sabato 31 luglio 2010

Locomotive, il festival che nasce tra i binari


Il Locomotive Festival nasce al tramonto e si esaurisce a notte inoltrata. E, almeno una volta, non si ferma neppure. Perché le note salutano anche l’alba che spunta, a ridosso della basilica di San Mauro, che sorveglia il borgo di Gallipoli e la sua baia. E’ una delle storie che solcano il percorso di una rassegna giovane, ma già radicata nel territorio che la ospita (il Salento) e nei gusti degli appassionati del jazz. E, magari, anche a quelli del jazz un po’ più moderno. Un po’ più estremo, verebbe da dire. Cinque anni di festival, del resto, non sono tanti. Eppure, sono già abbastanza: considerati i problemi sparsi sulla strada dell’organizzazione, le crescenti difficoltà economiche in cui versano i privati e anche gli enti pubblici e il calo di sensibilità di certe amministrazioni locali. Ostacoli oggettivi che, talvolta, colpiscono duro, facendo abbassare la saracinesca. E che, altre volte, consigliano scorciatoie meglio praticabili (un cartellone ridotto o meno pregiato). Oppure operazioni di sinergica sopravvivenza: come la delocalizzazione e l’apertura della manifestazione ad un’area comprensoriale più vasta.
Ecco, a Sogliano Cavour (che è poi la patria e il cuore pulsante, da sempre, del Locomotive) è accaduto proprio questo. Raffaele Casarano, musicista rampante e ideologo dell’iniziativa, e i suoi compagni di avventura hanno intuito la convenienza del concetto di delocalizzazione. Approdando, massicciamente, al di fuori dei confini comunali: come già accennato, sulle alture di Sannicola, ma anche nell’alto Salento di Cellino San Marco, nella marina di Salve, in agro di Cutrofiano (in questo caso, però, si tratta di una conferma: la Masseria L'Astore aveva già ospitato alcuni capitoli delle precedenti edizioni) e persino sulla linea ferrata che unisce Bari a Lecce, gestita dalle Ferrovie del Sud Est. Lasciando, peraltro, a Sogliano due serate piene. Ma il risultato si è rivelato, ancora una volta, soddisfacente, malgrado certi timori e l’indebolimento ineluttabile della proposta (accade, quando la volontà si scontra con la realtà dei costi). Una proposta che, tuttavia, si è articolata in quattordici differenti situazioni dal vivo, in un night party coordinato da Max Baccano, Alessio Bertallot e Radio Deejay, in una rappresentazione teatrale (Iancu, produzione Koreja, con Fabrizio Saccomanno), in un fashion show curato da Federico Primiceri e, infine, in un happening di pittura (la personale di Francesco Cuna).
Il più insolito dei quattordici live, tuttavia, è proprio il primo, quello del ventiquattro luglio. Insolito, perché itinerante. Scorre sui binari di un treno e parte da Bari. Destinazione finale, Lecce. La musica dei Jazz Moments di Mino Lacirignola e dei Bandita attraversa il sudest barese e la Valle d’Itria. A Locorotondo, Martina, Manduria e Nardò, poi, le due formazioni scendono e improvvisano il proprio repertorio, in stazione. Quando, cioè, la sosta aggrega. Il giorno dopo, invece, il sassofono di Javier Girotto e il bandoneon del foggiano Gianni Iorio si incontrano sùbito dopo il live per piano solo di Roberto Cipelli, mentre il 27 luglio Raffaele Casarano (al Feelgood di Cellino) presenta il suo ultimo lavoro, Argento, di cui abbiamo parlato recentemente, proprio su queste colonne. Ancora note dal vivo al Kaibo di Marina di Salve (29 luglio): in riva allo Jonio si esibiscono il Gemma Live Project, il quartetto di Francesco Pennetta e Roberto Cecchetto.
Il giorno seguente, poi, ecco l’incontro tra il sassofonista Francesco Bearzatti e il trio di Giampaolo Laurentaci (al contrabbasso), accompagnato dal romeno George Dimitriu e dall’indonesiano Elfa Zuhlam. Il concerto nasce nel buio di prove mai consumate (Bearzatti sbarca in Salento al pomeriggio, a ridosso dell’esibizione), ma cresce per la perizia dei protagonisti. A seguire, il segmento probabilmente più godibile della manifestazione. E, sicuramente, il più ironico. Gianluigi Trovesi (ai fiati) e Gianni Coscia (organetto) si divertono ad autocelebrarsi e a ironizzare sui propri spartiti che toccano le disparate strade stilistiche disseminate nell’universo del jazz. Chiude la serata, invece, il gruppo che ha accompagnato sino al ritiro dalle scene Nicola Arigliano, a cui la quinta edizione del Locomotive Festival è stata dedicato. Ovviamente, senza il crooner di Squinzano è tutta un’altra storia: anche per questo, va detto per inciso, il live non decolla e non appaga. Come non convincono quegli inediti presentati dal quartetto: in sostanza, un progetto da rivedere e correggere. L’elenco degli ospiti si ferma con il concerto-degustazione della Brown Sugar Blues Band (alla Masseria L’Astore di Cutrofiano) e con l’atto conclusivo del quartetto di Luca Aquino, trombettista beneventano insignito del Top Jazz 2009 (Lunaria, fatica discografica uscita proprio l’anno scorso, è un disco sufficientemente elettrico, che si inserisce nel filone del jazz moderno). Niente male per una rassegna che si sta abituando a combattere con le problematiche della quotidianità. Che, peraltro, non piegano l’organizzazione, né il concetto di totale gratuità delle varie proposte. Un dettaglio di cui vantarsi.


Locomotive Jazz Festival 2010
Sogliano Cavour (LE), Cutrofiano (LE), Marina di Salve (LE), Cellino San Marco (BR), Sannicola di Lecce (LE), 24.07.2010 – 31.07.2010

sabato 17 luglio 2010

Classico Carioca, con garbo


La sensibilità verso l’universo musicale brasiliano cresce. E, estate o inverno non fa differenza, si moltiplicano progetti e omaggi sulla mpb, la música popular brasileira. Praticamente ovunque. Gli appassionati (crescono anche loro) ringraziano. E i più esigenti, adesso, possono persino permettersi di soppesare, spigolare e scegliere nel mare delle opzioni. Anche queste contrade sembrano aver scoperto (definitivamente) un genere che era (e, magari, rimane) sostanzialmente e fortunatamente di nicchia. E che non profuma solo dell’abusatissima (e, forse, anche un po’ stantia) bossa: perché, sì, dietro (anzi, avanti) alla bossa c’è tutto un mondo: quarant’anni di autori importanti, spartiti eleganti, testi di impegno sociale incomparabile e accordi accattivanti. Anche se molta gente pare essersene accorta solo di recente: in tempi di globalizzazione reale, quando – probabilmente – non è più necessario che l’arte, la cultura e anche la musica debbano necessariamente passare prima per gli Stati Uniti e poi in quel che resta del pianeta.
Comunque, ormai, di Brasile e di musica brasiliana se ne occupano in molti, prima o poi. E Brindisi in Jazz Summer 2010, cartellone breve varato dal Saint Louis College of Music, che in Puglia ha sede proprio nel capoluogo adriatico, ha deciso di aprire la sua duegiorni davanti al mare con un tributo al cantautore più titolato del Paese sudamericano, Chico Buarque de Hollanda. Che, ormai, preferisce spendere i suoi giorni nella scrittura (vanta quattro romanzi di assoluto rilievo: l’ultimo, Latte Versato, è appena uscito anche da noi), più che nella musica. Ma che, talvolta, torna ad esibirsi e a comporre: un’occupazione che lo coinvolge sin dalla metà degli anni sessanta e che, in un certo periodo, gli ha pure procurato qualche problema con la censura e con la dittatura militare (un paio di anni di esilio a Roma testimoniano efficacemente). L’introspezione del mondo buarquiano al porticciolo turistico brindisino si chiama Classico Carioca ed è un lavoro condiviso dalla vocalist Susanna Stivali (tradizionalmente assai vicina alle sonorità afroamericane, gospel compreso), dalla pianista romana Stefania Tallini (che al Brasile è legata particolarmente, considerati i vincoli personali con Guinga, peraltro sistemato in platea), dal bassista Marco Siniscalco e dal batterista abruzzese Nicola Angelucci. Quattro personalità sui sentieri di un intellettuale prestato alla musica o di un musicista prestato al patrimonio sociale brasiliano: il dibattito è aperto da anni e sarà difficile decifrare la realtà.
Del quartetto (e di Brindisi in Jazz), tuttavia, piace la scelta di Buarque. Scelta non convenzionale, proprio perché oltrevarca i limiti dell’abitudine (non sappiamo quanti siano in Puglia e in Italia, ad esempio, gli omaggi – più o meno convincenti – a Jobim e a João Gilberto. Che, spesso, deludono. E che, se non deludono, finiscono (o finiranno) per stancare. Non che la produzione buarquiana sia, in quest’angolo di Europa, totalmente sconosciuta, ci mancherebbe: ma pochi, pochissimi, hanno voluto o saputo scavare e concentrarsi esclusivamente sulle composizioni (non solo quelle di impatto alto, fortemente legate al filone della canzone di protesta degli anni sessanta, settanta e ottanta e, più tardi, ad una disamina disincantata della quotidianità, ma anche quelle più morbide) dell’autore carioca. Figlio, vale ricordarlo, di una delle personalità di spicco del modernismo brasiliano (Sérgio Buarque), fratello di una delle muse della bossa (Miúcha), cognato del già citato João Gilberto, suocero di Carlinhos Brown e padre (come Geraldo Vandré, Milton Nascimento, Edu Lobo e lo stesso Caetano Veloso) di una certa forma di canzone di rottura: con il passato e non solo.
“Tem Mais Samba”, “Morena dos Olhos d’Agua”, “Quem Te Viu” (eseguita strumetalmente), Valsinha (che qui cantò Mia Martini), “Samba do Grande Amor” (ovvero il pezzo cronologicamente più recente, tra quelli scelti per il progetto): il repertorio, in fondo, non fluttua tra i testi più impegnati, ma è arrangiato con ricercatezza, cura. Unica eccezione, la geniale “Construção”, a cui la Stivali offre un’impronta affascinante. Le versioni sono rigorosamente in italiano, nel solco delle traduzioni di Sergio Bardotti (e di Fossati, nel caso di “O Que Será”, sdoganata con forti venature jazzistiche). Unico testo in portoghese, eseguito con sola voce e piano, quello di "Beatriz", scritto a quattro mani con Edu Lobo, cioè il brano più titolato del Grande Circo Místico. Complessivamente, un concerto dai tempi sintetici (quarantacinque minuti, prima dell’esibizione del trombettista Flavio Boltro, accompagnato da Giovanni Mazzarino al piano, Marco Micheli al contrabbasso e Francesco Sotgiu alla batteria), ma partorito con garbo: come sarebbe piaciuto a Chico Buarque.

Susanna Stivali (voce), Stefania Tallini (pianoforte), Marco Siniscalco (basso) & Nicola Angelucci (batteria) in “Classico Carioca”
Brindisi, Porto Turistico
Brindisi in Jazz Summer 2010

lunedì 12 luglio 2010

L'argento vivo di Casarano


Raffaele Casarano, tra le altre, possiede l’abilità di comporre. Cioè, di comporre spesso. Sempre più spesso. La sua produzione, nel tempo, si è fatta decisamente copiosa. A ventinove anni, festeggia già il terzo disco realizzato a proprio nome. Un nome già abbastanza ricorrente anche lontano dal suo Salento: per il proprio evidente talento e, perche no, anche per l’ormai collaudata partnership con l’ amico e maestro Paolo Fresu, uno dei musicisti più ricercati del momento in ambito jazzistico e, sicuramente, uno dei più richiesti dal mercato discografico e dai festival di tutta Italia e di gran parte d’Europa. Partnership, è giusto rammentarlo, gravida di occasioni importanti, come due dischi (Legend e Replay, i primi due) e la conduzione del Locomotive Festival di Sogliano Cavour, rassegna creata proprio da Casarano nella sua città (che, a proposito, tornerà proprio nella seconda metà del mese di luglio).
L’antica intesa, anzi, si fa sempre più salda: e lo dimostra proprio il terzo album del sassofonista salentino. Che per la cronaca, si chiama Argento e che è stato appena prodotto proprio da Fresu. Diventando, per la precisione, il lavoro che apre la collana dell’etichetta Tuk Music, ora ufficialmente sul mercato. «Sinceramente – rivela Raffaele Casarano – dubitavo che Paolo Fresu potesse essere profondamente interessato a questo progetto. Un progetto un po’ particolare, ricco di sonorità elettroniche, lontano da certi arrangiamenti più tradizionali. Invece, gli ho mandato il demo e gli è piaciuto. E, infine, ha deciso di metterci sopra il nuovo marchio». Sorpreso, dunque: ma felice. E orgoglioso di queste undici tracce (tutte firmate da lui) dagli accenti forti e dal vigore diffuso, in cui l’apporto dell’elettronica è assolutamente decisivo e anche le percussioni incidono abbastanza.
La prima dal vivo di Argento, uscito proprio in questi giorni (i tempi, in realtà, hanno sofferto uno slittamento, comunque complessivamente accettabile), si consuma a Cisternino, nel quadro di Itria Jazz, la (nuova) manifestazione estiva ideata e coordinata da Mino Lacirignola, trombettista fasanese ormai emigrato in Valle d’Itria da qualche anno. L’impatto sonoro è possente, talvolta ruvido, tuttavia ammorbidito dalle tonalità calde dei sassofoni del leader e dalla chitarra flamenca di Checco Leo (aprezzato l’assolo che non è parte integrante del cd, ma che in realtà sostituisce quello elettronico, improponibile nella cornice di piazza Vittorio Emanuele). Le fondamenta sono jazzistiche, ma gli arrangiamenti e le evoluzioni di ciascun brano le stravolgono. L’impronta è profondamente rockeggiante. Il ruolo di Marco Rollo, alle programmazioni, è irrinunciabile e incessante. Il percorso di Raffaele Casarano, del resto, accarezza già da un po’ timbri aggressivi: e Argento, semmai, estremizza certe tendenze degli ultimi tempi. Confermando, intanto, la personalità, la curiosità e le idee del suo autore, in costante maturazione artistica.
Il disco, sia chiaro, non segue la traccia di Replay, il titolo che lo precede cronologicamente. E’ un’altra cosa, punto. La novità, invece, alberga nella formazione. Questa volta non ci sono i Locomotive, il gruppo che storicamente accompagnava Casarano (il pianista Ettore Carucci e il batterista Alessandro Napolitano, però, intervengono rispettivamente in tre e quattro tracce dell’album). La band è totalmente made in Salento: Marco Bardoscia, al basso elettrico e al contrabbasso, è il filo rosso che collega Legend e Replay ad Argento (oltre tutto, si accolla l’ arrangiamento per archi di “Via dei Corbezzoli”). Alla chitarra elettrica c’è Salvatore Cafiero, alla tastiera il giovanissimo William Greco, alle percussioni Alessandro Monteduro. Il disco, comunque, si avvale di altre collaborazioni: quella di Giuliano Sangiorgi dei Negramaro (suo il solo di chitarra in “Trilogy”), di Valerio “Combass” Bruno, della vocalist Carla Casarano, dei Vertere String Quartet e di Daniele Di Bonaventura (il suo bandoneón è presente in quattro pezzi). Simone Borgia, infine, cura gli arrangiamenti per archi in “Trilogy” e “Binario X”, cioè il brano che apre Argento, titolo dalle origini misteriose. «Perché Argento? Non lo so – spiega Casarano -, Paolo Fresu ha scelto così». E Argento sia, allora.

Raffaele Casarano (sax alto e sax soprano), William Greco (tastiera), Checco Leo (chitarra acustica), Salvatore Cafiero (chitarra elettrica), Marco Bardoscia (basso elettrico e contrabbasso), Alessandro Monteduro (percussioni) & Marco Rollo (programmazioni) in “Argento”
Cisternino (BR), piazza Vittorio Emanuele
Itria Jazz 2010

sabato 10 luglio 2010

Tre solisti per il Locus


Locus Duemiladieci trova momenti difficili, che sono i momenti impervi di chiunque, in questi mesi affannati. Stringe i denti e sgomita, patisce come tutti, temendo persino la paralisi o, almeno, il ridimensionamento dei contributi pubblici e, quindi, del programma. Ma, alla fine, si presenta, per il sesto anno consecutivo. Sempre in un paio di piazze e all’interno della Cantina Sociale di Locorotondo, con otto situazioni dal vivo pianificate in poco meno di trenta giorni: dal dieci luglio (data del concerto inaugurale firmato dall’insolito trio formato da Paolo Fresu, Trilok Gurtu e Omar Sosa) al cinque agosto. Attraverso i quali sfileranno anche i live di Gil Scott-Heron, di Bobo Rondelli, Esperanza Spalding, dei Quiet Nights Orchestra, di Markelian Kapedani (tutti ad ingresso gratuito), dei King of Convenience e di Malika Ayane (a pagamento). Superando, peraltro, problemi supplementari e assolutamente inattesi (la recentissima scomparsa del sindaco del centro valditriano, a cui simbolicamente la rassegna è stata dedicata).
Dura, la vita. Perchè sempre più complicata è la strada della promozione musicale. Ma tant’è: e, allora, in questi casi, diventa più gradificante godere di qualche data di buona qualità, quando piove alle nostre latitudini. Come, appunto, quella che ha aperto la manifestazione, in piazza Mitrano. Al centro, tre solisti dal curriculum ormai robusto e prestigioso. Tre solisti capaci, però, di formare una squadra. Di assemblare un’esibizione credibile sino in fondo. Concerto vero, dunque: non una semplice reunion di protagonisti incociatisi per solleticare la curiosità della gente e per attirare il grande pubblico, che poi è ormai un segno distintivo del Locus Festival (anche questa volta platea gremita, malgrado una contemporanea finalina del Mondiale tra Uruguay e Germania, tra l’altro niente male). Ma un live ben assemblato, equilibrato e, soprattutto, ben arrangiato. Curato nei dettagli, non vaporoso.
A sinistra del palco, il pianista cubano Omar Sosa, quarantacinquenne eclettico, abituato a condividere progetti con personalità di primo piano (il suo ultimo lavoro discografico, Ceremony, realizzato con Jaques Morelembaum e altri sodali, è uscito da pochi mesi). Al centro, il trombettista sardo Paolo Fresu, sempre più pugliese d'adozione (da noi, si vede sempre più spesso: al Locomotive Festival di Sogliano è addirittura di casa e, al Locus, è una presenza praticamente fissa). Alla destra, Trilok Gurtu, percussionista che viene da Bombay ma che è, da sempre, cittadino del mondo e che può fregiasi delle collaborazioni intrattenute con gente come Zawinul e Metheny, custodite all’ombra di un bagaglio tecnico assolutamente raffinato. Tutti assieme, dunque, per una serata dai timbri moderni, ma ugualmente caldi. Dove anche la forma scenica (certe torsioni, certe gestualità) ha un proprio diritto di asilo.
Il progetto mescola tradizione e nuovi dialoghi, diventando una sfida amichevole tra tre talenti che sanno cercarsi e che si trovano con puntualità, per poi procedere uno al fianco dell’altro. Tra le note, c’è molto di ognuno di loro e tanto delle esperienze indiviuali di ciascuno. E c’è, ovviamente, la Cuba di Sosa, l’India di Gurtu e l’Italia di Fresu. Talvolta, il concerto assume sonorità tipicamente latine, poi si fa più intimo e introspettivo, poi si concede alle atmosfere, quindi diventa più istrionico. Altre volte, invece, le sfumature diventano più etniche e, spesso, si affacciano gli effetti dell’elettronica, ai quali – ormai – i musicisti, di qualunque provenienza (geografica e artistica), non sanno più sottrarsi. Il primo approccio con la sesta edizione di Locus, cioè, è anche sufficientemente originale: quanto di meglio si può chiedere ad un festival. Partito tra i disagi dell’incertezza. Ma partito bene.
(foto di Massimo Mantovani)

Omar Sosa (pianoforte, fender rhodes ed elettronica), Paolo Fresu (tromba, flicorno ed electronica) & Trilok Gurtu (batteria e percussioni)
Locorotondo (BA), piazza Mitrano
Locus Festival 2010

venerdì 9 luglio 2010

Cinque corde per improvvisare


Di qua e di là. Spaziando tra i ritmi, senza freni. Con una tecnica persino debordante. E, forse, anche ingombrante. Con la sua musica esuberante, voluminosa. Oltre lo steccato dello spartito, sempre. Giocando a improvvisare. E, probabilmente, pure a compiacersi. Toccando ovunque, per poi fuggire. E poi, magari, tornare. Attorcigliandosi attorno ad un tema: per entraci, corteggiarlo e, infine, per tradirlo. Per modificarne la struttura, per avvolgerlo e per abbandonarlo, battendo nuove strade. Quelle che partono dall’emozione. O dall’emotività del momento. Dal cuore, certo. Ma anche dal freddo calcolo di uno studio attento. Perché, sotto l’improvvisazione, c’è sempre una pianificazione serrata, robusta. Talvolta, maniacale. Dal cuore e dalla testa, allora. Cioè, dalla mediazione tra sensi e applicazione. Dove l’istinto forma e, alla fine, guida. Aggrappandosi, però, ad un lavoro di fondo sostanzioso e aggressivo.
Francesco Del Prete e il suo violino. Un violino francese a cinque corde, di vetroresina. Il risultato dell’addizione è Corpi d’Arco, progetto che vanta già un anno di vita, diverse esibizioni dal vivo e, ovviamente, anche un disco. E che Collepasso In Veste d’Arte, rassegna organizzata da Cantieri Ideali, ha voluto ospitare nell’atto conclusivo del suo cartellone estivo all’interno del Palazzo Baronale del piccolo centro salentino. Progetto che, giura lo stesso Del Prete, primo violino dell’orchestra della Notte della Taranta con un ricco pedigrée nell’ambito della musica popolare di Terra d’Otranto, ma ormai stabilmente affacciatosi su palcoscenici più ampi, si trasforma in ogni appuntamento live. Proprio perché, mai come in questo caso, l’improvvisazione è punto nodale e valore imprescindibile. Anzi, necessario.
«Corpi d’Arco –spiega – è un percorso nato attraverso le sfumature e i colori che un violino a cinque corde può garantire, anche in veste assolutamente alternativa. Un progetto che mi coinvolge totalmente e che si modella con una pedaliera e una loop machine, tributo all’elettronica utilissimo per costruire sul momento tonalità supplementari». I suoni, così, si moltiplicano, si sdoppiano, si incrociano, formando un tappeto sonoro variegato. «Corpi d’Arco è, al momento, la mia massima espressione musicale. Ma mi piace sottolineare l’istantaneità del percorso. In pratica, compongo sul momento. Ovviamente, nei concerti, anche per un biosogno contingente, preparo delle strutture sulle quali, successivamente, posso lavorare. Altrimenti, non basterebbe un’ora per un solo pezzo».
In realtà, nei settancinque minuti dal vivo, si alternano una decina di composizioni: da “Alta Lena” a “Girandola”, da “Arpeggio di Luna” a “Respiro Elettrico”, da “Il Cappello di Latta” (preceduto da alcuni versi di Maria Pia Romano, con la quale Del Prete ha condiviso più volte la scena) a “Rosso di Tango”, da “Un’Allegra Maitresse” (il titolo è provvisorio, non fa parte del disco) a “Di Lei”, da “La Corsa del Cavallo a Dondolo” a “Rivers in Reverse” (dove utilizza, appunto, il reverse, un effetto timbrico particolare che duplica le note al contrario). Il violino, così, è punto di riferimento, ma anche spalla di se stesso. E strumento di percussione, talvolta. Certe volte, si elettrifica. Altre, sembra frantumarsi in rivoli differenti e convergenti. Non c’è schema che lo limiti: la libertà è inseguire l’ispirazione. L’elettronica, certo, offre un contributo corposo. Decisivo, ai fini dell’ascolto. Ma le intuizioni compositive, la fantasia, le esecuzioni nette, l’elasticità e anche il coraggio scrivono intrecci sonori accattivanti. Quello che, probabilmente, il contenitore di Cantieri Ideali cercava: puntando sugli artisti del territorio. Ma, soprattutto, sulla creatività e la progettualità. Scommessa vinta.

Francesco Del Prete (violino, pedaliera e loop station) in “Corpi d’Arco”
Collepasso (LE), Palazzo Baronale,
Collepasso InVeste d’Arte

lunedì 5 luglio 2010

Penelope, profumo di Adriatico


Nuove strade, percorrendo vecchi sentieri. Centrifugando emozioni e affinità eletive, suoni e retaggi culturali. Le frontiere della musica popolare e anche quella della tradizione si sono allargate da tempo. Guardando a sud, a nord, ad ovest. E ad est: da dove provengono tonalità che si allacciano volentieri alla cultura mediterranea della Puglia. E, da tempo, la radice salentina si è ramificata oltre l’Adriatico, in luoghi dove sa nutrirsi per tornare rimodellata, arricchita. Gli Adria, per esempio, sono tra quelli che, sempre più spesso, oltrevarcano quel mare che unisce: riapprodando, infine, sulle sponde di Puglia. Scambiando con quel mondo vicino e ancora un po’ misterioso idee, sensazioni, esperienze. Claudio Prima, il suo leader, sperimenta, accosta, rischiando soluzioni anche imprevedibili: da anni. Con la sua Bandadriatica, che poi è l’evoluzione orchestrale del progetto di base, e con questa formazione di soli quattro elementi: più intima, meno invadente, più attenta alle sfumature. Il viaggio di andata e ritorno verso sponde diverse, dunque, è datato. E non si ferma mai. Adria, cioè, è l’intuizione di partenza che non si sgretola. Ma che, anzi, si fortifica. Che vanta molte situazioni dal vivo e buona fama. E che, nonostante tutto, sino a maggio scorso non si sorreggeva su alcun supporto discografico. Stranamente.
Ma il difetto - da maggio, appunto - è cancellato. Con Penelope, il primo album del consolidato quartetto salentino: che gli Adria hanno presentato nel cortile del Palazzo Baronale di Collepasso, da quelle parti chiamano più confidenzialmente castello. E che, in realtà, è una location recentemente ristrutturata, un contenitore assolutamente adatto ad ospitare le situazioni culturali che transitano. Come Collepasso InVeste d’Arte, una sei giorni approntata dall’associazione Cantieri Ideali che coniuga musica, teatro, letteratura e fotografia. Penelope, registrato alla Fabbrica dei Gesti di San Cesario, a pochi chilometri da Lecce, e supervisionato da Valerio Daniele, è quindi un disco che raccoglie parte della produzione già eseguita dal vivo in differenti occasioni. Complessivamente, undici tracce alle quali, nel corso del concerto di Collepasso, si sono affiancati altri titoli. Da "Moulinette" ad "Aujourd’hui", da "25 Trecce" (canto di matrice albanese) a “Non Ti Ho Detto” («scritto – rivela Claudio Prima – con la malinconia di chi non ha avuto il tempo di dire tutto»), da “Penelope” (è il brano che suggerisce il nome all’intera raccolta) a “Canto” («brano sviluppato in italiano, ma pensato in dialetto, dedicato alla musica popolare: nella speranza di conservarne la semplicità»), da “G24”( «quando la musica del mare si mescola al traffico dele città che si affacciano sui porti dell’Adriatico, si fa nervosa, caotica») a “Pa Llegar Hasta tu Lado” (unica cover, della messicana Lhasa De Sela). Per finire con Napoloni, un sunto delle danze che accompagnano gli interminabili matrimoni albanesi.
«Cercare la musica in Adriatico – scherza Claudio Prima – è come cercare la principessa in questo castello. Bisogna passeggiare lentamente, stanza per stanza, con passione: certi che il suo sguardo, prima o poi, premierà le fatiche della navigazione o del cammino». L’incrocio di trame musicali dove diverse identità musicali si incrociano senza scontrarsi è affidato all’organetto del suo capitano, al violoncello di Redi Hasa, arrivato in Salento da Tirana, ai sassofoni del galatinese Emanuele Coluccia e alla voce elastica e senza tempo di Maria Mazzotta, che allarga gli orizzonti, offrendo compiutezza ad un lavoro che Prima non esita a definire tritatutto. Non a caso: perché il punto nodale della questione è reinventare e reinventariare suoni e accordi, improvvisare, trascinare il patrimonio musicale di un porto verso un altro, mescolare, shekerare. Lasciandosi cullare e spalleggiare da quell’Adriatico che dà e pretende. Che tutto prende e tutto concede. E che non sta fermo mai.

Adria (Claudio Prima: organeto e voce; Maria Mazzotta: voce; Emanuele Coluccia: sassofoni; Redi Hasa: violoncello)
Collepasso (LE), Palazzo Baronale
Collepasso InVeste d’Arte

venerdì 2 luglio 2010

La prima di Bandervish


Un progetto a rimorchio dell’altro. Prima che il tempo cancelli la scia di quello precedente. Prima che ne spazzi il profumo e ne azzeri il flusso emotivo. Il disegno è giusto. Ed è quello che paga meglio. L’idea, cioè, è puntualmente premiata. Soprattutto se la musica dei Radiodervish, ormai, è materia di culto. Forse, non solo dentro i confini della Puglia: da dove il gruppo trascinato da Nabil Salameh è salpato verso un’avventura che, già da tempo, ha saputo coinvolgere l’attenzione di diversi angoli dell’intero Paese. Dettaglio che, peraltro, spiega quanto questa formazione possa persino liberarsi dalla necessità di ricorrere al marketing robusto: che, però, in tempi di poca sostanza e molta apparenza, non infastidisce affatto. Anzi, aiuta. Tanto più se i progetti si alimentano di energie nuove, come l’apporto di Teatri Abitati e, dunque, dell’ente regionale.
L’ultima scommessa di Nabil e soci (Michele Lobaccaro e Alessandro Pipino) si chiama Bandervish. Che è poi la fusione tra il nucleo storico dei Radiodervish e la Banda di Sannicandro di Bari: il cui castello – non dimentichiamolo - raccoglie da qualche stagione molte intuizioni e diversi concerti dell’ensembe italopalestinese. Bandervish, ovvero più di una trentina di musicisti su un unico palco. A condividere, come si dice in queste occasioni, esperienze e suggestioni, spartiti e arrangiamenti. Niente di straordinariamente innovativo, d’accordo: perché l’incrocio tra i sapori bandistici (e, più in generale, orchestrali) e la canzone, anche d’autore, è una manovra ultimamente ben lubrificata, che attira e rende parecchio in termini di audience. Il prodotto, tuttavia, rimane abbastanza suggestivo e questo va riconosciuto. E poi, in fondo, il bisogno di novità indirizza anche e soprattutto i sentieri della musica.
Bandervish, peraltro, è un progetto (e, ovviamente, anche un disco) che possiede anche un altro padre, il giovane (e intraprendente) Livio Minafra: figlio d’arte (di Pino), pianista, fisarmonicista, compositore e arrangiatore con la passione per la contaminazione e per la rilettura delle note già rassegnate. Un padre, in verità, assente nella prima di Putignano (era a Bolzano, impegnato in una contemporanea esibizione). E, comunque, rappresentato dal già citato Pino Minafra, uno dei due guest del live di piazza Moro (appena dopo di lui salirà sul palcoscenico pure il sassofonista Roberto Ottaviano). Guest che, per inciso, collaborano pure nella realizzazione del cd (uscito il 25 giugno), al pari di un altro sassofonista, Gaetano Partipilo. Le direttrici del concerto, essenzialmente, sono due: alcune nuove proposte e, innanzi tutto, la rielaborazione dei motivi più celebrati dei Radiodervish: privatisi, per l’occasione, degli archi. Rielaborazione che, però, non sboccia immediata. E che, invece, si arrampica con il tempo.
Il lavoro è corposo: e, da principio, i Radiodervish e la Banda di Sannicandro sembrano seguire binari paralleli, che non convergono. Che non si completano a vicenda. L’avvicinamento, cioè, è graduale. E si manifesta quando Nabil, Lobaccaro e Pipino assumono stabilmente il comando delle operazioni, dopo una ventina di minuti. Quando, per intenderci, i Radiodervish attingono compiutamente dal vecchio repertorio. Il concerto, dalla sua metà in poi, conquista forma e sostanza, equilibrio e ritmo, robustezza e impatto. Arricchendosi, anzi, di qualche venatura speziata. Magari, è vero, ci saremmo attesi qualche tirolo nuovo in più: ma il passato, certe volte, non stanca mai. E, allora, ben venga il restyling. E ben vengano le vie alternative di rivisitazione. Al di là dell’opportunità di limare ulteriormente e otttimizzare il progetto. Senza, per questo, perderne gli aromi di festa patronale in bilico tra Oriente ed Occidente, di Mediterraneo arcaico e contemporaneamente moderno.

Radiodervish (Nabil Salameh: voce; Michele Lobaccaro: chitarra e basso; Alessandro Pipino: fisarmonica e organetto) & la Banda di Sannicandro di Bari in “Bandervish” Guest Pino Minafra (tromba) e Roberto Ottaviano (sax tenore e sax soprano)

Putignano (BA), piazza Aldo Moro