mercoledì 22 giugno 2011

Pierpaolo non insiste più


We Insist. Noi insistiamo. Due vocaboli, un concetto. Forte, denso e preciso. Con un obiettivo e un bersaglio: ampiamente dichiarati. Che profumava tanto di resistenza. Resistenza culturale. E resistenza umana, più in generale. Resistenza a certe logiche logorate dalle convenienze, anche politiche. Prima ancora che a logiche di natura artistica. O a certe logiche di cartellone: attorno al quale si alimentano piccole e grandi rivalità. Soprattutto d’estate. Resistenza un po’ piccata. Ma di sostanza. Perché, al di là dei gusti popolari e alle esigenze delle piccole o grandi folle, c’è sempre qualcuno che si batte a favore della qualità: che, tuttavia, resta un accessorio astratto, un attributo soggettivo. Perchè c’è sempre qualcuno che, in fondo ad una stanza, si batte a favore della progettualità: cioè, è un dettaglio più oggettivo. E perché esiste differenza tra progettualità ed estemporaneità.
We Insist. Era la sfida, l’ultima sfida, appena l’anno scorso, di Pierpaolo Faggiano, cegliese, innamorato del jazz, giornalista pubblicista, collaboratore della Gazzetta del Mezzogiorno, ma anche animatore culturale. E ideatore del Ceglie Open Jazz Festival, un contenitore di buone idee al di fuori delle strade più convenzionali: un contenitore, per la verità, un po’ osteggiato da abitudini e consuetudini e, perciò, spazzato troppo presto da venti contrari. Quel Ceglie Open Jazz Festival da cui, orgogliasamente, era sorto proprio We Insist: un tentativo di resistenza non armata, creato sull'onda dalle esperienze musicali e con la complicità delle amicizie di lungo corso. Una ribellione a certi sentieri quasi obbligati, una maniera di continuare il cammino, un certo percorso. Pur affrontando difficoltà ancora peggiori: nessuna sovvenzione pubblica, una location decentrata, un’organizzazione forzatamente asciugata da qualsiasi orpello.
Quarantacinque settimane fa, We Insist durò il sogno di una notte. E neppure l’affluenza (ridotta) della gente gratificò il lavoro e le speranze di Pierpaolo, persona sensibile e anche abbastanza infastidita dalle avversità del quotidiano: come tanti. Precario in un mondo di precari: come molti. Negli affetti e nel lavoro. Ma, appunto, assai più sensibile di chi, su colonne come queste, continua a dettare il proprio pensiero, a spendere le proprie parole. E a spremere la propria angolatura delle cose. Fregandosene ancora di chi vive o sopravvive meglio: e che esibisce, magari, minori qualità. Pierpaolo, invece, no. Non ha ammortizzato le amarezze. La sua sensibilità, alla fine, non glielo ha permesso. E ci ha lasciati, volontariamente, in una calda sera di giugno, a quarantun anni. Appena compiuti. Sovraccaricandoci, contemporaneamente, di dubbi (su quel che avremmo voluto essere, tutti, e su quello che saremo) e rimpianti (di quello che avrebbe dovuto essere). E pure di qualche ricordo. Come la passione per la qualità, per il jazz e per l’organizzazione di eventi. Come il Ceglie Open Jazz Festival e We Insist, appendice seminascosta di un progetto interrotto. Qualcun altro, magari, adesso insisterà anche per lui. Pierpaolo ci ha provato, ma senza allontanarsi troppo. Si è fermato prima. Arrendendosi in anticipo sui tempi. Piegandosi, come direbbe chi parla e scrive bene, alle logiche del sistema. Intuendo, forse, che insistere è inutile, oggi. Oppure sbagliando ogni previsione, corroso da presagi malvagi. La seconda ipotesi, però, è ancora quella che preferiamo, malgrado tutto. Che ci garantisce ancora speranza e nuovo carburante. We Insist, noi insistiamo: anche per lui, che non se l’è sentita. Contraddicendo un po’ anche se stesso, è vero. E dichiarandosi sconfitto in una partita che racconta la sconfitta di tutti. Ciao, Pierpaolo. E buon viaggio.

domenica 19 giugno 2011

In piazza con Sinatra e Porter


Lo confessiamo: diffidiamo (e non poco) delle big band. Non perchè ne disconosciamo il contributo enorme offerto al jazz del novecento, al processo di divulgazione della musica nelle fasce più popolari dei cinque continenti e a una corposa quantità di artisti: cresciuti e fortificati da esperienze di palco e di prove, migliorati da incontri e collaborazioni, cullati dall’interazione che solo un lavoro di gruppo può assicurare. E neppure perché sottovalutiamo lo spessore degno della gavetta: e sì, in quanto, molte volte, big band significa arrampicarsi su un mondo che si apre. Ci delude, semmai, quella brutta abitudine di sacrificare le big band e il loro bagaglio culturale ai concetti del mero diversivo da piazza, al riempitivo che fa audience, alla facilità di espressione che ammazza la qualità per acaparrarsi un consenso più facile, più immediato. Almeno in Italia. Big band, da noi, da troppo tempo, significa standard duplicati da sempre (e sempre gli stessi), spettacoli annacquati e commerciali, buoni a garantirsi il cachet, arrangiamenti sbrigativi o pressapochisti che provano a catturare un pubblico eterogeneo e, dunque, non troppo esigente. Senza, in realtà, dare nulla. E, quindi, causa di live senz’anima, senza garbo, stucchevoli.
Anche per questo, con una dose robusta di prevenzione e un po’ di scetticismo, nutrivamo alcuni dubbi sulla data monopolitana della Lucanian Jazz Project, che oggi è – più semplicemente – la Ljp Big Band diretta da Dino Plasmati. Formazione di evidente matrice lucana (oltre al direttore, la larga maggioranza dei protagonisti arriva dalla Basilicata) che, invece, ci ha piacevolmente smentiti. Lasciandoci soddisfatti. Sia per il repertorio (certo, qualche tributo alla larga platea c’era, come gli immancabili brani resi immortali da Liza Minnelli: indovinate quali), talvolta popolare, ma non esageratamente populistico, che per il confezionamento di una serata aperta a chiunque, nella piazza principale del borgo adriatico. Confezionamento che ha tenuto conto di un linguaggio fortunatamente non troppo confidenziale con la gente, malgrado un paio di disattenzioni (la professionalità, che non va confusa con la vanità o lo snobismo, paga sempre, in termini di qualità), e di arrangiamenti sempre eleganti, mai banali, jazzisticamente corretti. Per un momento di musica e non di spettacolo leggero: chi conosce la differenza capirà, chi non la conosce non riuscirà mai a distinguere. E, allora, diventa inutile spiegare.
La Ljp Big Band, ensemble nato nel duemilasette, matura con il sound carico dei suoi fiati (ci piace sottolineare, a proposito, gli assoli di un sempre più convincente Claudio Chiarelli, che poi è con il pianista Antonio Nisi e il trombettista Marco Lorusso uno dei tre pugliesi della formazione) e si insinua con il drumming deciso della batteria di Vito Plasmati, passandro attraverso un basso (Franco Fossanova) e il piano elettrico del già citato Nisi (esatto, piano elettrico: lo sforzo dell’organizzazione dell’evento non ha saputo o potuto garantire un pianoforte, seppur verticale. Peccato). Ospitando, infine, la voce del crooner molese Beppe Delre che, ormai stabilmente, lavora con la band spostandosi tra Frank Sinatra (e, ovviamente, i suoi successi, anche quelli un po’ meno conosciuti) e Cole Porter, il suo preferito. In definitiva, un tentativo (riuscito) di riconciliazione tra l’universo delle grandi orchestre e le piazze di provincia. «Peraltro, la salvaguardia di una certa linea musicale era e resta il nostro obiettivo principale». Dino Plasmati, chitarrista materano prestato alla direzione, avalla la sensazione. «Non a caso, molta attenzione è stata rivolta agli arrangiamenti: alcuni dei quali sono stati rielaborati dalla Ljp Big Band, mentre per molti titoli abbiamo acquistato quelli originali, ovvero quelli utilizzati dalle grandi big band statunitensi». La differenza, quando c’è, si vede. E si sente.

Beppe Delre (voce) & la LJP Big Band (Claudio Chiarelli: sax alto; Michele Munno: sax alto; Enzo Appella: sax alto; Angelo Bianchi: sax tenore; Raffaele Amato: trombone; Francesco Tritto: trombone; Eustachio Rondinone: corno francese; Pino Ciannella: tromba; Marco Lorusso: tromba; Marco Sinno: tromba; Emanuele Lamacchia: tromba; Antonio Nisi: piano; Franco Fossanova: basso; Vito Plasmati: batteria) diretta da Dino Plasmati in "Around Sinatra"
Monopoli (BA), piazza Vittorio Emanuele

sabato 4 giugno 2011

Bari in Jazz, una residenza per cominciare


Il quartetto nordico di Tomasz Stanko, James Taylor, Bojan Z e la reunion coordinata da Mauro Gargano, i Blues Breakers Renewed, il quintetto di Sylwester Ostrowsky e Piotr Wojtasik, Cuong Vu e l’Apulian Orchestra, Anthony Joseph, il trio di Blake Allison Drake, la Cosmic Band di Gianluca Petrella: il cartellone duemilaundici di Bari in Jazz offre il meglio che la ricerca last minute del suo direttore artistico Roberto Ottaviano è riuscita a selezionare. La kermesse targata Abusuan (quindici concerti in quattro date, dal ventotto giugno al due luglio) è già vicina. Come sempre, dislocata in diverse location (il Teatro Piccinni, piazza del Ferrarese e l’Auditorium della Vallisa) e, come sempre, aperta anche ad espressioni autenticamente pugliesi quali i Camillorè (gruppo che, peraltro, si allontana dai canoni del jazz), l’Hocus Pocus Quartet di Gianni Lenoci, il quartetto di Rino Arbore, la band di Dario Skepisi, la Reunion Platz di Michele Giuliani e la tribù di Raffaele Casarano, che propone Argento, la sua ultima fatica discografica.
La settima edizione del festival, però, propone altri due episodi fuori programma. Uno, quello di chiusura, è assolutamente pregiato: il tredici ottobre si esibisce Wayne Shorter, leggenda vivente che, in Puglia, costituisce uno degli appuntamenti musicali più attesi dell’intero anno. L’altro, invece, è l’antipasto che lo stesso Ottaviano si è ritagliato per sé e per un plotone di amici (il contrabbassista Giorgio Vendola e il trio olandese dei Boi Akih) nella chiesa di Santa Teresa dei Maschi. Greencard (è questo il nome del progetto) è, innanzi tutto, il prodotto sgrezzato di una reunion, il frutto più immediato della residenza incoraggiata da Puglia Sounds, che affianca nel lavoro quotidiano di Bari in Jazz 2011 il Centro Abusuan, e dell’ambasciata dei Paesi Bassi in Italia, in collaborazione con il programma Dutch Italian Music Exchange e il Performing Art Fund. Lavoro che, prossimamente, la formazione presenterà nei festival di Amsterdam, Rotterdam ed Utrecht. E che, nello specifico, si incarica di riassumere l’incontro tra il patrimonio musicale di terre lontane (le Molucche, suolo d’origine della voce del gruppo, Monica Akihary), gli umori e i sapori della musica etnica e, infine, la storia del jazz di matrice europea, oggi particolarmente attirato dalla contaminazione e stimolato da una sete di modernità travolgente.
Dalla commistione, peraltro, esce un concerto dai contorni cameristici, non eccessivamente terragno, dove vocalizzazioni e scat offrono la sponda a un lavoro delicato e ad un sound di gradevole raffinatezza, che viaggia attraverso molteplici linguaggi, sfiorando talvolta anche il free jazz. Monica Akirahy possiede molta tecnica, voce plastica e modulata. Gli oggetti sonori di Sandip Bhattachraya sussurrano, ma offrono densità. La chitarra di Niels Brouwer si muove tra mille atmosfere, trasformandosi spesso in strumento di percussione. I sassofoni di Roberto Ottaviano, artista dalle intuizioni argute (non ricordiamo un solo progetto fallito), entrano nel tessuto del live con robustezza e il contrabbasso dosato di Giorgio Vendola unisce le varie anime della formazione. «Tutto nasce – fa sapere Ottaviano – da uno scambio di registrazioni: Monica e il suo gruppo hanno avuto la possibilità di ascoltare Pinturas, un recente lavoro realizzato a mio nome, e noi abbiamo valutato i loro primi due album. E, infine, ci siamo incontrati due giorni prima di esibirci, provando proprio all’interno di Santa Teresa dei Maschi. Del resto, è da tempo che cercavamo di confezionare una residenza come questa: che, di fatto, è l’esperienza d’esordio».
Il resto, dicevamo, sta per arrivare. In coda alle solite difficoltà di percorso e tra qualche venatura polemica. «Questa – puntualizza lo stesso Ottaviano – è un’avventura nata alle piscine comunali, sette anni fa. Da allora, si sono sviluppate situazioni differenti, con le quali il festival è cresciuto, nonostante i tempi difficili che la cultura e, quindi, anche la musica hanno dovuto affrontare. Ritengo, tuttavia, che gli sforzi e l’attenzione verso questa idea non debbano attenuarsi. Anzi. Bari in Jazz non può più essere considerato come il frutto dell’impegno di un’associazione culturale come Abusuan, che si avvale dell’affiancamento di alcune istituzioni e di uno sponsor importante. La progettualità, invece, necessita di nuove risorse, più robuste. Parlo per quel che mi riguarda: un direttore artistico di una manifestazione di livello non può limitarsi a concentrare le proprie energie sui last minute, né preoccuparsi di sforare il budget di mille euro. Un festival non può e non deve accontentarsi su situazioni di ripiego, ma nutrirsi di una propria identità, anno dopo anno. Arricchendosi, se possibile, di momenti di incontro che valorizzino i concerti e che seguano i suggerimenti che arrivano dal resto del Paese e pure dall’estero. Lavorando, cioè, in anticipo con i tempi: dunque, con un budget prestabilito e solido». Limpido, inequivocabile. Ma, oggi, persino utopistico.

Roberto Ottaviano (sax soprano e sopranino), Giorgio Vendola (contrabbasso) & Boi Akih (Monica Akihary: voce; Niels Brouwer: chitarra; Sandip Bhattachraya: percussioni) in “Greencard”
Bari, Chiesa di Santa Teresa dei Maschi
Bari in Jazz 2011

venerdì 3 giugno 2011

L'Escargot, tra nostalgie e piccole allegrie


Organetti, fisarmonica, violino, banjo e chitarre, flauti, tamburello e varia bigiotteria della musica: cornamusa e sansula compresi. L’Escargot è un quartetto quasi colto, con le radici ben salde nel passato. Di una cultura che solo la musica popolare riesce a suggerire. E popolare nei sentimenti, che solo certa musica sospesa nel tempo riesce a modellare. Quella dell’Escargot è musica nascosta che, all’improvviso, deborda. Impressa nella memoria collettiva, ma tirata fuori da anfratti dimenticati e soffitte polverose. Come certe cartoline invecchiate dagli anni, ingiallite. Melodia e armonia: tutto ruota attorno a questi due postulati. Ma c’è anche il buon gusto. Il gruppo, peraltro, è rodato. Massimo La Zazzera, Alessandro Pipino, Adolfo La Volpe e Stefania Ladisa cooperano da molto: rubando qua e là (in Francia, per la precisione) e, soprattutto, percorrendo la strada della brillantezza compositiva.
Il progetto è una bella idea che fluttua tra nostalgie e piccole allegrie, dove il sound gronda da un sapere antico che si nutre di stimoli nuovi. Perfettamente valorizzato, poi, dal largo che si apre tra il castello, il mare e il centro storico di Monopoli e dalla serata dolcemente fresca di un giugno appena sbocciato. Concerto speziato: quasi intimo, prima che la platea si affolli, a lavori già in corso. E che si snoda attraverso il primo (e, al momento, unico) lavoro discografico licenziato della formazione, Corri. Ultimamente ristampato, tra l’altro: notizia di servizio sottolineata, del resto, con orgoglio. Ma che guarda, contemporaneamente, al secondo album, in via di definizione. Il primo titolo in scaletta sa di manifesto programmatico: “La Vecchia Singer”, spiega Adolfo La Volpe, è il simbolo di un passato e di un’Italia ormai lontana che, forse, bisognerebbe riscoprire. O recuperare. “In Cammino”, invece, è la colonna sonora di un documentario girato recentemente da Claudia Cassandro – e già in circolazione - sul quartetto, oltre che un jingle passato per i canali Mediaset.
Del primo cd fanno parte anche “Magida”, “Corri” e la più conosciuta “Norma”, composizione di Massimo La Zazzera (ex Radicanto, Kiltartan, Ensemble Calixtinus e Ziringaglia, tra gli altri) ispirata ad una burattinaia. “Loubov”, invece, è uno dei tre omaggi particolarmente sentiti al francese Stéphane Delicq (gli altri sono “Les Amities” ed “Estrellas”), mentre “Burbero” è una mazurka che farà parte del secondo disco. Lavolpe firma “Mauve”, Stefania Ladisa “Falce di Luna”, Alessandro Pipino – che poi è anche il tastierista dei Radiodervish - “Valle dei Treni Interi” (avete letto bene, il titolo è proprio quello). Infine, “Les Valcerves” è un tributo ad un altro autore francese, il fisarmonicista Marc Perrone. Il risultato finale è un live lieve, ma intenso. Ben strutturato, ben confezionato. Di largo consumo, senza perdere di qualità. Per una scelta, quella di Biolfish 2011, azzeccatissima. Che fa bene al movimento musicale di questa terra, che ha sempre qualcosa da dire e da dare. Anche se certe date passano inosservate. Nel migliore dei casi, trasversali. Ma l’incapacità di pubblicizzare o di sostenere determinati appuntamenti è, probabilmente, una delle condanne della Puglia: ci siamo abituati.

(foto Pasquale Raimondo)

L’Escargot (Massimo La Zazzera: flauti, cornamusa, tamburello, chitarra, percussioni; Alessandro Pipino: organetto diatonico e fisarmonica; Stefania Ladisa: violino; Adolfo La Volpe: chitarre e banjo)
Monopoli (BA), Largo Castello di Carlo V
Biolfish 2011

giovedì 2 giugno 2011

Il cinema secondo i Bumps


C’erano i Tàngheri, un tempo. A bagnarsi d’ironia tra il tango e il jazz e, più tardi, pure tra molte venature rock. Talvolta, cavalcando (e schernendo) i luoghi comuni che si mescolano alle note. Con il loro corredo di live per gli angoli della Puglia e di dischi pubblicati (tre: due dei quali condivisi con Marc Ribot, chitarrista legato - tra gli altri - a Tom Waits). Un giorno, però, Antonio Di Lorenzo, Davide Penta e Vince Abbracciante decidono di reinventarsi. Meglio ancora, di dedicarsi ad un percorso nuovo, diverso. Cambia, prima di tutto, il nome del gruppo. Non più Tàngheri, ma The Bumps. Non più tango, non più jazz. Ma più tonalità anni settanta, più elettricità, accordi d’assalto. E niente più fisarmonica, ad esempio. Vince Abbracciante approfondisce la conoscenza con l’hammond, il rhodes e il farfisa. Resta, sul fondo, un’anima rockettara che si fonde con i ricordi di una volta e con quello che viene in mente, lì per lì. Il disegno diventa un frullatore di stili e di tendenze. E ci entra praticamente di tutto.
A questo punto, però, occorre anche ideare un repertorio di una certa originalità. Come certe musiche da film, magari non troppo ripercorse negli anni, rivedute e riarrangiate in stile Bumps. Per esempio, un motivo (“Milano Rithm’n’Blues”) tratto da La Morte Risale a Ieri Sera, pellicola del millenovecentosettanta di Duccio Tessari. O un altro (“Hammondissimo Bellotti”) ispirato da Bellotti Forever di Pierfortunato Pigni. Oppure “Una Rosa per Tutti” di Bacalov, prelevato dall’ononimo film di Franco Rossi. O l’allegretto morriconiano di Le Foto Proibite di una Signora per Bene, di Luciano Ercoli, o una delle colonne sonore di Bello, Onesto, Emigrato Australia di Luigi Zampa, de Il Dio Serpente di Piero Vivarelli, de Il Commissario Pepe di Ettore Scola, de Gli Ordini Sono Ordini di Franco Girardi, de La Matriarca di Pasquale Festa Campanile, di Emmanuelle From Paris di Felice Troppo, di Rivelazioni di un Maniaco Sessuale di Roberto Bianchi e di Né Capo, Né Coda di Furio Pacifico. Oltre, ovviamente, a un ritaglio musicale ricavato dal film Il Ritorno dei Bumps di Gualtiero Mezzacolli: che non poteva mancare.
Fatto il repertorio, va a finire quasi sempre così, fatto anche il disco. Appena uscito (aprile) con la griffe Bumps Records (e sì, perchè la creazione di un'etichetta propria è un ramo del progetto). Si chiama Playin’ Italian Cinedelics: quattordici tracce realizzate con la collaborazione di altri musicisti pugliesi (i vocalist Giuseppe Delre e Francesca Leone, i sassofonisti Claudio Chiarelli e Francesco Lomangino, il chitarrista Giuseppe Pascucci, il flicornista Silvestro Di Tano) e confezionate da una copertina decisamente vintage. Che rende l’idea. E che prepara spiritualmente alla presentazione del lavoro, prevista nei prossimi giorni (il quattro giugno) a Fasano, parte integrante dell’edizione duemilaundici di Fasano Jazz. In cui, per la verità, la band allarga gli orizzonti, ospitando alcuni amici (come il chitarrista materano Dino Plasmati e il sassofonista Fabrizio Scarafile) e la voce di Mia Cooper. Scherzandoci sopra: perché, anche se cambia il nome del gruppo, il target di riferimento e il progetto, non muta la filosofia musicale di fondo. Strettamente legata a quel concetto di cui i Bumps sembrano fieri, tanto da esibirlo sul sito web del trio: «un irriverente fluttuare tra jazz e avanguardia, noise music e scampoli rock, reminiscenze cinematografiche e scatti urbani. Punk Jazz?».

The Bumps (Vince Abbracciante: organo Hammond, farfisa e rhodes; Davide Penta: contrabbasso, fender jazz e frankenbass; Antonio Di Lorenzo: batteria e percussioni; Francesca Leone: voce; Beppe Delre: voce e whistle; Francesco Lomangino: sax tenore e flauto; Claudio Chiarelli: sax alto; Giuseppe Pascucci: chitarra; Silvestro Di Tano: flicorno)
Playin’ Italian Cinedelics (Bumps Records, aprile 2011)