i giorni migliori. Quando tutto sembrava facile. Quanto tutto procedeva come doveva. Quando la musica, appunto, riempiva le ore. Tutte le ore della settimana. Quando gli spartiti erano causa ed effetto, esigenza e diversivo, passione e professione. Mistero e certezza. Sostentamento e ambizione.
Vincenzo Deluci suonava. Spesso, molto spesso. E bene. Parola di chi lo frequentava. Di chi lo conosceva. Di chi si avvicinava al suo bop duro, alle sue tonalità suggestive. Parola di spettatori attenti, di appassionati del jazz, di colleghi importanti, di critici consacrati. Componeva (anche il primo disco a proprio nome, interamente originale: La Rana dalla Bocca Larga, lavoro leggero e profondo, frizzante e intenso, delicato e itinerante) e suonava: la tromba e il flicorno. Qui e là, per le rotte di Puglia. Affacciandosi sistematicamente oltre il confine regionale. Preparando l’ingresso definitivo nel circuito nazionale: quello spazio che diluisce le agitazioni della sopravvivenza e che avvicina le gratificazioni economiche. Ma non solo quelle economiche. In attesa di un tour, davvero imminente. E di una conferma: la partecipazione, in Spagna e in Germania, a due festival di spessore. Vincenzo suonava. E pianificava: sogni e futuro. Strategie ed alleanze artistiche. Poi, lo schianto: la strada che svaniva, l’auto che volava nel fossato. Tornava da Maglie, dopo un concerto nel jazz club gestito artisticamente da Maurizio Quarta. E cercava di tornare a casa, a Fasano: era la notte del 23 ottobre del 2004.
Vincenzo si risvegliava a Brindisi, nel nosocomio del Perrino. Dopo molti giorni virtuali. Più tardi, si trasferiva in strutture meglio attrezzate. Ma la funzione delle gambe era persa. E anche quella degli arti superiori. Tetraplegico: si dice così. L’impatto con la realtà diventava violento: forse, ancora di più di quello accusato sulla superstrada. La vita cambiava. Radicalmente. E cambiavano le abitudini. Cambiava tutto. La tromba rimaneva lì, in un angolo: eppure, sempre al centro dei pensieri, nella testa. Ma senza una mano che la guidasse. La musica, a quel punto, sembrava lontana: l’ultimo dei problemi. Con una carrozzina comandata elettricamente, le priorità sono altre. Psicologicamente, però, il ragazzo resisteva, reagiva. Anche se, a trent’anni, il mondo sembrava essersi rivoltato contro. Da un momento all’altro. La famiglia, poi, gli rimaneva vicina. E anche gli amici di un tempo. Iniziava, così, la rincorsa alla normalità. La normalità che si chiama poter pranzare, bere, leggere. E studiare, magari. Vivere, ecco. Con il tempo, Vincenzo si adattava alla novità. Pensando in fretta di ricominciare. A comporre, innanzi tutto: sfruttando i progressi della tecnica e i programmi computerizzati. Buoni per rivalutare intuizioni, talento, capacità. E, infine, a suonare. La tromba. In pubblico.
Tutto vero, questa è storia. E’ la storia di Vincenzo Deluci. Ventuno giugno duemiladieci, quasi sei anni dopo: il palcoscenico è quello della Grave delle grotte di Castellana: scenario unico, senza tempo. E Vincenzo è lì, con un guanto e la sua tromba. Che poi è un trombone adattato: la coulisse sostituisce i tasti. Ma è lì: con la sua tecnica e tutta la sua vita. Davanti, c’è il suo mondo. E anche VianDante, Paradiso - Inferno A/R è un progetto suo. Tutto suo. Un progetto di note e parole. Una suite di quaranta minuti e una composizione conclusiva, innervate di emozioni e intervallate da quasi due minuti di applausi. Continui e convinti. Un progetto pregno di certezze, più che di speranze. Perché, in fondo, è di certezza che Vincenzo ha vissuto, sin qui. La certezza di tornare, un giorno, a suonare. Ad esibirsi. Combattendo a suo modo le asperità del destino. Eccolo, Vincenzo De Luci: con le sue idee, il suo sound creativo. E il suo pubblico. I versi fuori campo, invece, sono quelle registrati da Peppe Servillo, portavoce storico degli Avion Travel, artista raffinato ed eclettico. Le pagine, infine, arrivano dalla Divina Commedia dantesca e avvolgono le composizioni di Vincenzo, preparate e mixate con l’apporto dell’elettronica.
Parole e musica procedono assieme, vibranti. Eteree. Tra stalattiti e stalagmiti, sul palco che sembra sospeso al centro della terra, nella migliore location possibile, VianDante è il viaggio di Vincenzo. Verso gli abissi. E, sùbito dopo, verso la luce. Partendo dal canto terzo dell’Inferno, passando per il Purgatorio. Destinazione Paradiso. Tra note prima oscure, viscerali. E, poi, trasparenti, vaporose. VianDante, diretto da Giuliano Di Cesare, confezionato da ZonaEffe, arrichito dal supporto tecnico di Marcello Di Pace e Vincent Lounguemare, realizzato con il patrocinio delle Grotte e dell’amministrazione comunale di Castellana, tocca nell’intimo e lascia qualcosa. Forse, per la storia che galleggia dietro. Forse, per la forza della musica, che rende tutto più semplice. Anche se il braccio che sorregge la tromba è quello sinistro: l’unico che si permette ancora qualche movimento. Anzi, anche per questo particolare, forse. Ma, sicuramente, perché VianDante è la sintesi di un ritorno in superficie, di una battaglia ardita, di una lotta ostinata. E simbolo di risveglio. E perché, in fondo, è una vittoria. La vittoria di Vincenzo. Godiamocela tutti.

Vincenzo Deluci (tromba ed elettronica) in "VianDante Paradiso-Inferno A/R"
voce narrante fuori campo di Peppe Servillo
Castellana Grotte (BA),
Grave delle Grotte

domenica 20 giugno 2010

Alberobello, il ritorno del jazz


Prima Daniele Di Bonaventura: il suo bandoneón intimo e delicato, i colori morbidi della sua musica e il suo gruppo (Marcello Peghin alla chitarra, Felice Del Gaudio al contrabbasso e Alfredo Laviano alle percussioni: cioè, Band’Union, ovvero un tributo allo strumento e alle sue origini tedesche, alla sua storia nell’universo musicale, ma anche un omaggio a se stesso e al suo percorso artistico, che sempre più spesso lo dirotta in Puglia). Senza che il tango si appropri del palcoscenico, però: del resto, l’artista abruzzese si lascia sedurre dalle proprie composizioni, libere – perché no - di spaziare anche per i sentieri della canzone popolare. Quindi, il giorno dopo, Camillo Pace (contrabbasso) e Connie Valentini (voce), asssistiti da Nico Masciullo (percussioni) e Antonio Lorè (tromba), tutti divorati dalla nostalgia di un Bob Marley rivisitato in chiave jazzistica, dove canto, istinti, slanci e melodia finiscono per essere centrifugati in un progetto intrigante, originale, caldo e solidamente collaudato da oltre due anni di live. E, peraltro, celebrato in Uhuru Wetu (“La Nostra Vita”, nella lingua dei nativi del Kenia), un disco di imminente pubblicazione (con l’etichetta di Roy Paci?), ma già realizzato. E dedicato all’Africa, terra a cui il contrabbassista martinese è visceralmente legato, sotto il profilo artistico, ma anche sotto quello puramente emozionale.. Infine, il nuovo incontro con le note di Javier Girotto, uno che scende spesso a queste latitudini, ma che non stanca mai. Anche se ripropone un lavoro ormai conosciuto come Nahuel, avvalendosi della complicità del quartetto d’archi più versatile di queste contrade, il Vertere di Amatulli e Paglionico (violini), Buccarella (violoncello) e Mastro (viola). Aggirandosi nei meandri dei ritmi più tradizionali della sua terra, l’Argentina, tra suite e consuete finezze stilistiche.
Tre appuntamenti, due giorni, una rassegna. Una rassegna ritrovata, anzi. L’Alberobello Jazz Festival risorge quasi all’improvviso, dopo due stagioni di silenzio. Rispolverato (di più: caldeggiato) dalla locale aministrazione comunale, che lo inserisce nel cartellone estivo. Affiancandolo, così, ad un contenitore di largo gradimento come Experimenta (l’idea di Gianluigi Trevisi funziona sempre, anno dopo anno), oppure al più casereccio Festival Folklorico Internazionale “Città dei Trulli”, diventato appuntamento praticamente irrinunciabile, per gli appassionati del settore. Niente male, se pensiamo che altrove (e non troppo lontano) la politica locale dimentica o penalizza i progetti musicali (a Locorotondo è scomparso l’Antiphonae Jazz Festival, a Ceglie è saltato l’Open Jazz Festival: ma non si tratta di casi unici, purtroppo. E la recessione ecomomica non spiega tutto). «Questa volta è accaduto il contrario»: Barbara Cupertino, che con Alberto Maiale ha curato la duegiorni, non nasconde una certa soddisfazione di fondo. «Questa volta è stato l’ente pubblico a proporre al Circolo Arcitrullo di riannodare il filo del discorso interrotto. Riconoscendo, evidentemente, la validità del lavoro svolto in precedenza. E incaricandosi di coprire, con il sostegno di alcuni sponsor, il costo dell’operazione. Un costo contenuto, per la verità: anche perché l’Alberobello Jazz Festival, pur vantando la partecipazione di diversi artisti di respiro nazionale e internazionale, da sempre, non ha mai voluto tradire la filosofia che lo sorregge. Questa rassegna, cioè, è soprattutto una vetrina per gli artisti di casa nostra. Per quanti hanno voluto e vogliono confrontarsi con le idee e le personalità che arrivano da fuori regione. Per quanti provano a crescere, apportando il proprio contributo all’evoluzione della musica sul territorio». Ma è pure bello sapere che la gente ha ancora fame di progetti. Nonostante tutto. Spaventata, magari, dalla sensazione di poter perdere progressivamente gran parte degli appuntamenti live. Che, da un po’ di anni, sembravano aver caratterizzato le estati pugliesi. E che certi venti rischiano di spazzare definitivamente. Ed è bello apprezzare la risposta del pubblico, accorso compatto nel piazzale antistante il Trullo Sovrano, antica location della manifestazione. Malgrado la concomitanza dei Mondiali di calcio, peraltro mosci e deludenti, senza appeal. «I conti si faranno con calma», certifica la Cupertino. «Ma non possiamo lamentarci: l’Alberobello Jazz Festival è tornato, ritrovando la sua platea. E lanciando un’altra proposta, quella dei concerti-aperitivo, una sessione mattutina che ha coinvolto gli studenti del Conservatorio». In altre parole, il futuro. Il futuro della musica che si para di fronte, inseguendo le tracce del passato. A volte, succede qualcosa. E si recupera un po’ del tempo perduto. Ad Alberobello qualcuno ha capito: chissà che capire non diventi una malattia sana e contagiosa. Un po’ ovunque. Ne avremmo bisogno, in questa terra che attende fermento, lavoro e pure turismo. Dimenticando spesso di incoraggiarli.

Alberobello Jazz Festival 2010
piazza Sacramento (Trullo Sovrano)

Band'Union (Daniele Di Bonaventura: bandoneón; Marcello Peghin: chitarra dieci corde; Felice Del Gaudio: contrabbasso; Alfredo Laviano: percussioni)
19.06.2010

Connie Valentini (voce) & Camillo Pace (contrabbasso) in "Uhuru Wetu"
guest Nico Masciullo (percussioni) e Antonio Lorè (tromba)

Javier Girotto (fiati) & Vertere String Quartet (Giuseppe Amatulli: violino; Rita Paglionico: violino; Giovanna Buccarella: violoncello; Domenico Mastro: viola) in "Nahuel"
20.06.2010