venerdì 27 luglio 2012

Mister Jarrett, è stato un piacere



Concetti a confronto, su barricate diverse. E due partiti ben distinti. Mentre, nel mezzo, scorre la musica. Quella di rango. Di qua, la fazione degli scontenti: per i quali la funzionalità di un festival (jazzistico, in questo caso) abita nella progettualità che dovrebbe scandire i calendari. Una progettualità che non confluisce necessariamente attorno al mito e al suo nome, ma che si alimenta di un'idea più articolata, che possa garantirsi un percorso proprio, incentivando gli artisti, premiando la sperimentazione e educando il pubblico. Senza penalizzare, cioè, il movimento. E senza sacrificare denaro che, altrimenti, andrebbe a coprire il costo di tanti concerti di qualità, ma meno pubblicizzati. Centocinquantamila euro di cachet (più spese, come il jet privato: così si dice) per la presenza, al Petruzzelli di Bari, di Keith Jarrett e del suo gruppo, possono sembrare - oltre tutto - uno schiaffo alla gente comune che naviga nei mari cupi di questo inizio di millennio. A fronte, peraltro, della cattiva fama che accompagna il band leader, ovunque considerato personaggio capriccioso, intransigente e arrogante. Inappuntabile davanti ad una tastiera, ma scorbucito e tagliente appena si volta. Nemico dichiarato di fotografi, cineoperatori e ascoltatori maleducati (ma questo è un pregio, diciamolo sùbito). E, da un po', anche della vasta platea di Umbria Jazz. Palcoscenico, questo, sul quale probabilmente non salirà più, dopo le due ultime burrascose esperienze. E' un partito risentito, quello dei contrari. Che sembra aver trovato la sponda ideale in Roberto Ottaviano, direttore artistico (dimissionario: non solo, ma anche per queste motivazioni) di Bari in Jazz, contenitore che ha chiuso ufficialmente il perorso del duemiladodici con l'evento in atteso dell'anno. Piaccia o no. Proprio quel Roberto Ottaviano che (chi ci segue, ormai, lo sa) non ammaina la bandiera sventolata per diversi anni: solo la pianificazione artistica, cioè, accresce lo spessore di una rassegna.
Di là, invece, il partito dei favorevoli. E, in definitiva, degli entusiasti. Keith Jarrett è una fetta saporita della storia del jazz. E il suo stile, ancora purissimo (anzi, c'è persino chi giura che l'artista nordamericano abbia guadagnato, nel tempo, ancora più eleganza e un rigiore pressochè assoluto), vale la spesa dei tagliandi d'ingresso (alcuni complessivamenet popolari, altri di taglio decisamente più alto: gli sponsor e i contributi pubblici, del resto, non riescono a coprire tutto). Non per niente, jazzisticamente parlando, il signore di Allentown è il più pagato al mondo. E talmente facoltoso da potersi permettere eccessi e ruvidezze da star un po' viziata (il Petruzzelli, per esempio, ha dovuto adeguarsi, predisponendo la temperatura interna sui ventuno gradi: prendere o lasciare). E poi il suo pianismo, oggi, è quanto di meglio si possa ascoltare: e, dunque, anche Bari (come Perugia e altre location di prestigio) possiede il diritto di godere i suoi momenti di grandeur musicale. Senza aggiungere che, per un festival determinato a imporsi in ambito nazionale, è arduo assai acquisire quotazioni senza poter attingere alle firme più importanti: Umbria Jazz insegna. Il partito dei favorevoli, comunque, non si pente mai della scelta, neppure un attimo. Tributando il rispetto richiesto e dovuto. Calandosi in un silenzio assoluto, molto più che religioso, addirittura anacrononistico, di questi tempi. Sarà per l'occasione di gala. Sarà per i contorni regali del teatro più bello di Puglia. Sarà per il prezzo di una sera speciale: che quasi obbliga tutti a non disperdere neppure un secondo di quell'ora e tre quarti del live che il trio, superando qualsiasi ottimistica previsione, concede. Al netto della pausa intermedia, più cameristica che jazzistica. O sarà per il timore di perdere il privilegio, nel pieno del tragitto: l'irritato Jarrett, altre volte, ha tranciato lo spettacolo a metà. Meglio non contraddirlo e seguire le indicazioni, quindi.
Dolce imposizione, però: l'esibizione è una di quelle che, al di là dei luoghi comuni, si fa inseguire con naturalezza. Anche se le tonalità del contrabbasso del settantottenne (e ancora sufficientemente giovanile) Gary Peacock si avvertono poco (Jarrett, qualche volta, abbandona il piano e si alza per accertarsi del problema tecnico). E mentre la raffinatissima batteria di Jack Dejohnette ricama, in punta di bacchette, trame talvolta ardite. Ma questa è davvero una serata speciale. E, probabilmente, anche fortunata. Il Maestro è di buon umore: lo dimostra l'interpretazione asciutta, ma priva di inquietudini. Lo conferma la durata del concerto. Lo sancisce il numero di bis accordati alla platea (tre). E persino un dialogo serrato nei tempi, ma cordiale, con uno spettatore che lo ringrazia. Certo, Jarrett arriva sul palco con le mani in tasca (un atteggiamento di sfida alla musica, o al mondo, o a se stesso, chissà), suona e se ne va. Niente parole, solo musica. E snodatissimi inchini (prima, durante e dopo) verso la gente che applaude adorante. In una tipologia di scenario (un teatro) che, evidentemente, gradisce particolarmente. Il resto, sono note che scorrono con precisione chirurgica, austerità e soddisfazione: di chi esegue, di chi ascolta e anche di chi ha promosso l'iniziativa: Abusuan e Puglia Sounds su tutti. Tra un blues e una ballad, in mezzo all'esercito dei favorevoli che c'erano e lontano da quello dei contrari che non c'erano. Eserciti fieri e tosti, ognuno con il proprio carico di ragioni e convinzioni. Che si eludono e si compensano. Mentre, ai confini delle barricate, sgorga la musica. Quella che non si può censurare, al di là delle posizioni di ciascuno. E che riesce persino a scacciare le ombre di una leggenda metropolitana: il personaggio Keith Jarrett non sembra poi così cattivo come ci hanno raccontato.

Keith Jarrett (pianoforte), Gary Peacock (contrabbasso) & Jack Dejohnette (batteria)
Bari, Teatro Petruzzelli
Bari in Jazz 2012

lunedì 16 luglio 2012

Sound Briefing, vecchi ragazzi che si ritrovano

I ragazzi rampanti di un tempo si attrezzano ancora per scalare la musica e la vita, ma il tempo è più ottuso di noi e incalza per tutti, come scriveva qualcuno, e i ragazzi di allora sono ormai discretamente adulti. Addirittura, uno di questi (Fabrizio Bosso) è in cima ai pensieri di tanti appassionati del genere e ha decisamente guadagnato una popolarità alta e salda su tutta la penisola. E gli altri, come Claudio Filippini, Gaetano Partipilo, Giuseppe Bassi e Fabio Accardi, fanno parte da anni, a pieno diritto, della buona borghesia jazzistica di quest'Italia che sembra vendersi sempre più alle cover band e alla note di media e scarsa qualità. Ma sono ragazzi, questi, che negli ultimi anni del secolo passato condividevano gusti, tendenze, sogni, visioni ed esperienze artistiche. Pronti ad aprire la porta ad un universo misterioso e accattivante. Disposti a misurarsi, a progettare, ad aggrapparsi ad una o più idee, a sondare le strade che partono dalle sette note e portano chissà dove. E chissà quando. Tutti sulla piattaforma comune di un laboratorio musicale che, allora, era Bari. Dove lo stesso Bosso, piemontese di origine, era stato attratto o, forse, divorato. O, più semplicemente, adottato. E dove i ragazzi del Fez, il mitico Fez che Nicola Conte aveva inventato, provavano a costruirsi un futuro.
Questi ragazzi di un tempo, poi, hanno percorso strade diverse. Parallele, talvolta. Ma, in certi frangenti, pure convergenti. Stabilendosi altrove (come Bosso). Rientrando alla propria residenza (Filippini è pescarese). Rimanendo in Puglia (come Bassi e Partipilo), pur ritagliandosi la possibilità di viaggiare e arricchirsi. Oppure varcando le Alpi (è il caso di Accardi), per poi rientrare alla base. Ritrovandosi, però, alla prima occasione utile, qua e là. Comunque, con la promessa implicita di rivedersi, di risentirsi. Ognuo per proprio conto, dunque. E, nel bagaglio di ciascuno, un progetto condiviso. Che, un po' di estati e inverni dopo, Mordente Records (la giovane etichetta indipendente lanciata sul mercato proprio da Fabio Accardi, al suo terzo titolo) ha voluto ripescare dalla memoria. Ecco, così, Sound Briefing, un disco ufficialmente licenziato alla fine di maggio e sul punto di essere presentato al pubblico (al Mavù Club di Locorotondo, la notte tra il ventotto e il ventinove luglio, praticamente a ridosso della prima dell'edizione duemiladodici del Locus Festival, che si tiene proprio nella città della Valle d'Itria).
La fatica discografica del gruppo (The Jazz Convention, si chiama) nasce, in realtà, a ridosso dell'incontro live consumatosi nel duemilaundici a Molfetta e prova a misturare un ristretto numero di tributi ad alcuni big del jazz ("Billie's Bounce" di Charlie Parker, "The Rumproller" di Andrew Hill, "Yes I Can, No You Can't" di Lee Morgan) a sette composizioni originali ("Il Fiore Purpureo" griffato da Filippini e già presente in uno dei lavori a suo nome, "Silvesonic" e "Hozic" di Gaetano Partipilo, la serrata "Silly Toy" di Accardi, "In Volo" di Bosso e "Endless Dream" e la ballade "Daniela's Walking" di Bassi). Per inciso, proprio quest'ultimo titolo è dichiaratamente dedicato a Daniela D'Ercole, già compagna (di vita e di musica) del contrabbassista barese, prematuramente scomparsa a New York nel novembre scorso. Dai toni forti e accesi, Sound Briefing (prodotto da Puglia Sounds) è, in definitiva, un hard bop che si fa ascoltare con facilità e che, ovviamente, non dimentica di far spazio agli assoli e alle qualità interpretative dei singoli (particolarmente accattivante, in "Silly Toy", il dialogo tosto e sincero del sax di Partipilo e della tromba di Bosso). Del resto, una reunion è anche l'occasione migliore per divertirsi assieme. O no?

Sound Briefing (Mordente Records, maggio 2012)
Fabrizio Bosso (tromba), Gaetano Partipilo (sassofoni), Claudio Filippini (pianoforte), Giuseppe Bassi (contrabbasso) & Fabio Accardi (batteria)

giovedì 12 luglio 2012

De Santis, cantastorie moderno del Salento


Il cantastorie esiste ancora. Solo che la figura si è evoluta. E si sono evolute la tecnica del racconto, la semantica, l'approccio con la gente che ascolta e applaude, le dinamiche di comunicazione e qualche altro dettaglio ancora. Poi, oggi, c'è internet. E c'è youtube. E da lì, magari, passa parecchia produzione: che raggiunge il pubblico dietro la scrivania, oppure in un qualsiasi luogo che possa ospitare un tablet, uno smartphone o un portatile vecchio stampo. Prima ancora che nelle piazze, come si usava un tempo. Il cantastorie, di questi tempi, è un cantautore popolare: non troppo snob, ma al passo con la quotidianità. Che ne modella il linguaggio, la metrica e qualche altra cosa. Un cantautore che approfitta di serate quasi confidenziali, in questa o quella rassegna. In questa o in quella location: dove, perchè no, si prova a percorrere strade musicali parallele alle più battute, senza glamour e senza troppi effetti speciali, ma con un paio di idee da sviluppare. Pensando che fare musica, fare spettacolo e fare cultura è ancora possibile, attraverso la parola che insegue una rima e un paio di accordi in croce.
Il cantastorie non è ancora un retaggio dimenticato (o da dimenticare) del passato. Ma sopravvive, seppur con fatica grande. In provincia, ovvio, è più facile. E in certi angoli di un'Italia ancora verace lo è di più. Il Salento, ad esempio, è una penisola che sa custodire ancora certi ricordi, certi sapori, certe storie: da raccontare e da sentirsi raccontare. E' un lembo di terra che guarda avanti, ma che pure si rifiuta di segare per sempre il legame con il ritmo ancestrale che una chitarra, una voce e un po' di tradizione possono combinare. Mino De Santis, infatti, arriva da Tuglie. E del suo Salento parla. E, con ironia, sta cominciando a percorrere il Salento per presentare Caminante, il suo secondo disco. Perchè, di questi tempi, il cantastorie (e De Santis lo è: e ci auguriamo che non si offenda, in quanto è una condizione degnissima, è una dote ed è, oltre tutto, una verità) è discograficamente evoluto e, come vedremo, non rinuncia neppure a confezionare quelli che, una volta, si chiamavano videoclip e, adesso, sono veri e propri cortometraggi.
Cantastorie, dunque. O cantautore di estrazione terragna, fa lo stesso. Strumentazione e tonalità essenziali, timbri decisi e semplici, molte strofe, tanti concetti: la ricetta è semplice e funziona puntualmente. Chiaro, è la parola che viene prima dell'elemento squisitamente musicale. E' la parola che comanda. La parola, che poi è la storia, le storie. Storie che vengono da lontano, che dicono di una terra e dei suoi comandamenti, del suo passato e del suo presente, delle sue inclinazioni e delle sua speranze, dei suoi riti pagani e dei suoi drammi. Ma anche della vita dell'uomo qualunque e della morte, dei tic e dei vizi, degli intrighi di provincia e delle picaresche pieghe di un fatto di pubblico dominio. Storie di emigrazione, di partenze e ritorni, di viaggi e di sogni, di costrizioni sociali e di ipocrisie, di piccoli centri e di consuetudini antiche. Storie allacciate da testi diretti, sempre divertiti e, talvolta, intrisi di ruvida schiettezza: come nella migliore tecnica della composizione tradizionale. Testi anche particolarmente verbosi, lunghi e sarrati, da accompagnare con attenzione, per non perdere qualcosa. E per non perdersi nei meandri del dialetto, che comunque si sposa con una certa facilità di vocabolario.
Caminante, che De Santis presenta ufficialmente anche a Martano, nel quadro degli appuntamenti organizzati dall'amministrazione cittadina, è pure l'occasione per riproporre qualche passo della precedente produzione, Scarcagnizzu. E per proiettare, a metà di un live che supera le due ore di durata, Lu Ccumpagnamentu (Il Funerale), un video di una decina di minuti diretto da Gianni De Blasi, griffato Zero Production e realizzato interamente proprio in questo angolo di Grecìa, grazie alla partecipazione di numerosissime comparse rubate alle proprie occupazioni. E', in pratica, il singolo estratto da Caminante che viene lanciato, proprio in questi giorni, sui canali di internet: perchè, dicevamo, cantastorie va bene, ma nel pieno rispetto del tempo che viviamo e del progresso che ci ingloba. Con una finestra aperta su quella storia e su quelle tradizioni dalle quali (chi più, chi meno) veniamo.

Mino De Santis (voce e chitarra) in "Caminante"
Martano (LE), Giardini del Palazzo dei Duchi Gaetani di Castelmola
Estate Martanese 2012

venerdì 6 luglio 2012

Bari in Jazz, programmazione doppia

Nomi inarrivabili. Quest'anno Bari in Jazz si mette a strafare. Per il gaudio magno degli appassionati. Otto luglio: Chick Corea. Ventisette luglio: Keith Jarrett. Entrambi sul palcoscenico nobile del Petruzzelli. Che, poi, sono i protagonisti dei due appuntamenti, diciamo così, fuori cartellone. Ma, se non vi basta, nella quattrogiorni istituzionale c'è pure qualche altro evento davvero niente male: Maria João e Mário Laginha, il sestetto di Paolo Damiani, Maria Pia De Vito e il Progetto Makemba di Majid Bekkas. Tutti insieme, appassionatamente, all'interno del Summer Music Village del lungomare del capoluogo. La kermesse, malgrado i problemi già analizzati in passato, rilancia. Spostando, però, l'obiettivo sui live di prestigio, che dovrebbero catturare il grande pubblico. E tagliando, nel contempo, le date più propedeutiche al progetto originario. Anche per questo, allora, Bari in Jazz perde, alla fine di questa ottava edizione, il suo direttore artistico Roberto Ottaviano: stanco, fa sapere, di dover prendere atto di determinate situazioni quando le decisioni sulla programmazione (che dovrebbero transitare soprattutto da lui) sono state già assunte e ratificate da altri (è il caso dell'ingaggio dei big, direttamente gestiti da Puglia Sounds). E irritato da problematiche varie, già sviscerate su queste colonne negli ultimi due anni. Ma ribadite prima dello start: «Ritengo di aver contribuito a costruire un festival dotato di idee, di una visione, di un'identità. Inseguendo determinate strategie, aggrappandomi a determinate dinamiche, provando a coinvolgere le istituzioni attorno ad un genere musicale che, tradizionalmente, non raccoglie platee oceaniche. E puntando sulla progettualità, più che sull'onda emotiva che certi nomi e cognomi sanno agitare. Ma, quando un direttore artistico vede tradire certe logiche, continuare diventa impossibile. E poi, a mio modo di vedere, nell'organizzazione di un festival ci sono alcune priorità da soddisfare».
Lo spettacolo, però, continua. Partendo dal tre luglio, quando gli acuti e i bassi di Maria João Monteiro Grancha, accompagnati dal pianoforte di Mário Laginha, si dividono il palco con l'Orchestra Sinfonica della Provincia di Bari, diretta da Lorenzo Marini. Symphonic Loves è un montaggio di differenti passaggi musicali (si va da brani mozambicani a composizioni brasiliane, passando ovviamente per il repertorio del suo Paese, il Portogallo) in cui la cantante lisbonese - che non è una fadista, come erroneamente riferito in fase di presentazione da molti media: sarebbe bastato documentarsi, prima - riesce ad offrire una gamma di vocalizzazioni delicate e, contemporaneamente, intense. Oggettivamente, però, la presenza del'orchestra finisce per ingabbiare la sua verve e il suo estro: il meglio, del resto, arriva quando Maria João (cinquantasei anni portati benissimo) duetta con Mário Laginha, pure lui palesemente liberato da vincoli e paletti. E, probabilmente, non aiutano neppure gli arrangiamenti scelti per l'occasione dallo stesso Laginha: tanto che il concerto fatica a decollare, acquisendo pienezza a metà percorso.
Appena ventiquattr'ore e Bari in Jazz bissa: sul palco, questa volta, il violoncellista Paolo Damiani ripropone, ventisette anni dopo, una vecchia idea presentata a Roccella Jonica, dove la matrice jazzistica si fonde con la tradizione sarda. Tracce di Anninnia è una suite in cui la Vanishing Band (formazione riveduta, così come sono riscritti gli spartiti) rilegge le ninna nanne isolane con fantasia, ironia e un po' di spirito free, sottolineato dalle suggessive incursioni e dallo scat di Diana Torto e Lauren Newton, dall'assidua presenza della batteria di Martin France, dagli assoli elettrici del francovietnamita Nguyen Le e dai fiati pastosi di Glenn Ferris e di Roberto Ottaviano. Il terzo appuntamento, invece, nasce dall'incrocio e dalla compensazione delle sonorità che arrivano da tre continenti diversi: l'Africa del marocchino Majid Bekkas e del maliano Ali Keita, l'Europa del sassofonista francese Louis Sclavis e il Sudamerica dell'esuberante Minino Garay. Il Progetto Makemba, sostenuto da un partner consolidato del festival quale è Alliance Française, è un momento riuscito di métissage o, per usare le parole del direttore artistico, di folklore immaginario. Il live, sin da sùbito, si trasforma in un affresco vivo e pulsante dove la commistione musicale abbatte qualsiasi barriera, seminando colori e sapori. Infine, chiude la rassegna (sei luglio) Crossing the Borders, l'incontro tra la voce di Maria Pia De Vito e il quintetto capitanato dal pianista napoletano Francesco Villani. Appositamente pensato per Bari in Jazz, il concerto si nutre di composizioni originali ben assemblate (dei fratelli Villani, di Gianni Falzone e del contrabbassista danese Jesper Bodilsen), alle quali si affancano due sole cover (una è "29 Settembre", resa celebre dagli Equipe '84 e da Lucio Battisti). Quattro situazioni dal vivo in altrettanti giorni: niente, numericamente parlando, in confronto all'edizione precedente, ma qualitativamente degnissime. Attendendo (ma questa è una storia parallela) il piano solo di Chick Corea e, successivamente, Keith Jarrett, Gary Peacock e Jack Dejohnette. Non gente qualsiasi.

Bari in Jazz 2012
Bari, Piazzale Cristoforo Colombo

Maria João (voce), Mário Laginha (pianoforte) & l'Orchestra Sinfonica della Provincia di Bari diretta da Lorenzo Marini in "Symphonic Loves"
03.07.2012

Paolo Damiani (violoncello) & Vanishing Band (Diana Torto: voce; Lauren Newton: voce; Glenn Ferris: trombone; Roberto Ottaviano: sassofoni; Nguyen Le: chitarra elettrica; Martin France: batteria) in "Tracce di Anninnia"
04.07.2012

Majid Bekkas (voce e oud), Ali Keita (balafon), Louis Sclavis (sassofono) & Minino Garay (batteria) in "Progetto Makemba"
05.07.2012

Maria Pia De Vito (voce), Francesco Villani (pianoforte), Valerio Scrignoli (chitarra elettrica), Giovanni Falzone (tromba), Jesper Bodilsen (contrabbasso) & Pierluigi Villani (batteria) in "Crossing the Borders"
06.07.2012

lunedì 2 luglio 2012

Adesso canta. E, allora, balla


Settemiladuecentotrentatre visualizzazioni on line, mentre scriviamo. In un paio di settimane: giorno più, giorno meno. L'estate e il web non si combattono, ma si alleano. E la gente che ama la musica naviga come se il sole non battesse forte, come invece batte. Il videoclip, nel caso specifico, è anche frizzante, ben strutturato, lieve e attraente nello stesso tempo. Ed è una novità assoluta per chi conosceva Camillo Pace, contrabbassista pugliese abituato a supportare una formazione già ben delineata: che si tratti di jazz o di altro. Perchè, da sempre, il ragazzo non conosce recinti musicali, muovendosi agilmente da un punto all'altro dell'universo delle sette note. Solo che, questa volta, il contrabbassista supera la soglia della subalternità in cui lo costringe lo strumento e diventa attrazione principale. Acquistando voce: intesa nell'accezione più letterale. E trasformandosi, senza alcun travaglio interno, anche in cantante, cioè frontman di se stesso e di un gruppo di musicisti, tutti rigorosamente made in Paglia, che gli ruotano attorno.
Basta un po' di coraggio sfacciato, un testo fresco (che, in mesi caldi come questi, allevia un po'), un po' di amici disposti a confezionare il prodotto finale (il video è solare e anche il montaggio è accattivante), una giovane attrice (la martinese Sara Putignano) che aggrazia la scene e una storia semplice (un sogno o la realtà): il clip del singolo "E Allora Balla" è già diventato un must in tutta la Valle d'Itria e anche oltre. Oltre che velocissimo veicolo promozionale di un disco completo (dieci tracce, di cui due esclusivamente strumentali) che Camillo Pace ha già idealmente preparato, ma che uscirà non prima della fine dell'anno. Un disco che non possiede ancora un titolo, nè un'etichetta. Al quale, ovviamente, contribuiranno molti compagni di viaggio collaudati: come Vince Abbracciante, Guido Vincenti, Lello Patruno ed Enzo Iaia, tutti già direttamente coinvolti nel singolo, o come Antonio Lorè, che appare nel video. Nomi ai quali se ne aggiungeranno altri, a ulteriori lavori in corso.
"E Allora Balla", cioè, non è ancora in circolazione, nel senso più classico del termine. O, per eessere più precisi, non è ancora in commercio (brutta immagine: ma occorre pur farsi capire). Eppure, la rete di internet e, più specificamente, il potentissimo canale di youtube l'hanno già promosso, divulgato, dignificato, celebrato. Sorprendendo, per primo, il suo ispiratore. E chi, con lui, ha lavorato ad un progetto nato, come si dice in questi casi, per puro piacere. O per vedere l'effetto che avrebbe innescato. Girata tra i vicoli di Cisternino e Locorotondo e davanti alla chiesa custodita all'interno della Masseria Sant'Elia, in agro di Martina, e costata cinque giorni di lavoro sotto la regia di Nicola Masciullo e la fotografia di Daniele Rizzi (il montaggio è di Graziano De Pace, la scenografia è firmata Fabiana Rizzi), la clip nasce sulla spinta degli apprezzamenti ottenuti, qua e là, da chi ha ascoltato la versione definitiva del brano. E, sicuramente, si appoggia saldamente sulla naturale simpatia di Camillo Pace, universalmente accreditato di una forte impronta comunicativa. E che, comunque, anche in passato si è confrontato con la composizione di testi (ricordiamo, per tutti, "il Volo dell'Angelo", cantata da Connie Valentini nell'album Uhuru Wehtu, di cui abbiamo diffusamente già parlato in questo blog), senza però azzardare il passo successivo, quello dell'interpretazione diretta. Che, a questo punto, sembra una soluzione nuova (o, almeno, un'opportunità in più) sul cammino del musicista martinese. Folgorato, si dice, da un incontro casuale nella notte leccese con la danza improvvisata e imprevedibile di un personaggio fuori dagli schemi. E imbeccato, all'improvviso, dal tastierista ostunese Piero Vincenti. Forse, il responsabile primo di quell'intuizione che potrebbe aver collocato sulla piazza un altro cantautore.