venerdì 27 luglio 2012

Mister Jarrett, è stato un piacere



Concetti a confronto, su barricate diverse. E due partiti ben distinti. Mentre, nel mezzo, scorre la musica. Quella di rango. Di qua, la fazione degli scontenti: per i quali la funzionalità di un festival (jazzistico, in questo caso) abita nella progettualità che dovrebbe scandire i calendari. Una progettualità che non confluisce necessariamente attorno al mito e al suo nome, ma che si alimenta di un'idea più articolata, che possa garantirsi un percorso proprio, incentivando gli artisti, premiando la sperimentazione e educando il pubblico. Senza penalizzare, cioè, il movimento. E senza sacrificare denaro che, altrimenti, andrebbe a coprire il costo di tanti concerti di qualità, ma meno pubblicizzati. Centocinquantamila euro di cachet (più spese, come il jet privato: così si dice) per la presenza, al Petruzzelli di Bari, di Keith Jarrett e del suo gruppo, possono sembrare - oltre tutto - uno schiaffo alla gente comune che naviga nei mari cupi di questo inizio di millennio. A fronte, peraltro, della cattiva fama che accompagna il band leader, ovunque considerato personaggio capriccioso, intransigente e arrogante. Inappuntabile davanti ad una tastiera, ma scorbucito e tagliente appena si volta. Nemico dichiarato di fotografi, cineoperatori e ascoltatori maleducati (ma questo è un pregio, diciamolo sùbito). E, da un po', anche della vasta platea di Umbria Jazz. Palcoscenico, questo, sul quale probabilmente non salirà più, dopo le due ultime burrascose esperienze. E' un partito risentito, quello dei contrari. Che sembra aver trovato la sponda ideale in Roberto Ottaviano, direttore artistico (dimissionario: non solo, ma anche per queste motivazioni) di Bari in Jazz, contenitore che ha chiuso ufficialmente il perorso del duemiladodici con l'evento in atteso dell'anno. Piaccia o no. Proprio quel Roberto Ottaviano che (chi ci segue, ormai, lo sa) non ammaina la bandiera sventolata per diversi anni: solo la pianificazione artistica, cioè, accresce lo spessore di una rassegna.
Di là, invece, il partito dei favorevoli. E, in definitiva, degli entusiasti. Keith Jarrett è una fetta saporita della storia del jazz. E il suo stile, ancora purissimo (anzi, c'è persino chi giura che l'artista nordamericano abbia guadagnato, nel tempo, ancora più eleganza e un rigiore pressochè assoluto), vale la spesa dei tagliandi d'ingresso (alcuni complessivamenet popolari, altri di taglio decisamente più alto: gli sponsor e i contributi pubblici, del resto, non riescono a coprire tutto). Non per niente, jazzisticamente parlando, il signore di Allentown è il più pagato al mondo. E talmente facoltoso da potersi permettere eccessi e ruvidezze da star un po' viziata (il Petruzzelli, per esempio, ha dovuto adeguarsi, predisponendo la temperatura interna sui ventuno gradi: prendere o lasciare). E poi il suo pianismo, oggi, è quanto di meglio si possa ascoltare: e, dunque, anche Bari (come Perugia e altre location di prestigio) possiede il diritto di godere i suoi momenti di grandeur musicale. Senza aggiungere che, per un festival determinato a imporsi in ambito nazionale, è arduo assai acquisire quotazioni senza poter attingere alle firme più importanti: Umbria Jazz insegna. Il partito dei favorevoli, comunque, non si pente mai della scelta, neppure un attimo. Tributando il rispetto richiesto e dovuto. Calandosi in un silenzio assoluto, molto più che religioso, addirittura anacrononistico, di questi tempi. Sarà per l'occasione di gala. Sarà per i contorni regali del teatro più bello di Puglia. Sarà per il prezzo di una sera speciale: che quasi obbliga tutti a non disperdere neppure un secondo di quell'ora e tre quarti del live che il trio, superando qualsiasi ottimistica previsione, concede. Al netto della pausa intermedia, più cameristica che jazzistica. O sarà per il timore di perdere il privilegio, nel pieno del tragitto: l'irritato Jarrett, altre volte, ha tranciato lo spettacolo a metà. Meglio non contraddirlo e seguire le indicazioni, quindi.
Dolce imposizione, però: l'esibizione è una di quelle che, al di là dei luoghi comuni, si fa inseguire con naturalezza. Anche se le tonalità del contrabbasso del settantottenne (e ancora sufficientemente giovanile) Gary Peacock si avvertono poco (Jarrett, qualche volta, abbandona il piano e si alza per accertarsi del problema tecnico). E mentre la raffinatissima batteria di Jack Dejohnette ricama, in punta di bacchette, trame talvolta ardite. Ma questa è davvero una serata speciale. E, probabilmente, anche fortunata. Il Maestro è di buon umore: lo dimostra l'interpretazione asciutta, ma priva di inquietudini. Lo conferma la durata del concerto. Lo sancisce il numero di bis accordati alla platea (tre). E persino un dialogo serrato nei tempi, ma cordiale, con uno spettatore che lo ringrazia. Certo, Jarrett arriva sul palco con le mani in tasca (un atteggiamento di sfida alla musica, o al mondo, o a se stesso, chissà), suona e se ne va. Niente parole, solo musica. E snodatissimi inchini (prima, durante e dopo) verso la gente che applaude adorante. In una tipologia di scenario (un teatro) che, evidentemente, gradisce particolarmente. Il resto, sono note che scorrono con precisione chirurgica, austerità e soddisfazione: di chi esegue, di chi ascolta e anche di chi ha promosso l'iniziativa: Abusuan e Puglia Sounds su tutti. Tra un blues e una ballad, in mezzo all'esercito dei favorevoli che c'erano e lontano da quello dei contrari che non c'erano. Eserciti fieri e tosti, ognuno con il proprio carico di ragioni e convinzioni. Che si eludono e si compensano. Mentre, ai confini delle barricate, sgorga la musica. Quella che non si può censurare, al di là delle posizioni di ciascuno. E che riesce persino a scacciare le ombre di una leggenda metropolitana: il personaggio Keith Jarrett non sembra poi così cattivo come ci hanno raccontato.

Keith Jarrett (pianoforte), Gary Peacock (contrabbasso) & Jack Dejohnette (batteria)
Bari, Teatro Petruzzelli
Bari in Jazz 2012