venerdì 27 agosto 2010

Gezziamoci, jazz tra la gente


Ventitre anni. Gezziamoci, dal millenovecentoottantasette, è il jazz di Lucania. Senza contare i ventiquattro mesi precedenti di associazionismo puro: cioè, non dichiaratamente operativo. E’ il jazz che torna puntuale, anno dopo anno. Restringimento (dei contributi) dopo restringimento. E’ il jazz che si ramifica in quest’angolo di Italia. E che, da un po’, ha cominciato a infiltrarsi tra la gente, per le strade. Condividendone i luoghi. Che, poi, sono gli angoli, le strade e le piazze di una Matera ancora fiabesca, quella che l’Unesco difende. E che, da un certo punto di vista, anche la musica sta provvedendo a pubblicizzare.
Ventitre anni sembrano pochi. E, invece, sono tanti. Anzi, di questi tempi valgono molto di più: perché, oggi, è sempre più difficile assicurare e assicurarsi continuità. Che non è un punto di vista, ma un dato di fatto. Prima ancora della qualità: che resta un requisito soggettivo. E, in ventitre anni, la rassegna (ormai liofilizzata nei dodici mesi, ovvero spalmata in tre grandi sezioni: quella estiva, quella autunnale e quella invernale) dell’Onyx Jazz Club ha somministrato innumerevoli nomi, situazioni e rotte (questa volta, ad esempio, è quella del rock che si fonde con gli spartiti più propriamente jazzistici). Garantendo, nel tempo, una progettualità meritevole di migliore visibilità e di maggior rispetto.
E’ in estate, però, che Gezziamoci vive il momento più affascinante. E, se ci concedete il termine, più popolare. Perché le note si sposano al territorio. I banditori e le marching band, formazioni cariche di ottoni e buon umore, si mescolano al flusso di residenti e turisti, coinvolgendoli. E lasciandosi accompagnare nei pomeriggi. Lo struscio è solcato da soste brevi: in alcuni punti della principale arteria della città nuova e in quelli tra i più interessanti del borgo antico. La musica unisce. E conduce: verso le postazioni fisse in cui si sviluppano i concerti in programma. Più breve quello di prima serata, di propozioni standard il secondo.
La Conturband, quattordici elementi che arrivano dalla vicina Puglia (da Turi, per la precisione) e il banditore Rino Locantore aprono la seconda delle cinque giornate previste ad agosto: si sale, si cammina, si scende e si arriva tutti assieme nel piazzale antistante la Chiesa di San Giovanni, dove attendono Giacomo Maragno (alla chitarra), Vincenzo Cristallo (seconda chitarra) e il contrabbassista Gianfilippo Direnzo. La reunion, tutta lucana, s’incrocia con il sassofono del giovanissimo Giovanni Di Giacomo, siciliano di Piazza Armerina (l’incontro è frutto del gemellaggio tra Gezziamoci e Piazza Jazz). In scaletta, standard di Gerry Mulligan (che, con Chet Baker, dette vita al pianoless), brani degli anni cinquanta, ma anche composizioni attinte dal repertorio italiano (“Senza Fine”, di Gino Paoli).
Quarantacinque minuti in intimità, mentre la luna ancora piena spunta dalla gravina e i Sassi si illuminano. Poi, la marcia con la Conturband riprende tra gradini, vicoli, archi e larghi. Destinazione finale è il giardino del Complesso Le Monacelle, a ridosso del Duomo: l’omaggio alla musica manouche e, di conseguenza, al suo manifesto (Django Reinhardt) è affidato al Tolga Trio. Tra brani originali (due, “Liberdjango” e “Point of View”, fanno parte dell’ultimo lavoro discografico firmato da Tolga During) e composizioni largamente affermate, la formazione (con il leader, alla chitarra doppio manico, anche Lorenzo Lucci alla chitarra ritmica e il contrabbassista Alessandro Lo Mele) si concede volentieri alla contaminazione di diversi linguaggi musicali, sfruttando le atmosfere di una location senza tempo. La stessa location che, nel segmento estivo di Gezziamoci, ospita anche il Jazzentinean Project (26 agosto), il quintetto di Paola Arnesano (che ripropone in versione jazzata il sonngbook dei Police, 28 agosto) e l’Elettric Quartet di Giovanni Falzone (il 29). Lasciando alla casa grotta di via Casalnuovo l’esibizione del Complanare Acoustic Trio capitanato dal fasanese Martino Palmisano e, soprattutto, alla chiesa rupestre di Cristo La Selva il concerto per violoncello solo di Vito Paternoster, momento di grande effetto scenico che saluta l’alba del 29 agosto sotto le note di Bach.

Conturband & Rino Locantore (banditore) in concerto itinerante
Matera, centro cittadino

Reunion Project (Cosimo Maragno: chitarra; Vincenzo Cristallo: chitarra; Gianfilippo Direnzo: contrabbasso). Guest Giovanni Di Giacomo (sax tenore)
Matera, Piazzale antistante la Chiesa di San Giovanni

Tolga Trio (Tolga During: chitarra doppio manico; Lorenzo Lucci: chitarra ritmica; Alessandro Lo Mele: contrabbasso)
Matera, Giardini del Complesso “Le Monacelle”

Gezziamoci 2010

mercoledì 25 agosto 2010

Dal folklore al tango


Dalle tradizioni di un’Italia povera e pure un po’ sbandata al nuovo mondo, sanguigno e nostalgico, costruito su fatiche e speranze. Dalle terre amare consegnate ai ricordi al miraggio dell’Argentina, nuova realtà di una generazione accatastata sulle navi. E pronta a ripartire dalla terra ferma di un Sudamerica che si consolida e si evolve. Tango También... Dal Folklore al Tango è il racconto sonoro di un’epoca. Di un travaglio. E della storia di molti. Ed è un viaggio nella musica di due generazioni. Forse, anche di tre. Nella musica di due continenti, di due universi culturali. E, a pensarci bene, di uno stesso popolo. E’ il viaggio verso il tango. Che è (pure? Soprattutto?) il tango di Piazzolla, figlio d’emigrante e nipote perduto di una Puglia ancora arcaica. Un viaggio segnato da un ritorno emozionale, ma non geografico. Che solca le origini, raggruppandole. Un percorso dai profumi forti, dove molte malinconie si confondono. E premono. Tango También è il viaggio che il poliedrico Rocco Capri Chiumarulo, il Nuevo Tango Emsemble (ovvero il bandoneonista foggiano Gianni Iorio, il pianista Pasquale Stafano e il bassista Pierluigi Balducci), il polistrumentista altamurano Nico Berardi e il percussionista Pippo D’Ambrosio intraprendono tra gli ulivi di Cristo delle Zolle per l’Estate Monopolitana 2010, sotto la supervisione dell’associazione culturale Terrae. Che, idealmente, parte dalle parole dello scrittore e drammaturgo Manuel Puig: «I messicani discendono dagli aztechi, i peruviani dagli inca, gli argentini discendono dalle navi». E che sintetizza le tappe di una migrazione dai contorni drammatici, eppure capace di trascinare per l’oceano l’energia del folklore e delle genti del meridione d’Italia, ma anche «la poesia e lo struggimento per un tempo passato che non tornerà mai più». Diventando la causa (o il pretesto) di un fenomeno di meticciato assolutamente originale.
Rocco Capri Chiumarulo guida, istruisce, spiega. La sua voce si intreccia immediatamente con la zampogna di Nico Berardi. La modugnana Amara Terra Mia è l’inizio della storia. E del viaggio. E’ quello che resta alle spalle, è la motivazione che spinge a cercarsi un futuro altrove, lontano. Si unisce Pippo D’Ambrosio e cominciano a scorrere i fotogrammi immaginari, vergati dai versi di Peteco Carbajal, Alfonsina Storni e Jorge Luís Borges, dai tanghi di Gardel, dalle note bagnate di huayno, vals, candomble, chacarera, zamba, milonga. Il Nuevo Tango Ensemble sale sul palcoscenico più tardi, disegnando una sorta di staffetta: scenograficamente corretto. E’ la prospettiva che cambia. E’ l’Argentina che cresce. E’ il nuovo che avanza. Iorio, Stafano e Balducci indugiando sull’universo piazzolliano. Poi, prima che il concerto si concluda, si ritrovano tutti assieme. Perché l’Argentina è la somma di due popoli, di due culture. O il concentrato di una storia dolente. Nata, anche e soprattutto, nelle terre di Puglia. E, infine, raccontata da pugliesi. Un omaggio al tango. Un omaggio alla musica. Alle nostre coscienze. E alla nostra memoria storica.

Rocco Capri Chiumarulo (voce), Nico Berardi (zampogna, charango, flauto dolce e chitarra), Pippo “Ark” D’Ambrosio (percussioni) & Nuevo Tango Ensemble (Gianni Iorio: bandoneón; Pasquale Stafano: pianoforte; Pierluigi Balducci: basso acustico e basso elettrico) in “Tango También… Dal Folklore al Tango”
Cristo delle Zolle di Monopoli (BA), Anfiteatro
Estate Monopolitana 2010

venerdì 20 agosto 2010

Il cuore nordico di Prelude


Va, viene. Riparte, ritorna. Francesco Angiuli è uno di quei musicisti di Puglia che hanno scelto le emozioni dell’esperienza all’estero. Che hanno scelto di confrontarsi, lontano dalle comodità di casa propria. Con culture musicali diverse, con profili di vita differenti. E con altrui scuole di pensiero. Naviga da tempo nel panorama jazzistico olandese: del quale, magari dopo qualche comprensibile apprensione (niente è scontato, nulla è dovuto), è ormai parte integrante. Muovendosi, però, abbastanza spesso: un po’ di qua e un po’ di là. Osservando con attenzione i palcoscenici dell’est dell’Europa. E senza aver mai reciso, tuttavia, i contatti con la sua terra. Anzi: Angiuli, contrabbassista monopolitano che ama le venature più moderne del jazz, in queste contrade scende di frequente. Trascinandosi, talvolta, alcuni pezzi del suo nuovo mondo musicale, che orbita nelle pieghe della musica nordica, ma anche nell’universo (tutto da scoprire) di paesi jazzisticamente emergenti come la Serbia o la Polonia.
Il ragazzo, questa volta, si fa accompagnare da Walter Wolff, pianista finlandese misurato ed essenziale, non ancora trentenne, e da Andreas Fryland, batterista ventisettenne che arriva da Copenhagen e che sa essere presente ed incisivo, pur senza picchiare su piatti e tamburi. L’occasione è utile a presentare Prelude, il recentissimo lavoro dell’European Trio, formazione che coniuga stile e sostanza, esibitasi in due date distinte: la prima a Valenzano e la seconda a Polignano, nel contesto di Persevisioni, manifestazione che incoraggia i filmaker, consumatasi in piazza San Benedetto. Prelude, ancora in attesa di essere commercializzato dall’etichetta Challenge, sarà stampato in autunno (il tempo di limare qualche dettaglio), ma offre sin da adesso un jazz corposo e attento alle linee melodiche: un particolare che la forte matrice nordica della formazione non lascerebbe sospettare. Il trio, ormai decisamente rodato, cura i dettagli, dedicandosi spazi abbondanti per assoli e improvvisazioni. Il palco, così, si divide equamente per tre, dispensando note di sicuro impatto e di sicura eleganza. Eleganza mai stantìa: e che mai corre il rischio di impantanarsi nella ricerca testarda di soluzioni impreviste o di effetti sonori esasperati, che talvolta macchiano le produzioni di questi tempi, spesso obbligate a rincorrere il gusto della novità a qualsiasi prezzo. «Ci conosciamo da un po’ – assicura Francesco Angiuli – e abbiamo ormai raggiunto un nostro equilibrio. Con Walter e Andreas abbiamo cominciato a girare per l’Europa e, oltre tutto, tutti assieme abbiamo condiviso con un vibrafonista di assoluto livello come Teddy Charles l’esperienza di un album registrato dal vivo, al Bimhuis di Amsterdam, editato di recente. Questo progetto, del resto, ha radici sufficientemente lontane: diciamo che nasce tre anni fa, mese più, mese meno». Ma non è tutto. «E sì, perché, prossimamente è previsto un live recording con Paolo Fresu, al quale abbiamo già fatto ascoltare diverse tracce del nostro lavoro. Ne è rimasto favorevolmente impressionato: l’accordo è di risentirci. E di confrontarci sul palco».

Walter Wolff (pianoforte), Francesco Angiuli (contrabbasso) & Andreaa Fryland (batteria) in "Prelude"
Polignano a Mare (BA), piazza San Benedetto
Persevisioni 2010

giovedì 12 agosto 2010

Sulla spiaggia con Giovanni Block



«Quello del cantautore è il mio mestiere. Un mestiere che, talvolta, mi ha deluso. In un’epoca in cui non è facile esserlo. In un momento in cui ci impongono molte cose e, tra queste, anche la musica. Proprio mentre qualcuno dice che i cantautori, oggi, non hanno niente da raccontare. Anche se, evidentemente, non sono d’accordo». Giovanni Block è un napoletano guadente e scanzonato come molti figli della propria terra. Ma, tra le righe dei suoi testi, nasconde qualche piccola (o grande) verità. E qualche ritaglio di un certo tumulto interiore. Come qualsiasi cantastorie dei giorni nostri. O di un certo disagio, dissimulato con molta autoironia. Con quella simpatia semplice e diretta, talvolta vagamente clownesca. E con quella faccia da bravo ragazzo: lontano, per intenderci, dal maledettismo e dal pessimismo della canzone profondamente impegnata degli anni settanta. Cantautore inserito nel contesto, ecco. Nel contesto di questi tempi. Dove il cantautorato non rinuncia aprioristicamente al gusto del frivolo: senza offesa, s’intende. Dove i grandi temi sociali e culturali sono spesso sostituiti da un’osservazione abbastanza asciutta della quotidianità. Che è meno profonda di ieri, in certi dettagli. Ma che, in fondo, spiega come quasi niente sia cambiato, in quarant’anni. E di quanto, invece, si sia ulteriormente deteriorato: nei costumi, nella mentalità, nei comportamenti della gente e di chi ne disegna le sorti. Chiariamo sùbito: Block non viaggia sul solco segnato da un Guccini (ci sembra, anzi, di aver colto che non ne condivida il cliché artistico) e tanto meno da un Lolli, nè da un De Gregori o un De Andrè. Talvolta, piuttosto, potrebbe ricordare Concato, ma i paragoni – questo tipo di paragoni – non ci piacciono affatto. Perchè sanno di superficialità. E, certe volte, il suo modo di approcciarsi al palco rivela qualche simpatia per la formula di teatro-canzone: ma navigheremmo ugualmente fuori rotta. L'autore, ventiseienne, vive soltanto il suo stesso personaggio e, magari, non insegue nessun mito. Il suo cantautorato si affaccia timidamente anche sul pop, ma non è propriamente musica leggera. E il suo rapporto particolarmente confidenziale con la platea rifugge dalla figura un po’ snob dell’intellettuale prestato alla musica. I suoi testi, oltre tutto, non sono affatto ermetici. E, inoltre, il gruppo che lo accompagna s’intrattiene spesso su un tessuto sonoro gravido di venature jazzistiche, pronte però ad accettare influenze decisamente moderne (chitarra e basso elettrico, del resto, non cooperano per caso). Già, il jazz: contorno saporito, ancorchè seminascosto, un gradino sotto il suo leader. Al quale, peraltro, spesso piace appartarsi con la gente, in compagnia della sola chitarra. Il jazz che è il trait d’union tra Giovanni Block, già Premio Tenco nel 2007, e Argojazz 2010. L’esibizione sulla spiaggia dell’esclusivo Porto degli Argonauti, resort di diffuso buon gusto del versante jonico di Lucania, non fiorisce casualmente, cioè. La rassegna ammicca, da sempre, ad un certo tipo di sonorità. E ad un certo tipo di musica, strettamente collegata al jazz. Di più: Block è il vincitore della settima edizione di Argojazz, che ogni anno promuove la figura di un musicista rampante (nel recentissimo passato, ad esempio, è stato premiato anche il nostro Mirko Signorile). Condizione, questa, che non impedisce al musicista partenopeo (a proposito, è anche flautista) di delimitare il live con la leggerezza (e, ogni tanto, con l’effervescenza) delle parole. Anche di quelle rovesciate con quell’impeto giovanile che - prima a poi, chissà - riuscirà a gestire con esperienza, a dosare con maggiore sicurezza. E che, soprattutto, non gli impedisce di giocare con le storie e, perchè no, con la mitologia di questo secolo (tronisti e bulli latini compresi, a cui è dedicata una canzone divertita) e con i parolieri più celebrati (l’unica cover proposta è “It’s Wonderful", di Paolo Conte). Due modi come altri per non prendersi troppo sul serio. E per colorare una notte sulla spiaggia, quella del dodici agosto, assolutamente intrigante. Buona, si sarebbe detto, per catturare le stelle e lasciar fruttare qualche desiderio. Anche se, in realtà, dal cielo non sono piovuti segnali importanti. Oppure, se sono piovuti, non ce ne siamo accorti. Il tempo, però, è transitato ugualmente. E non è transitato invano: questione di atmosfera, ci viene da pensare.

(foto Angelo Nicola Caroli)

Giovanni Block (voce, chitarre e flauto), Carlo Castellano (pianoforte e tastiera), Simone Sessa (chitarra elettrica), Pasquale Bellocaso (basso elettrico) & Ron Grieco (batteria)
Marina di Pisticci (MT), Porto degli Argonauti di Lido Macchie
Argojazz 2010

lunedì 9 agosto 2010

E, sulla strada di Lenoci, spunta Murray


Gianni Lenoci e la ricerca. La ricerca e lo studio. L’introspezione di una passione. La passione per l’improvvisazione, per le forme alternative di interpretazione: quelle un po’ meno convenzionali, un po’ più ardite. Per quel jazz di confine che si perde nei meandri della musica contemporanea e anche di quella classsica: assumendo, perché no, i contorni di una sfida. O per quel jazz di avanguardia capace, tuttavia, di recuperare le proprie radici. L’artista monopolitano, tra introspezione e approfondimento, persegue un proprio percorso musicale. Che si smista in tanti rivoli sonori. Talvolta ostici, talvolta colti, talvolta ermetici, talvolta estremi. Abbandonandosi, sempre più spesso, a progetti affascinanti e differenti. Di difficile accesso o di più semplice approccio: dipende. Mettendosi, però, al servizio del panorama musicale pugliese con idee e coraggio, sempre. Con fantasia e , forse, con un pizzico di lucida follia.
L’ultima proposta è l’incontro dal vivo tra una delle versioni della sua formazione (l’Hocus Pocus, ensemble variabile particolarmente attivo anche nei territori della didattica, questa volta asciugatosi in trio) e uno dei big dell’universo jazzistico statunitense. Cioè David Murray, sassofonista di culto e parte integrante, a pieno diritto, di quel contingente di protagonisti dell’avanguardia afroamericana: così vicini, peraltro, ai concetti fondamentali e alla formazione culturale del pianista pugliese. Ed è una proposta più prossima ai gusti popolari, sicuramente. Come, peraltro, è quasi logico attendersi da una rassegna estiva, quella dell’associazione Euterpe, ideata a stretto contatto con l’amministrazione comunale di Monopoli, e consumata nell’anfiteatro all’aperto di Cristo delle Zolle, davanti alla chiesa del piccolo borgo rurale poggiato al lato della strada che guida verso Alberobello.
L’Hocus Pocus, per l’occasione, si avvale della presenza dell’affidabilissimo Pasquale Gadaleta al contrabbasso e di Giacomo Mongelli, batterista ormai pienamente assorbito dalla progettualità lenociana, rispondendo a quei criteri di essenzialità che punteggiano il live, profondo e – allo stesso tempo – sostenibile per chiunque. Paragonato ad altre esperienze musicali del recente passato griffate Lenoci, il sound è decisamente più morbido, arricchito di tratti delicati, intriso di atmosfere e di grande equilibrio. Da ascoltare in silenzio. E, tuttavia, non difetta (malgrado l’impossibilità di collaudare più attentamente l’inedito quartetto prima del concerto) il viaggio alla riscoperta di certe influenze sonore e delle loro origini. Al di là degli schemi.
L’esibizione non è soltanto una raccolta di composizioni (alcune ben conosciute ad un pubblico più vasto, come “Honk Kong Song”) di Murray e dello stesso Lenoci, affiancate da due standard di largo successo (“Body and Soul” e “In a Sentimental Mood”): ma un tragitto di gusto solcato da fraseggi e assoli di tecnica pulita, assolutamente significanti. Il resto è nel fiato e nella facilità di esecuzione di Murray, compositore che ama la rilettura e interprete di linguaggi trasversali: quanto di meglio per coniugare le esigenze di una programmazione estiva (che, necessariamente, deve guardare ad un certo coinvolgimento emozionale di residenti e turisti) con una certa sete di qualità. Della quale, sempre più spesso, ci si dimentica. Soprattutto dietro le scrivanie di un assessorato alla cultura.

David Murray (sassofono) & Hocus Pocus Trio (Gianni Lenoci: pianoforte; Pasquale Gadaleta: contrabbasso; Giacomo Mongelli: batteria)
Cristo delle Zolle di Monopoli (BA), Anfiteatro
Estate Monopolitana 2010

giovedì 5 agosto 2010

Kapedani, pianismo balcanico dagli orizzonti vasti


Il mondo è sempre più piccolo, raccolto. E le sue impronte ritmiche sembrano riassumersi e fondersi tra le tastiere di Markelian Kapedani, trentottenne che arriva dalle tradizioni sonore di un’Albania ancora ancestrale e che, ormai, si esprime compiutamente in italiano. Pianista forbito, Kapedani: uno che possiede doti intuitive e compositive. Che miscela tecnica e orizzonti vasti. Che divaga tra spartiti, ad un primo ascolto, impegnati. Eruditi, persino. Ma che, in realtà, attinge ad un ventaglio vasto di proposte dall’animo fortemente popolare. Proposte che rielabora e che ci restituisce con eleganza. Kapedani è uno di quegli artisti che, ultimamente, attirano tanto: anche e soprattutto perché il suo è un pianismo che viene definito contemporaneo. Che entra facilmente nel cuore del pubblico e della critica: e che, quindi, diventa di tendenza. Ma il talento è cristallino. Tutte argomentazioni che non sono sfuggite a Bass Culture, ovvero la mente organizzativa del Locus Festival, la rassegna locorotondese che, solitamente, si diverte a catturare questo genere di situazioni e che, difatti, si è chiusa proprio con il solo dell’artista di Scutari, esibitosi a queste latitudini per la prima volta in assoluto. L’arte di Kapedani, ovvio, è solidamente temprata da ritmi e dinamiche di provenienza balcanica. Lì ci sono le radici, lì sgomita l’ispirazione. Lì nasce il progetto che, poi, si allarga, si completa, si corrompe. Dentro c’è l’Albania da cui non ha saputo separarsi. E dentro ci sono i suoi primi studi musicali, forgiati dal padre Djon Kapedani, scomparso un anno fa, forse l’espressione più autorevole della musica popolare del proprio Paese. E lì ci sono i timbri di una certa scuola musicale, la passione e la conoscenza per certe danze, per certe sonorità. Che sconfinano, peraltro, in Bulgaria, in Grecia. Anche in Egitto. O a Cuba.
La circumnavigazione del globo è agile. Ma l’esibizione dal vivo è sempre molto densa. Markelian ha tocco, ma anche temperamento. Le sue linee espressive si concedono, per alcuni momenti, pure alle illusioni flamenche. Anche se, poi, la strada punta nuovamente sui Balcani e alle sue tradizioni ("Ortensia" è uno standard della sua terra, non può mancare). L’esibizione, tuttavia, va seguita attentamente: del resto, una certa freddezza melodica può renderla vagamente ostica alle orecchie meno allenate. Ma la pulizia d’esecuzione non può lasciare indifferenti. Come non lasciano indifferenti la fluidità pianistica e il lavoro ricerca speso sin qui. La qualità è anche questo. E’ innanzi tutto questo. Quelli del Locus, dunque, possono pubblicizzare tutta la loro soddisfazione: anche per il livello medio del cartellone, indiscutibilmente alto. Come gli altri anni. Anzi, forse di più.


Markelian Kapedani (pianoforte)
Locorotondo (BA), piazza Convertini
Locus Festival 2010